Siamo in una cittadina irlandese nei giorni che precedono il Natale del 1985. Fa freddo e alle stufe del circondario pensa Bill Furlong, alacre commerciante di legna da ardere e carbone. Ha una moglie e cinque figlie. È una brava persona.
A casa sua regna un’atmosfera di indaffarato ma caloroso disordine e i dipendenti della sua ditta non hanno nulla di cui lamentarsi – la paga è puntuale e i conti sono in ordine, anche se il camion delle consegne perde qualche colpo e tutti hanno imparato a convivere con la fuliggine che li ricopre in pianta stabile. A domenica si va a messa col vestito buono e le notizie della città – chi nasce, chi muore, chi s’ammala, chi dovrebbe frequentare un po’ meno il pub e chi sta passando un guaio – circolano in un costante chiacchiericcio che non azzoppa eccessivamente le regole del buon vicinato.
Furlong è cresciuto nella proprietà più ricca della città, dove sua madre prestava servizio. Non sa chi sia suo padre, ma sa che la signora Wilson non ha mai pensato di sbatterli fuori. Pur non mancando di tenerli “al loro posto”, ha provveduto a loro e ha sostenuto l’educazione e i primi passi di Furlong in un mondo che non è abitualmente clemente con chi ha scarse credenziali dinastiche o dubbie origini. La gente mormora e mormorerà sempre, è vero, ma di Furlong non si può che mormorare bene.
Piccole cose da nulla di Claire Keegan – tradotto da Monica Pareschi per Einaudi Stile Libero – è una cronaca lieve ma densissima degli ultimi giri di consegne di Furlong in vista delle feste. Le porte a cui bussa sono tante – anche quelle impenetrabili del convento della cittadina – e i ricordi che affiorano, avvolgendo il presente in una malinconia indaffarata, sono quelli di un uomo che tenta con grande cocciutaggine di continuare a meritarsi le fortune che gli pare d’aver costruito.
Siamo abituati a considerare l’ambizione come uno slancio titanico verso traguardi rivoluzionari, conquiste che riusciranno a elevare la nostra posizione in una immaginaria catena alimentare. Furlong è un uomo pratico, vuol cambiare gli infissi di casa perché sua moglie soffre gli spifferi e vuole sentirsi “presente” quando è circondato dalle persone che ama, anche se non è abituato a godere di un tempo improduttivo e d’istinto rincorre continuamente quel che va fatto per continuare a tenere su la baracca. Quand’è che ci si sente davvero autorizzati a meritarsi quel che si ha? Furlong sente di non potersi fermare, soprattutto quando un destino che pare rimasticargli un “e se fosse toccato a noi?” del passato lo mette di fronte a dilemma.
Keegan riesce a raccontare un tempo recentissimo – e anche un orrore istituzionalizzato, come scoprirete – con il passo di un piccolo classico. Sembra una storia fuori dal tempo, ma è un’indagine calorosa e profonda sulla giustizia, sulla dignità e sui nostri grandi dilemmi: chi vogliamo essere, soprattutto quando nessuno ci guarda? Perché siamo spesso convinti che a far meglio ci penserà sempre qualcun altro? Dove ci collochiamo, agendo nel quotidiano, tra quello che ci conviene – perché rispettando lo status quo ci preserviamo – o quello che sarebbe più giusto fare? Perché accogliamo in maniera così arbitraria e respingiamo le difficoltà altrui come se potessero contaminarci o incrinare la nostra “posizione”?
Insomma, in un universo non sempre clemente o misericordioso – nonostante le genuflessioni in chiesa -, Bill Furlong porta il fuoco… anzi, porta quel che serve per accenderlo e scaldarci. E fa una fatica immane, perché il carbone pesa, sporca e non basta mai, ma lui ci prova – e arriva puntuale quando comincia a far freddo davvero.