Dunque, c’è una tecnica narrativa che nella sua rassicurante tondeggianza ci assiste sin dai tempi dell’Odissea: il racconto “ad anello”. Una vicenda si apre e, prima o poi, il cerchio si chiude, presentandoci una storia nella sua totalità senza tralasciare antefatti, peripezie mediane e conseguenze.
Quello che troviamo all’interno dell’anello è tutto ciò esiste? Dipende. Gli anelli sono estremamente funzionali, ma spesso lasciano margini per immaginare un mondo più vasto, senza pretendere di illuminarne la totalità. Il quanto “ci sia” nell’anello è anche una scelta di posizionamento filosofico, un modo di intendere la realtà che poco lascia al caso e molto all’arte di dosare il mistero. Quel che è certo, però, è che gli anelli ci concedono uno scheletro strutturale che può sorreggere ogni genere di racconto, dal ritorno a Itaca alle forme più recenti di esilio.
Con Tre anelli – tradotto da Norman Gobetti per Einaudi -, Daniel Mendelsohn torna nell’orbita di Omero per intrecciare ai propri studi le parabole biografiche di tre illustri personalità letterarie: Auerbach, Sebald e François Fénelon – che cadde in disgrazia per aver scritto Le avventure di Telemaco, malissimo accolto dal Re Sole. Tutti e tre hanno in comune uno sradicamento involontario da luoghi d’origine, un movimento che li porta alla deriva ma riesce anche ad ampliare l’orizzonte della conoscenza e le possibilità di intravedere un grande disegno complessivo – forse utopico – capace di accomunare culture e sensibilità storiche diverse.
Servono particolari infarinature di partenza su Auerbach, Sebald e Fénelon? No. È uno di quei libri che non costruisce altari facendoci pesare quel che non sappiamo, ma nasce come opportunità di incontro e scoperta.
Da Proust a un modellino fin troppo meticoloso del Partenone, dagli studi classici a una Istanbul che diventa asilo, epoca dopo epoca, per eruditi in fuga, Mendelsohn forgia con sapiente curiosità tre anelli ambiziosi e leggibilissimi. Il risultato finale è un’avventura storico-autobiografica che trasforma una riflessione sulla struttura “base” del nostro modo di raccontare in un viaggio letterario senza tempo.
Il destino sa quel che fa? Sicuramente sì, se riusciamo a identificare gli indizi giusti e se abbiamo la pazienza di prenderla abbastanza larga… in attesa che il cerchio ci riporti al principio, con tutta la fatale meraviglia accumulata lungo il cammino. E magari anche un po’ di saggezza in più.