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Ero quasi certissima che Il profilo dell’altra – il romanzo d’esordio di Irene Graziosi uscito per E/O – non fosse un pacco, ma data la mia indole solare e fiduciosa ho comunque tirato un appagante sospirone di sollievo. È andata bene, è un bel libro. E ne potremmo discutere per una settimana, perché è anche una di quelle storie stratificate e cangianti che contengono una marea assai poco placida di temi “vicini”, veri e nostri. Mi son sembrati fin troppi, ogni tanto, ma la scrittura ha quell’elasticità naturale che scongiura l’artefatto e il legnoso… e regge, tenendo insieme tutto. Ma di che parla? Di specchi, credo. E di scoprire chi siamo, indipendentemente dal riflesso che ci restituiscono gli altri o da quanto ci piaccia quel che vediamo.

La nostra narratrice è impantanata in un presente che non lascia spazio d’immaginazione concreta di un qualsiasi futuro. Dovrebbe andare avanti a studiare, ma dopo la morte della sorella si è trasferita da Parigi a Milano al seguito del suo ragazzo e, di base, sta sul divano a guardare Law&Order.
Per una serie di millanterie sfacciatissime e di incroci fortuiti che nemmeno lei sa se augurarsi o no, si ritrova assunta come “assistente” e grillo parlante di Gloria, influencer diciottenne dotata di una fanbase sterminata e di argomenti inesistenti. Maia accetta il lavoro con l’intenzione nemmeno troppo velata di fallire ma, un po’ per sfida e un po’ per sincera curiosità antropologica, si ritrova a orbitare stabilmente nella vita della sua protetta e, in parallelo al personaggio “pubblico” che tutti credono di conoscere, parte alla ricerca del nucleo reale di questa ragazza che appare spensieratamente vuota, fortunatissima e legittimo approdo dell’invidia generale. Chi è Gloria? E chi siamo noi che la seguiamo? Quanto solido e autentico sarà davvero il castello di carte che ha costruito?

C’è molta carne al fuoco e uno degli aspetti migliori, secondo me, è il tentativo di rappresentare in maniera credibile il paesaggio relazionale in cui siamo immersi. Quel parallelo di difficile gestione tra persona pubblica e privata, tra identità che si adattano ai contesti e ricerca autentica del nostro centro, al di là di come scegliamo di mostrarci. È una questione che appartiene intrinsecamente al crescere, credo, ma i tanti posti nuovi in cui il processo può oggi essere narrato, allestito e spettacolarizzato la rende un po’ più complicata che in passato. Non si sconfina nei due possibili estremi “facili” dell’“anche le influencer piangono” VS “IO PENZO KON LA MIA TESTA KE VADANO A ZAPPARE LA TERRA KUESTE MIRAKOLATE!!1!!1”… per me ci è anche andata giù leggera nel descrivere le molte possibili brutture del dietro le quinte delle dinamiche social-commerciali ma, pur non trovandoci niente di sconvolgente, è un quadro realistico. Il nodo vero non sta nemmeno troppo lì, probabilmente. È di margini di libertà che si parla. Di quanto “costa” scegliere di esserlo davvero. Di quanto siamo disposti ad accettare la compagnia costante di chi siamo quando nessuno ci guarda. Chi è il ventriloquo e chi è il pupazzo, tra Maia e Gloria? E, soprattutto, con che voce abbiamo deciso di parlare noi?

Cora Seaborne entra a far parte a pieno titolo della schiera di signore rispettabili che iniziano a campare meglio all’indomani della dipartita dei loro coniugi. Lo sforzo vero, per la protagonista del Serpente dell’Essex così come per le vedove sue colleghe di fine Ottocento, consiste nel continuare proiettare per un tempo ritenuto decoroso quel dolore e quella contrizione che il lutto richiede, industriandosi però clandestinamente per trovare un nuovo scopo e un modo per impiegare al meglio la libertà fortuitamente conquistata.
Per Cora – che ha perso l’uomo rivelatosi crudelissimo che ha sposato sull’onda di una fisiologica inconsapevolezza giovanile -, questa libertà consiste nel recupero di una sua personalità più antica, “selvatica” e rozza, almeno per gli standard londinesi.
Per ritrovarsi, cambiare finalmente aria e ricominciare, Cora inizia col trasferirsi con figlio e bambinaia-confidente a Colchester, nell’Essex, con l’unica ambizione di rivoltare pietre in cerca di reperti preistorici e di infangarsi il più possibile gli scarponi.

Il punto di riferimento di Cora è Mary Anning, pioniera della paleontologia del Regno Unito (e del mondo intero) e scopritrice di fossili che hanno fatto la storia. Anning, armata di cestino, martello e scopettini, setacciò la costa di Lyme Regis – poi ribattezzata Jurassic Coast – rinvenendo scheletri di ittiosauri, plesiosauri e rettili marini.
In un’epoca in cui le scienze naturali potevano godere di diffusione accademica ma anche dell’apporto di un nutrito movimento “dilettantistico”, Anning rimase una sorta di felice eccezione in un panorama irrimediabilmente dominatissimo da studiosi maschi, ma di certo rappresentò un esempio di caparbia intraprendenza, reale autorevolezza e disinteresse per le convenzioni. Il valore del suo lavoro e delle sue scoperte furono riconosciuti – un traguardo non scontato, data l’agguerrita competizione – e i suoi reperti più significativi sono ancora esposti al British Museum.

Già, credo che il canetto di Mary Anning stia cercando di fare la cacca. Su un fossile di plesiosauro, probabilmente.

Ma rimettiamoci in carreggiata.
Che succede a Colchester e nel contiguo bacino del Blackwater? Si direbbe poco, perché son posti pittoreschi e ameni ma di certo molto diversi dal frenetico ribollire della grande città. Cora, però, riceve una provvidenziale soffiata: annegamenti sospetti, villici che perdono il senno e pecore disperse si moltiplicano… che sia tornata la bestia leggendaria che infesta il fiume? Cora decide di vestire i panni della studiosa razionale e di cominciare a indagare con oggettività sul fenomeno. Psicosi collettiva, antiche superstizioni riemerse in un momento di scalogna o autentica opportunità per rivenire un fossile vivente?
Pur con intenti diversi – placare una congregazione sempre più inquieta e riportare la serenità nel villaggio – anche il reverendo Ransome sta cercando di far luce sul caso del presunto mostro del fiume. La sua traiettoria e quella di Cora sono destinate a incrociarsi e a generare ripercussioni insospettabilmente vaste, tra status quo turbati e massimi sistemi che precipitano, condensandosi, nel rapporto tra due persone che sperano di scovare un litorale clemente su cui approdare.

Se amate i romanzi storici – con tanto di scambi epistolari -, il moto inesorabile delle maree e le narrazioni che nelle tribolazioni minute provano a mettere in scena i grandi dilemmi – dal conflitto tra fede e ragione a quello tra classi sociali, dalla rettitudine del buon padre di famiglia agli albori delle rivendicazioni di indipendenza delle donne, dalla superstizione al senso di colpa, dalla purezza dell’anima che lotta per non farsi “contaminare” dalle pulsioni del corpo -, Il serpente dell’Essex è un bel posto dove sguazzare: scrittura ricca (e ben tradotta da Chiara Brovelli per Neri Pozza), ricostruzione accurata e colpi di scena gestiti con elegante aplomb, per quanto i drammi e le inquietudini non manchino. Che siate più inclini a soccombere a mistiche atmosfere minacciose o a tifare per “poligoni” affettivi variamente ingarbugliati, è di certo un bel congegno romanzesco. Ma ci sarà davvero, questo serpente? Tutto dipende dalla rete che vi andrà di gettare in acqua…


Segnalazioni televisivo-cinematografiche

Dal romanzo di Sarah Perry è stata recentissimamente tratta una serie TV con Tom Hiddleston – SCARSA FANDOM QUI – e Claire Danes.
Ho scoperto che esiste anche un film su Mary Anning. Si chiama Ammonite e Kate Winslet interpreta la nostra indefessa paleontologa.
Ho già visto qualcosa? Figuriamoci, ma segnalo comunque volentieri. E allungo la mia lista delle cose da recuperare.

 

A fare da cornice a buona parte delle vicende di Le buone maniere, il nuovo fumetto di Daniel Cuello uscito per Bao Publishing, è un ufficio che più grigio non si può. L’ufficio, insieme alla variegata fauna dei suoi dipendenti, ha il nobile compito di revisionare pubblicazioni di ogni tipo in modo da renderle conformi alle direttive ideologiche di un tentacolare Partito che regola con mano che si finge paterna (ma in realtà è pesantissima) la vita del paese. L’ufficio è un organo di censura e repressione a tutti gli effetti, ma è anche un palcoscenico umano popolato da signore insospettabilmente ribelli, eroi cialtroni e capi che diventano tali proprio perché non hanno mai dimostrato interesse per l’esercizio del potere. È un guscio in cui confluiscono antichi drammi personali, codardie sommesse, ambizione paziente (per quanto schifosa), dovere, paure silenziose e forme di rassegnazione allo status quo inesorabili quanto la burocrazia.

Quale prezzo siamo disposti a pagare per far prevalere il “bene”? Perché è tanto più facile accettare un mesto ma tranquillo presente, anche quando di fatto serviamo il padrone sbagliato? Che cosa c’è di peggio del trovarsi in un contesto che ci fa sentire irrilevanti o sempre troppo piccoli e inermi per cambiare le cose?
Tra timbri, macchinette del caffè che non funzionano MAI, paradossali catene di comando, gatti fuggiaschi, una zia saggissima e confortevoli prigionie da scrivania, Cuello ci procurerà un gran magone… ma riuscirà anche a dare un nome a quella scintillina di coraggio che tanto inseguiamo, anche quando ci sembra di essere sempre inchiodati nello stesso posto.

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche. 

 

 

Allora, io non so niente di meditazione. Non lo dichiaro per vantarmi di una lacuna – perché tendo a vergognarmi sempre molto delle mie lacune -, ma per palesare con franchezza un punto di partenza individuale. Non ho mai seguito un percorso di meditazione – né a livello di “corsi” né avvalendomi della nutrita galassia di app fai-da-te che ti spiegano come sgombrare la mente e trasformarti in un’entità superiore che affronta la vita levitando -, ma sto al mondo cercando di assecondare la curiosità, anche perché sarebbe assai noioso soffermarmi solo su quello che mi pare di conoscere già, senza trovare spiragli per scoprire mondi nuovi.
Eccoci dunque qui con Chandra Livia Candiani e Il silenzio è cosa viva – che è uscito nelle Vele Einaudi e che ho ascoltato su Storytel, potendo avvalerci solo dei tormenti narrati più o meno tangenzialmente da Carrére e di una solida ammirazione per la ricerca poetica dell’autrice, che è una delle voci ormai consolidate della Bianca.

È un testo snello e relativamente breve, che un po’ ci introduce alla pratica della meditazione e un po’ serve a Candiani per spiegarci che cosa significa e ha significato per lei. È una cronaca metodologica che parte da un approccio personale per costruire un percorso “filosofico” accessibile a tutti, perché il come affrontiamo gli urti e i doni della vita è di certo un tema trasversale.
Candiani medita e insegna a meditare, esplorando con un linguaggio di raro spessore e ricchezza quello spazio di silenzio ed estrema vigilanza che possiamo imparare ad occupare per “sentire” più distintamente.

Nell’immaginario profano si tende a pensare che meditare somigli allo sgombrare il terreno dallo sgradito e dal doloroso, creando un posto sicuro, vuoto e libero dal turbamento. Leggendo, però, si scopre che è piuttosto vero il contrario.
Credo di aver capito che si tratta, in realtà, di accedere a una consapevolezza più “pulita”, sfrondata del superfluo e coltivata come un giardino pronto a ospitarci. Ci si accede imparando ad abitare un silenzio che non è assenza di stimoli o di relazioni, ma ascolto dell’impatto delle cose su di noi. Non è contemplazione del vuoto, ma la capacità di lasciarsi attraversare da quello che succede, rimanendo presenti e vigili a noi stessi. Il disordine ci disarma ma, anche nel marasma peggiore, quel che salva è sapersi costruire una bussola.
Fra venti minuti mi iscriverò a un corso di meditazione o partirò per un ritiro fra gli eremiti della montagna? Non penso. Ma sono contenta di essermi donata questa parentesi di infarinatura – splendidamente narrata.

 

[Visto che di Storytel abbiamo parlato, ecco qua il solito link per beneficiare di un periodo di prova gratuito di 30 giorni].

[In collaborazione con quei cuoroni di Clementoni. :)]

Dopo il listone funzionale a tema “che serve quando arriva un nuovo essere umano”, eccomi di ritorno con uno spin-off tra il ludico e l’utile. In qualità di fratello maggiore, Cesare è stato un apripista molto autorevole e ora veleggia verso i sei anni continuando ad apprezzare molto il “catalogo” Clementoni. Tante delle trovate e delle soluzioni per la primissima infanzia che ci hanno aiutato con lui fungono da base anche per la piccola guida che troverete qua. Lo spirito è sempre il medesimo: fornirvi consigli rodati ed essenziali, sia per preparare il nido domestico – se volete immaginarvi come grandi uccelli da cova – che per indirizzare eventuali doni in entrata. Anche in questo caso, insomma, il senno di poi ci assiste con sollecitudine: meno cose ma cose che davvero si sono rivelate funzionali, preziose e sensate nelle operazioni di sopravvivenza all’arrivo di un neonato o di una neonata a casa.
Chiariti gli intenti, ecco i baldanzosi suggerimenti.


Sleepy Moon

Esordirei col grande spauracchio del sonno. Ci sono lucine “da culla” di ogni genere, forma e dimensione e tendono a supplire a due funzioni principali: creare un’atmosfera paciosa e rilassante per favorire la nanna (spesso con una combinazione cromatico/sonora) e dare una mano pure a voi a non brancolare nel buio quando si tratterà di disinnescare il neonato piangente. Noi tenevamo accesa la lucina durante l’addormentamento e la riaccendevo quando mi riappropriavo di Cesare per allattare di notte o placare i risvegli – abbiamo sempre avuto lampade da comodino un po’ troppo luminose per non devastare la vita a tutti. Insomma, le lucine da culla sono un buon compromesso. Qua, per esperienza, tendiamo a non amare molto gli aggeggi musicali – dopo un po’ possono condurre alla pazzia -, ma sul fronte del sonno si sono rivelati benefici. Questa lunina non è ingombrante, illumina il giusto e può fregiarsi di Mozart – che se dovete sentire qualcosa pure voi che sia roba degna, insomma.

 

Coccinelletta-proiettore

Altra soluzione sonoro-luminosa: i proiettori. Personalmente non amo le giostrine o i tralicci che penzolano sulla culla – i neonati vanno tirati fuori e rimessi giù un sacco di volte ed è già laborioso a sufficienza anche senza dover schivare attrezzi telescopici – ma è vero che qualcosa “da guardare” o da percepire nei dintorni possa favorire serenità e relax. Insomma, i proiettori non intralciano ma intrattengono e si possono anche spostare qua e là, aiutandovi ancora a non manovrare nel buio pesto.

 

Coniglietto confortante

Quello dei doudou – o comforter – è un vasto universo. Sono oggetti di transizione che devono essere facili da afferrare (ecco perché hanno prevalentemente una forma a “straccino”), piacevoli da stropicciare e, per sostenere le esplorazioni sensoriali dei primi mesi, interessanti abbastanza da offrire stimoli diversi (ecco perché ci sono nodi, linguette, orecchie che fanno rumorini croccanti o porzioni morsicabili). Coniglietto, contiamo su di te.

 

Soft Spiral Happy Animals

Sempre con l’idea di fornire un avvincente (per quanto compatto) parco giochi sensoriale, sono comodissimi anche i giochi a spirale. Si possono attorcigliare ovunque – dai maniglioni dei passeggini alle cinture delle sdraiette, ma anche ai bordi delle culle – e intrattengono allegramente con un mix di forme e materiali diversi da toccare, suscitando accesissime fascinazioni. Oltre al tatto, “esercitano” anche le orecchie: pure qua gli animalini contengono sonagli o imbottiture scrocchiettose da scoprire.

 

Palestrina (in bianco e nero)

Le palestrine sono una specie di Megazord concettuale: sono dei quadratoni morbidi dove gli infanti possono stazionare in modo sicuro e beneficiare di stimoli di diverso tipo, sia da fochine spiaggiate sulla schiena che durante i primi tentativi di rotolamento sulla pancia. Memore della lotta per la conservazione della mia salute mentale, tenderei a consigliarvi una palestrina come questa, che non ha luci o diffusori musicali. Son più snelle a livello di struttura e, se proprio devono far rumore, lo fanno per rispondere a un’azione del bambino. Qua c’è chiaramente la possibilità di appendere creaturine schiacciose qua e là o di spingersi in esplorazioni visive – perché il bianco e nero? Perché i bambini molto piccoli non ci vedono come gli adulti e assimilano più efficacemente i colori a contrasto.

 

Cuscino Kitty Cat Tummy Time 

Sempre in ottica di “guarda mamma mi hanno installato l’aggiornamento SAPER STARE A PANCIA IN GIU’ 1.0!”, un isolotto su cui far approdare i vostri coraggiosi bruchi striscianti. Anche in questo caso, il cuscinotto offre un supporto per i gomitini ma anche delle opportunità tattili per baloccarsi e/o decidere di spingersi un po’ più in là. Volendo, diventano anche dei cuscini da pisolino.

 

L’orsetto Bob

Concluderei con un suggerimento un po’ sentimentale, visto che conservo ancora l’orsacchiotto che ho più amato da piccola e che mi trascinavo OVUNQUE. Un orsetto ci vuole. Un orsetto è per sempre. Viva gli orsetti. 🙂

Un ricapitolone? Ecco qua il nutrito angolo del sito Clementoni che ospita le cuorosità di questo elenco e molto altro. Che dire, in bocca al lupo e felici primi mesi a voi!

 

 

La saggistica è un universo multiforme in cui torno a intermittenza a rifugiarmi. È un invito ad esercitare la curiosità e un felice calderone sfaccettatissimo in cui ogni più che legittima fissazione può trovare espressione, dimora e spazio per afferrarci. È con questo spirito – e con la solita disposizione avventurosa – che ho accettato ben volentieri l’invito a compilare questa piccola guida di lettura che spero possa ispirarvi a scandagliare il catalogo Aboca, meravigliandovene quanto me – e pure di più, se vi va. Data la deformazione paleontologica della nostra famiglia, il primo incontro con questo editore va fatto risalire a Donald H. Prothero e ai suoi Fossili fantastici, ma non solo di giganti preistorici rocambolescamente riportati alla luce avremo modo di parlare.
Le edizioni Aboca nascono nel 2012 come una sorta di spin-off filosofico rispetto all’impegno produttivo dell’azienda-madre. Nel tempo, oltre a chiarire un preciso posizionamento valoriale, hanno saputo ospitare illustri punti di vista, divulgatori assai autorevoli e voci di spicco che animano con rigore il dibattito scientifico, ambientale e zoologico. Insomma, vocazione divulgativa e ricerca eclettica, pensandoci sempre come partecipanti attivi – e responsabili – alla vita del pianeta che ci ospita.

Cosa troverete qua?
Suggerimenti tematici per approcciarvi al catalogo Aboca e farlo entrare in pianta stabile nei vostri radar.
Procedo!


Animalini

Josef H. Reichholf 
Scoiattoli & Co. – Viaggio nel mondo del roditore più simpatico, veloce e parsimonioso

Vispi abitanti della natura più selvaggia ma anche degli spazi “addomesticati” delle nostre città, gli scoiattoli sono ottimi ambasciatori: li possiamo osservare con relativa frequenza e sono ormai diventati validi rappresentanti della commistione tra ambienti diversi. Oltre a presentarci i roditori che per vari incroci del destino si è trovato ad accudire, Reichholf ci offre, in questo libro, una panoramica accurata (e pure affettuosa) del “funzionamento” e del comportamento dello scoiattolo. Perché sì, sono innegabilmente carini, ma non solo di codine poffose vale la pena occuparsi.

 

Wendy Williams
La vita e i segreti delle farfalle – Scienziati, ladri e collezionisti che hanno inseguito e raccontato l’insetto più bello del mondo

Dall’epica migrazione delle monarca al lavoro pionieristico di Maria Sybilla Merian nel XVII secolo, dall’ossessione per la bellezza ai delicati equilibri dei nostri ecosistemi, Wendy Williams ci introduce al variopinto mondo delle farfalle servendosi efficacemente di una doppia chiave tematica: all’indagine entomologica (cos’è una farfalla, insomma?) si unisce una prospettiva storica fatta di scoperte, collezionisti maniacali, rivalità e titanici scontri teorici. Lepidotteri alla riscossa!

 

Rachel Carson
La vita che brilla sulla riva del mare – Le piante e gli animali che popolano i litorali rocciosi, le spiagge sabbiose e le barriere coralline

Biologa marina e antesignana della riflessione pubblica sull’ambiente, Rachel Carson ci accompagna alla scoperta di un luogo liminale: la costa. Frangia ibrida tra mare e terra, la riva ospita una varietà sorprendente di creature e vegetali che hanno sviluppato strategie uniche di adattamento e sopravvivono spesso in condizioni fragilissime. Quest’edizione – la prima per l’Italia – ospita anche la preziosa introduzione di Margaret Atwood.

 

Susanne Foitzik & Olaf Fritsche
Minimi giganti – La vita segreta delle formiche

Dovendo rispondere ai quesiti incalzantissimi dell’entomologo di casa – che ha cinque anni ma è comunque molto intransigente – non è il primo libro sulle formiche che leggo… ma si è senza dubbio rivelato il più curioso e piacevole. Oltre a renderci partecipi del come si studiano le formiche – tema per niente scontato -, Foitzik e Fritsche ce le presentano innanzitutto come abilissime costruttrici di reti “sociali”: non esiste formica senza una colonia e non esiste colonia che non assegni a ogni insetto un ruolo preciso, vitale al funzionamento complessivo della comunità. Come fanno a comunicare? Coma fanno a sapere, individualmente, cosa ci si aspetta da loro? Perché alcune specie hanno addirittura sviluppato la capacità di coltivare funghi? Ecco qua un buon posto per scoprirlo.


Ragazze sapienti

Due titoli per riavvicinarci al regno dell’umano, entrambi curati da Erika Maderna – che per Aboca si è occupata diffusamente di mitologia botanica e di storia “curativa”, mettendo in primo piano gli antichi saperi custoditi dalle donne in contesti più o meno accoglienti (o propensi a carbonizzarle al rogo).
Per virtù d’erbe e d’incanti e Medichesse riflettono sul ruolo delle donne in medicina, esplorando quel territorio ibrido tra conoscenza erboristica e ritualità, tra consapevolezza profonda delle proprietà “utili” della natura e dominio del magico.
Passando in rassegna piante emblematiche, strutture sociali, pregiudizi pervasivi e figure di spicco – immancabilmente bollate come indemoniate, soggetti devianti o temibili streghe da neutralizzare o ridurre al silenzio -, Maderna restituisce dignità e visibilità a uno spazio di autonomia femminile che per secoli ci ha viste protagoniste, spesso a carissimo prezzo.


Esplorazioni

Telmo Pievani & Mauro Varotto
Viaggio nell’Italia dell’antropocene – La geografia visionaria del nostro futuro

Corredato da mappe meticolosissime che tentano di descrivere un territorio che ancora non c’è – ma che promette di manifestarsi in maniera fin troppo solida -, Viaggio nell’Italia dell’antropocene è un dettagliato what if geografico: che aspetto avrà l’Italia del 2786 (mille anni dopo l’emblematico viaggio di Goethe nel nostro paese), se non faremo nulla per contenere gli effetti dell’attività umana sul clima del pianeta? Tra nuovi deserti, innalzamento delle acque e “zone climatiche” del tutto inedite, Pievani e Varotto immaginano una grande cartolina del nostro avvenire, sperando da un lato che esista ancora una casa dove poterla recapitare e, dall’altro, che ci sia ancora margine per mitigare il panorama ben poco incoraggiante che ci restituisce.

 

Jemma Wadham
Il mondo dove è bianco – Viaggio nelle terre dei ghiacciai tra allarme e stupore

Venticinque anni di ricerca sul campo – in condizioni a dir poco estreme – condensati in un volume che fotografa l’involuzione di una delle risorse più fragili e preziose del pianeta: il ghiaccio. Dalle calotte polari alle vette andine, Wadham sfata la percezione comune del ghiacciaio come massa inerte e “morta” per svelarci le meraviglie di questi ecosistemi impervi ma delicatissimi, vitali per la nostra sopravvivenza e più che mai da capire e, in ultima ma urgente istanza, da preservare.

 

Donald R. Prothero
La storia della vita in 25 fossili – Le meraviglie dell’evoluzione e i suoi intrepidi ricercatori

Siamo propensi a considerare l’evoluzione come un processo efficiente ed esatto, fatto di miglioramenti incrementali che appaiono ordinatamente per garantire a piante e bestie l’efficacia operativa necessaria a sopravvivere. Anche la storia della scienza ci viene di solito dipinta come un susseguirsi di eroiche rivelazioni e intuizioni vincenti… ma come funziona davvero? Prothero – geologo e paleontologo, nonché splendido divulgatore – prova qui a far collidere i punti di svolta evolutivi più rilevanti nel lungo percorso della vita sulla terra con la parabola niente affatto lineare della scoperta. Come? Raccontandoci 25 fossili “esemplari” che hanno rappresentato un bivio fondamentale sia per il mondo naturale che per la nostra capacità di comprenderlo.

 


Verde

Stefano Mancuso
Botanica – Viaggio nell’universo vegetale

A Stefano Mancuso e al suo approccio accessibile e curioso devo molto del mio interesse recente per le piante. Questo volume è lo scheletro di uno spettacolo multimediale nato con lo scopo di raccontarci il mondo vegetale come un’insieme di organismi sorprendentemente consapevoli e “attivi” – uno dei cavalli di battaglia tematici di Mancuso. Le piante comunicano, collaborano, decifrano le condizioni ambientali che le ospitano e si adattano di conseguenza, facendo leva su risorse estrose e sofisticate: un altro tassello accessibilissimo per imparare a considerare il “verde” come creatura viva e come potenziale motore di innovazione.

 

Patrick Roberts
Giungle – Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi

Troppo intricate per viverci o autentiche protagoniste di ogni era del nostro pianeta? Dalla comparsa dei primi fiori all’influenza che esercitano sull’atmosfera terrestre, le giungle e le foreste della fascia tropicale non sono semplicemente un posto interessante e scenografico dove scovare pennuti variopinti da ammirare nei documentari. Fra storia, botanica e zoologia, Robert si addentra nel fitto della vegetazione per offrirci una visione più completa del ruolo che la fascia tropicale ha esercitato nella traiettoria evolutiva della Terra e del nostro rapporto – non sempre equilibrato e ponderato – con le risorse naturali.

 

Zora del Buono
Vite di alberi straordinari – Viaggio tra le piante più antiche del mondo

Io, degli alberi illustri catalogati qui da Zora del Buono, ho visto solo il Generale Sherman, una sequoia di 2200 anni che supera gli 80 metri d’altezza. Di alberi ragguardevoli, però, al mondo ce ne sono parecchi… e non primeggiano solo per dimensioni. Ci sono vegetali scampati alla bomba atomica, piante-colonia che ridefiniscono il concetto stesso di albero o fronde che persistono dopo aver offerto riparo a regnanti, poeti e pensatori. Questo libro è il risultato di un viaggio lungo un anno – che replicherei assai volentieri – alla scoperta di piante che hanno a loro modo fatto la storia, trasformandosi in simboli di resistenza al tempo e in monumenti al potere rigenerativo della natura.


Aboca Kids

Felice novità? Felice novità: il catalogo Aboca si è recentissimamente arricchito di una collana nuova dedicata ai piccoli lettori e alle piccole lettrici.
Dagli illustrati di grande formato che fungono efficacemente da portabandiera per la categoria degli “atlanti” – come La fantastica avventura dell’evoluzione – ai volumi con una componente di divulgazione più marcatamente narrativa, la natura resta al centro, nelle sue molteplici declinazioni. Che si tratti di capire da dove viene quello che mangiamo – come nella versione per ragazzi del Dilemma dell’onnivoro di Pollan – o come distinguere a colpo sicuro una megattera da un capodoglio, Aboca Kids promette di diventare un ottimo punto di riferimento per assecondare le curiosità zoologico-botaniche delle piccole persone di vostra conoscenza… ma anche un po’ dei grandi – perché i libri ben pensati non conoscono confini anagrafici e l’ecosistema di Aboca è di certo accogliente.

 


Come concludere?
Tenderei a non farlo, invitandovi a esplorare ulteriormente – e seguendo le vostre più spiccate inclinazioni – il catalogo Aboca. Spero che questa lista possa rappresentare un punto di partenza utile e il primo passo per la coltivazione di una biblioteca naturalistica molto vispa e rigogliosa.
🙂

 

Pubblicato originariamente nel 1984, Ballo di famiglia è stato il festeggiatissimo esordio di David Leavitt. SEM l’ha riproposto lo scorso anno al mercato italiano in una nuova traduzione curata da Fabio Cremonesi.
Espletate le rapide pratiche inerenti alle coordinate editoriali, veniamo al dunque: Ballo di famiglia è una raccolta di racconti fatta di garbugli identitari in cui piombiamo senza premesse lungagnone, spesso materializzandoci all’improvviso a un crocevia o sull’orlo di uno scontro che ha il sapore minaccioso degli eventi irreparabili.
La cornice socio-geografica generale è quella della borghesia americana degli anni Ottanta, quella dei sobborghi dove si consuma una normalità di bisogni primari appagati, cani sul prato e piscine col dosaggio del cloro sempre subottimale. Ed è proprio in quelle vie ordinate o in quelle casette di villeggiatura imbiancate di fresco (ma con le tubature che perdono) che i personaggi fanno ritorno senza scampo, lasciando a intermittenza le grandi città che faticosamente cercano di chiamare casa. Se ne sono andati per trovare il modo di somigliarsi di più, ma non riescono mai davvero a dimenticare da dove vengono e, di sicuro, non tornano a cuor leggero.

Le famiglie di queste storie sono piene di crepe da ricucire, crisi di nervi più o meno incancrenite, voltafaccia e compromessi per il mantenimento di una parvenza di decoro. C’è gente che si impegna in nome di un’armonia collettiva ormai da tempo demolita e, nel farlo, pretende che ogni sacrificio venga riconosciuto e riverito. Emerge, sempre, il tema della sessualità, che qua assume anche il ruolo di cartina di tornasole definitiva dell’identità e della capacità di accettarsi e di farsi accettare davvero in un contesto che ama dipingersi come “aperto” e pronto ma, in definitiva, forse così accogliente non è – e chissà come dev’essere stato, negli anni Ottanta, far uscire un libro che così a fondo indaga l’incontro/scontro tra omosessualità vissuta allo scoperto e quieto conformismo suburbano.

Si parla anche di malattia, buono e cattivo vicinato, eredità, matrimoni che finiscono e riassetti faticosi, rancori antichi, dissesto mentale. Leavitt ci presenta questo concentrato esplosivo di spigoli transitando per i particolari minimi dello stare insieme e organizzando per noi riunioni di famiglia che costringono i nodi a tornare al pettine originario, per quanto controvoglia e con risultati potenzialmente distruttivi, lasciandoci sempre un gran mucchio di piatti da lavare e l’amara sensazione di aver ancora una volta sbagliato a dire la verità, anche se non potevamo farne a meno.

Una riscoperta per me graditissima che, se vi va, è anche ascoltabile su Storytel con la voce di Gianmarco Saurino. Per provare Storytel, ecco qua un propizio collaudo gratuito di 30 giorni.

Quante delle usanze che diamo per assodatissime sono in realtà costrutti sociali o “riti” relativamente recenti? Non so stilare un elenco completo, ma fra queste lente sedimentazioni storiche c’è senz’altro la misurazione del tempo che trascorre secondo scansioni convenzionali/condivise e l’abitudine di festeggiare il compleanno, considerandolo sia come una ricorrenza o un giorno “speciale” che come rigoroso traguardo periodico che ci consente di dichiarare con precisione la nostra età anagrafica.
Perché per secoli non si è sentito tutto questo gran bisogno di sapere con esattezza quanti anni avevano le persone?
In un più vasto ordine delle cose, era ritenuto più importante a livello simbolico il momento della nascita, quello della morte o il battesimo?
Qual era il rapporto tra tempo “collettivo” e tempo individuale?

L’invenzione del compleanno di Jean-Claude Schmitt – un saggio snello e curioso, supportato da un ricco apparato iconografico che un po’ ci assiste nel controbilanciare un’esposizione non proprio spumeggiantissima – ripercorre le tappe che ci hanno gradualmente condotti a spegnere le candeline su torte di varia foggia mentre intoniamo (ragliando allegramente) canzoncine assortite.

Dalle feste pagane alla “censura” introdotta nel Medioevo dal cristianesimo – che considerava il giorno in cui moriamo il vero inizio della vita, perché è della dimensione ultraterrena dell’anima che è più opportuno occuparsi -, Schmitt scartabella illustri diari, minuziose cronache di corte e calendari pieni zeppi di santi per tracciare la rotta evolutiva del compleanno “moderno”, svelandoci – fra le altre cose – l’insospettabile legame tra Goethe e la torta con le candeline.

Per definizione, i cataclismi hanno il potere assoluto e terribile di mutare per sempre lo status quo. Impongono un cambiamento radicale (e tragico) della realtà che conosciamo e a caro prezzo ci obbligano a immaginarne un’altra, a ricostruirla sulla nostra pelle oltre che nel pensiero. Non c’è catastrofe che possa vederci preparati o che ci offra appigli per capire come ne riemergeremo – se questa fortuna di “esserci” ancora ci verrà concessa da chissà quale sorte inconoscibile. Nessuno ha merito, nella salvezza come nella morte, ma chi rimane non può che domandarsi cosa fare con quel futuro che, in mezzo all’annullamento del mondo a cui si appartiene, sembra a maggior ragione dono e miracolo, visto che a tanti altri è stato sottratto arbitrariamente e all’improvviso. Il disastro in cui si muovono Nicola e Barbara, i due narratori che ci accompagnano in Trema la notte di Nadia Terranova, è un disastro realmente accaduto: il terremoto del 1908 che ha raso al suolo Messina e Reggio Calabria.

Entrambi, a modo loro, lottano con un presente che non asseconda i loro desideri.
Barbara fugge spesso a Messina dalla nonna per vivere la grande città e allontanarsi da un padre che la vorrebbe sposata con un ragazzo che non ama. A lei piacerebbe studiare e scrivere, ma i margini di manovra per una donna sono ancora molto scarsi e l’indipendenza è un miraggio.
Nicola è un bambino, figlio unico di una famiglia ricca ma piagata da fanatismi quasi inverosimili: la madre lo fa dormire in cantina su un catafalco, legato, sorvegliando ogni sua mossa in cerca dello zampino maligno del diavolo. Nicola ci capisce poco, ma intuisce perfettamente che l’indifferenza del padre e le torture di sua madre non sono il genere d’amore “giusto”.
A fornire loro una seconda occasione per immaginarsi liberi e senza vincoli è, paradossalmente, proprio il terremoto. Oltre al trauma della distruzione, però, ad accomunarli ci sarà un incontro che a Barbara consegnerà un’eredità assai tangibile e a Nicola l’imperativo di crescere per dimostrarsi migliore di quello che le ha visto subire. I loro destini si somigliano nell’idea di reinvenzione e di lotta per la sopravvivenza in due città sfatte, ma la parabola concreta delle loro rinascite sarà diversissima. Entrambi impasteranno quelle macerie per cambiare pelle e plasmarsi un’identità nuova, con l’ostinazione dei sopravvissuti e il coraggio di chi ormai ha già perso tutto.

Il libro procede assegnando un capitolo a Barbara e uno a Nicola. Ogni capitolo fa il suo sotto la vigile benedizione di un arcano maggiore: m’è sembrato bellissimo, perché se c’è una cosa che ho vagamente afferrato dei tarocchi è la possibilità di leggerli seguendo più direzioni “di senso”, più interpretazioni e incroci cangianti. Un terremoto è un orrore che la natura ci infligge, ma in questo romanzo diventa anche un acceleratore di destini, un grande calderone in cui convivono l’immobilità della perdita e lo slancio verso il domani di chi resta e trova il modo – imperfetto, doloroso e pieno di compromessi – di ricostruire.
Anche la lingua di Terranova trova, qui, un passo che somiglia molto alla divinazione: è ricchissima, suggestiva e fluida. Restituisce la componente maestosa che ogni disastro vastissimo trasmette suo malgrado ma anche la forza più circoscritta degli istinti individuali più basilari.
Cosa ce ne facciamo di un male assurdo che si abbatte sul mondo che conosciamo? Dipende. Da noi e dalla carta che pescheremo dal mazzo. Niente è scritto, ma tutto si può immaginare… così come lo Stretto può continuare ad essere attraversato, a seconda del riflesso che il mare ci restituisce.
Un evviva per Nadia Terranova? Decisamente sì.