Tutte le volte che un nuovo serial-killer sconvolge il sereno tran tran della provincia italiana, la prima cosa che Studio Aperto sente la necessità di specificare è che l’assassino in questione era un solitario.
Salutava sempre, ma era uno che si faceva i fatti suoi.
No, non lo conoscevamo bene, non dava confidenza.
Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma chi può dirlo… non era tanto di compagnia.
Ma mica è solo Studio Aperto. La solitudine è quasi sempre motivo di sospetto o di inquietudine, ha quasi immancabilmente un’accezione negativa, almeno in parte.
Uno magari non si presenta con una teglia di lasagne alla porta di ogni condomino quando decide di traslocare in un palazzo nuovo, o non sta venti minuti a chiacchierare col portinaio ogni mattina, o non t’attacca bottone mentre butti la spazzatura… e allora è un solitario. Uno un po’ strano, pure.
Chissà.
Non è detto, però, che tutti i solitari siano dei potenziali maniaci omicidi. O degli stronzi che non hanno voglia di ricambiare le nostre esuberanti profferte di amicizia. C’è chi è propenso ad esternare con più semplicità i suoi sentimenti e chi, semplicemente, non ha troppa voglia di stazionare per ore sullo zerbino della signora Piera a farsi raccontare quotidianamente cosa c’era di buono al mercato.
Chi ha torto?
Chi ha ragione?
Nessuno. La gente funziona come vuole, per fortuna.
Sia nei rapporti interpersonali che nelle numerose opere di finzione cinematografico-letterarie in cui possiamo imbatterci, poi, quando qualcuno confessa di sentirsi solo si verifica sempre un certo cataclisma. Il “mi sento solo” è una specie di punto di svolta, o una giustificazione per tutti i comportamenti bizzarri ed estremi che abbiamo potuto osservare in passato. E il grido d’aiuto, per noi che guardiamo o per noi che ci troviamo davanti un amico che ce lo dice, è una sorta di schiaffo. È quasi peggio che sentirsi dire “sono triste”. Perché un “mi sento solo” ti consegna quasi una responsabilità – siamo qui insieme, ci conosciamo… e quindi anche tu hai contribuito, con la tua assenza o la tua noncuranza nei miei confronti, a questa situazione di solitudine che mi sta facendo patire.
Lasciando però perdere le solitudini “estreme” – quelle che ci scegliamo da soli (vedi eremo sui monti) o quelle che, in qualche modo, il resto del mondo ci impone – e rinunciando in partenza a tracciare una soglia di accettabilità della solitudine – perché che ne so, insomma, di qual è il grado di tolleranza altrui? – credo che una specie di “solitudine di fondo” non possa non esistere. Forse non è neanche una solitudine, è più una condizione che non possiamo scacciare perché ci appartiene e connota la nostra esistenza come esseri singoli – per quanto sociali.
È più un rimanere da soli con noi stessi – che sembra facile, visto che siamo le persone che conosciamo da più tempo, ma mica va sempre tutto bene.
Quanto ci vuole per imparare a sopportarsi? Un bel po’, forse.
Il procedimento è piacevole? Ma figuriamoci.
Sarà un successo assicurato? Macché.
Esempio concreto, che poi va a finire da qualche parte – prometto.
Quand’ero più piccola ero molto pessimista. Una specie di Giacomo Leopardi, ma senza nessun particolare talento letterario o guai fisici eccessivamente invalidanti, a parte un culo grosso come un camper – che non ero assolutamente pronta ad accettare e ancor meno sapevo amministrare. Comunque, le mie compagne di scuola trovavano assolutamente indispensabile avere SEMPRE un fidanzato. Ma anche se stavano con uno che le trattava di merda, per dire, loro dovevano per forza mollarlo solo quando erano certe di poter passare al successivo senza prendere una fregatura. Perché avere il fidanzato era comunque meglio.
Io ammiravo la loro abnegazione e, nonostante qualche ragazzo ce l’avessi avuto anch’io, mi sembrava comunque assurdo che non condividessero la mia tetrissima visione dell’universo: siamo soli, siamo tutti soli, la situazione standard è essere da soli, non avere il fidanzato. Il fidanzato è una specie di bonus, una parentesi temporale di lunghezza indefinita che si innesta come condizione “speciale” sulla normalità dell’essere soli.
Che allegria, eh?
Una gioia che neanche il Titanic che affonda.
Un raggio di sole in un mattino di maggio.
Secchielli di pulcini.
Col passare del tempo mi sono un po’ ripigliata. E il “SIAMO SOLI SIAMO TUTTI SOLI” si è evoluto in qualcosa di meno drastico.
Continuo comunque a pensare che gli amori veri, le cose strabiliantissime della vita e i legami che ci cambiano per sempre siano roba distribuita tipo zucchero a velo sulla superficie del pianeta e che se ti va bene una spolverata te la prendi pure tu – ma non è detto che succeda e non è detto che ciascuno di noi finirà spolverato dalla gioia – ma, crescendo, mi è sembrato di aver ricevuto più spolverate nei momenti in cui me la sapevo cavare meglio anche per conto mio.
Quand’ero contenta ed ero capace di tollerarmi un po’ di più.
Quando facevo le cose pensando che l’importante era che funzionassero per me.
Quando non dovevo dimostrare niente perché per me era sufficiente così.
Le cose “giuste” succedevano quand’ero in pace. Quand’ero felice da sola, più o meno.
Potrebbe sembrare una strategia di abbassamento delle aspettative nei confronti dell’universo allo scopo di rimanerci meno male e di gestire le delusioni con un “massì, in fondo mica ci credevo davvero” – anche detto Teorema della Volpe e dell’Uva -, ma rimango convinta che la felicità non sia una responsabilità che possiamo appioppare a qualcun altro. Gli altri possono renderci più felici, possono farci scoprire modi diversi di essere felici, ma non sta a loro sobbarcarsi tutto il lavoro. Non è una faccenda delegabile, le fondamenta sono affar nostro.
È un po’ come mettersi a gridare “Nessuno mi capisce!”, quando non capisci neanche tu cos’è di preciso che gli altri dovrebbero capire.
E il capirsi, secondo me, è anche una questione di solitudine. Non esclusivamente – perché è anche grazie agli altri esseri umani che riusciamo a inquadrarci un po’ meglio e a vedere che ci succede quando ci accadono le cose più disparate -, ma molto di quello che impariamo deriva da come digeriamo quello che ci capita. Da quello che ci viene in mente quando ripensiamo a una scelta, a una sfiga, a un momento felice. Da come un problema o una soluzione diventa parte di noi. Perché, nonostante il sostegno che possiamo ricevere dagli altri se proprio siamo già stati molto fortunati o bravi a tenerci strette le persone che ci migliorano l’esistenza, la testa che appoggiamo sul cuscino, quando finisce la giornata, è comunque la nostra, indipendentemente da chi abbiamo di fianco – sempre che di fianco ci sia qualcuno. E i pensieri che ronzano quando chiudiamo gli occhi non sono gestibili da nessun altro. Sono nostri, siamo noi che ce la dobbiamo sbrigare.
Da soli.
E più siamo abituati a gestirci, a conoscerci, a non farci troppo schifo, a starci un po’ simpatici, a chiarire i nostri limiti, ad autocensurarci quando serve, a darci occasionalmente degli imbecilli e a riconoscerci dei meriti quando ci vuole, ecco, più siamo capaci di gestire questa roba – che è lo stare in compagnia di noi stessi, una forma inevitabile di solitudine – meglio ce la caveremo, credo.
E non è che non avremo mai più bisogno degli altri, ma ne avremo bisogno perché ci fanno più felici, non perché aspettiamo che ci definiscano o che ci mettano in mano una bussola per capire da che parte dobbiamo andare. Perché non è a loro che spetta deciderlo. Non sono loro che devono dirci come funzioniamo o come possiamo funzionare meglio.
E dopo tutto questo lavoraccio infame riceveremo necessariamente la nostra spolverata?
Non è detto, per niente.
Ma, anche se da soli e privi di zucchero a velo, rimarremo comunque in compagnia di qualcuno che abbiamo imparato – più o meno faticosamente – ad apprezzare. E non è una conquista da poco.
17 Comments
Sono assolutamente d’accordo e mi ritrovo molto nelle tue parole.
I momenti più felici della mia vita sono accaduti proprio quando ero in pace con me stessa, disposta a tollerarmi e quindi a tollerare e ad accettare un po’ di più quello che mi stava intorno. Affrontandolo con una serenità e un coraggio che non credevo di avere! Bello sapere che non sono l’unica a pensarla così, iniziamo a sentirmi una mosca bianca o una di quelle che dispensa massime a caso!
Almeno non hai prodotto una metafora a base di zucchero a velo. 😀
Cuori a te!
Post da Nobel!!!! Scegli tu per che categoria XD
Nobel per la Pace Interiore. 😀
Mi è piaciuto molto questo post.
Io, a 25 anni, ho avuto una vita o di tragedie (e non uso il termine impropriamente purtroppo) o di cose veramente belle.E in questo marasma, mi sono convinta, per anni, che le cose belle non potevo permettermele se nella vita avevo avuto delle tragedie così grandi.Che non era giusto.Che non era rispettoso.
Per questo motivo sono diventata la regina dell’autosabotaggio, specialmente in amore.Solo adesso, con una fatica immane sto imparando a concentrarmi su quello che posso fare io, quello che posso costruire io e lasciare al fato quando e come arriveranno le cose brutte.Non smettendo di vivere nel mentre.
Forse le cose belle te le meriti proprio perché da qualche parte deve pur ristabilirsi un equilibrio. Tanti abbracci, cavolo. <3 🙁
Non posso che dire di essere d’accordo con le tue parole. Se c’è una cosa che ho imparato in questi 25 anni di età (che potrebbero sembrare pochi ma inizio già ad avvertire il peso sulle spalle e la lobalgia ne è il sintomo lampante) è che è inutile e controproducente riempire il mio tempo con la compagnia di un qualsiasi essere umano. Anche io ho attraversato gli anni del liceo in cui avere il fidanzato era il presupposto della normalità, quando se non uscivi il sabato sera eri una sfigata. Adesso invece sento proprio la necessità di passare ore solo in compagnia di me stessa perché ancora devo capire come gestire la mia vita. E se faccio fatica ad ammistrare un singolo essere umano, averne altri tra i piedi sarebbe un’odissea. E si, dopo anni e anni di fai schifo, non sei capace a fare nulla, ora le cose sono un po’ cambiate. Sto iniziando ad imparare a riconoscere i miei successi e che forse forse proprio schifo non faccio. Grazie per il post e scusa per il commento chilometrico e molto confuso. Cuori.
Commento il tuo bellissimo articolo ( io i post li chiamo così) con un tot di ritardo, ma l’ho letto e riletto e addirittura ne ho stampato una copia, per non affaticare L.A vista. Ho un tot di anni alle spalle, ho fatto il giro di boa dei 50, e sono ancora qui a prendere confidenza con me stessa, un lavoraccio ma , come scrivi giustamente tu, necessario e doveroso. Io l’ ho compreso un po’ tardi, ma ci sono quasi arrivata. Meglio tardi che mai!
Decisamente!
Grazie di cuore.
Arrivo a leggere questo post perchè ho avuto la fortuna di essere una delle protagoniste della posta del cuore di ottobre di valeria (Gynepraio). E come ho detto anche a lei, magari per voi dare consigli così è semplicemente un modo per raccontare qualcosa; invece significa davvero tanto, sopratutto per me! Perchè sapete farlo nel modo giusto, con rispetto e delicatezza. Affrontare un tema come la solitudine non è facile ma tu l’hai fatto nella maniera migliore perchè ho sentito decisione e fermezza ma anche tanta leggerezza, quella leggerezza che può darti la forza di dire ” dai cominciamo a volerci un pò di bene”. Tutti dovrebbero stamparsi e appendere il tuo post come ha detto una ragazza in un commento.. giusto per ricordarsi che ogni tanto è il caso di volerci un pò bene. 😉
Grazie Francesca! Un bacio
Ma grazie a te, Elena. Io, in realtà, scrivo queste cose quando ho bisogno di fare chiarezza nella mia testa… ed è bello scoprire che tante altre persone possono ritrovarcisi. O scovare uno spunto o un particolare che parli anche a loro. Grazie, davvero.
Cara Francesca,
mi sono imbattutto per caso in questa rubrica e devo dire che sono perfettamente d’accordo con te! Hai una leggerezza nel parlare di questo argomento (hai proprio ragione, guai a parlarne in pubblico!) che smuove il cuore! Ho 23 anni e solo da un anno riesco pian piano a “stare bene con me stesso”. Dopo anni di “se fai le cose da solo sei uno sfigato”, stando in compagnia di persone “anonime/banali” (classico gruppo parrocchiale di paese, per intenderci…) pur di avere qualcuno, non solo mi sentivo addirittura “più solo”, ma mi accorgevo di sprecare inutimente le mie energie, il mio entusiasmo. Ho imparato (…lo sto ancora facendo) ad accettarmi, a capire chi nella vita merita la mia attenzione/fiducia/tempo, a fregarmene meno di quello che fanno gli altri, a dire di no e a conoscere a meglio me stesso, e ce ne vuole. Sbagliando per esempio, ma ricavando sempre un insegnamento dai MIEI errori. Ora sono da un mese in Belgio per l’Erasmus (un anno) e mi piace questa solitudine “costruttiva”: spesa, lavanderia, commissioni, non sono un momento di noia, perchè, come hai detto tu, sto bene con me stesso, e mi stupisco di come riesco ad affrontare più serenamente la vita. Certo, i momenti “no” ci sono, ma chi non ne ha? Si piange, si ride e si (lo spero!) migliora. E se posso aggiungere una cosa: una volta trovato il coraggio di stare con se stessi, davvero si è autentici e unici. E le persone, almeno quelle “vere” lo sentono e ti stanno accanto! Scusa per la lunghezza, un abbraccio e auguri!
Che gioia, hai proprio ragione. E buon Erasmus. Sarà portentoso! <3
Carissima Francesca,
Leggo questo post nel periodo giusto! Ho sempre teso a pensare troppo su di me, sulla vita e l’esistenza, finendo spesso nel tragico e nell’apocalittico, quindi direi che ti faccio compagnia!xD Ma soprattutto in questi ultimi mesi di quest’anno, sto ripensando a me, a cosa ho fatto fin’ora in questi 26 anni della mia vita, cosa succederà nel futuro, cercando di liberarmi da paranoie passate ma ancora fisse nella capoccia… E l’unico modo è prendere il neurone che la abita e fare pace con lui, in solitudine tra me e me. Per quanto riguarda l’amore, stendo un velo sugli anni passati, e per quanto non abbia mai compreso come te il voler stare assieme a tutti i costi, forse dovrei lavorare anche su quel versante… Ma spero di trovare la quadra di tutto strada facendo, focalizzandomi su me stessa e cercando di badare il meno possibile agli altri… Spero lo sproloquio anche se lungo non sia troppo vago e confusionarioo xD Grazie per questo post!! 🙂
Ma grazie a te per essere passata a leggere. Grazie! E in bocca al lupo. 🙂
Cara Francesca,
condivido tutto quello che dici. Mi rendo conto che quando do buca per un aperitivo coi colleghi, o ammetto candidamente che non solo un po’ di solitudine non mi pesa, ma anzi mi è necessaria per ritrovare il mio baricentro e poter stare meglio insieme agli altri, le persone mi guardano come se fossi appena uscita da una navicella spaziale e parlassi marziano. Che dire, ognuno è fatto a modo proprio. Ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che per stare bene con gli altri bisogna saper stare bene con se stessi, e bastarsi. La paura della solitudine se no te la porti dietro anche quando sei in compagnia. 🙂
Scrivi sempre in modo meraviglioso, e riesci a rendere lievi i concetti più complessi. Grazie!!
Ciao
Tarta
Concordo in pieno. E ti ringrazio tanto! <3