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tegamini

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Un mesetto fa mi sono cimentata in un’impresa difficilissima – almeno per me. Salire su un palco e provare a parlare per un quarto d’ora di qualcosa che mi sembrava importante.
Ted e TedX (che sono gli eventi Ted organizzati in maniera indipendente in giro per il mondo con il patrocinio dell’inflessibile quartier generale) mi piacciono molto. Sono una specie di enciclopedia globale di idee, curiosità, storie rilevanti, ispirazione e invenzioni. Quando mi hanno chiesto se volevo partecipare alla TedX di Modena, dunque, mi è anche un po’ venuto da pensare MA COSA VOLETE CHE DICA MA PERCHÉ IO. Lasciandomi trasportare da quelle ondate di ottimismo e fiducia nelle mie capacità che ogni tanto mi assalgono, però, ho deciso di provarci. E ho assemblato un discorso sul tempo… un tema che mi sta sempre parecchio a cuore.
Gli speech – perché non sono dei discorsi, sono degli SPEECH – dei Ted devono rispondere a una serie di linee guida. Devono anche un po’ essere delle performance “interessanti”, oltre che trasmettere in modo efficace un concetto centrale che possa in qualche modo toccare i cuori e i cervelli degli altri. Il cappello generale del TedX Modena Salon era il futuro. Anzi, era BE THE FUTURE. E ho pensato che, in quel contesto, parlare di tempo, di come lo usiamo, di come ci sembra che non basti mai e di come ci schiacci – se non riusciamo a trovare un equilibrio – poteva essere appropriato.
Com’è andata?
Ho scritto e riorganizzato il discorso con grande puntigliosità. E ho anche fatto parecchie prove. Parlare in pubblico in una chiesa barocca tutta illuminata di rosso non è che sia proprio una passeggiata. Io, di solito, sto in vestaglia davanti alla macchina del caffè. E, di sicuro, non sono molto abituata a quel livello di “struttura”. O a doverci mettere così tanto. Che un quarto d’ora sembra anche poco, ma là sopra diventa un’era geologica. Molto bene, ora Tegamini parlerà del tempo, occupando l’intero Cretaceo.
Insomma, corroborata dallo studio e da un impegno che di solito non mi caratterizza, ero certa di arrivare in fondo senza intoppi. Come un capodoglio. O Godzilla. Invece mi sono agitata MOLTISSIMO. Non credevo, ma sono ancora ben lontana dalla calma stentorea della regina dei Borg. Nel video che trovate qua sotto – generosamente approvato dall’headquarter di Ted con tutte le benedizioni del caso – ci sono un paio di stacchi. Ecco, immaginatemi mentre raccolgo le idee e tiro fuori una mappa concettuale da una provvidenziale tasca della gonna. E poi riparto, facendo del mio meglio per contenere l’impulso a scappare FORTISSIMO.

 

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Grazie alla formidabile squadra di TedX Modena per l’invito, per il supporto, per il corso accelerato di public-speaking e per la pazienza.

Grazie ai miei compagni d’avventura per avermi fatto scoprire concetti misteriosi e punti di vista avvincenti. È stato bello fare questa cosa complicata insieme a voi.

Grazie a chi è venuto a sentirci al Collegio San Carlo e si è fermato a chiacchierare con me. Incontrarvi dopo un’esperienza quasi traumatica è stato bello, utile e super confortante. Amica che mi hai portato un bicchiere di rosso e un piatto di salame con la torta fritta/gnocco fritto: non ti dimenticherò.

Grazie a Vivienne Westwood – e ad Alexia – per il completo bellissimo che ho sfoggiato per l’occasione… e per la tasca della gonna. Senza quella tasca non ne sarei uscita. Che il cielo benedica Dame Vivienne.

Grazie ad Amore del Cuore, che soffriva in seconda fila ma mi ha sempre sorriso al momento giusto.

E grazie a voi tutti per l’incoraggiamento e il tifo – mi è arrivato forte e chiaro. Volevo rendervi assai orgogliosi e, nonostante qualche impasticciamento, spero di esserci riuscita. Ci provo sempre… e spero con tutto il cuore che si capisca.

Non so di preciso che cosa voglio dire, ma magari lo scopro se comincio a rifletterci.
Dunque, il mio bambino ha compiuto due anni da poche settimane – il che significa che anch’io, in qualità di mamma, ho compiuto due anni. Non sono tanti, ma neanche pochi. E ho il sospetto che, per capire fino in fondo che cosa vuol dire essere “una mamma”, occorrerà ancora parecchio tempo. Forse è un’identità che si costruisce pian piano, ogni volta che soffiamo un naso o prendiamo al volo un bicchiere di plastica con stampato sopra il pesce Dory – magari prima che si schianti sul pavimento. Ogni volta che sentiamo una parola nuova – che combacia, possibilmente, con quello che un ditino sta indicando – o che facciamo del nostro meglio per renderci conto che no, il sabato mattina non si dorme più fino a tardi.
Sono proprio quattro esempi in croce dei millemila esempi possibili. Perché gli esempi non ci mancano. E nemmeno le narrazioni.
In questi due anni, oltre ad interrogarmi sulla metamorfosi identitaria che mi ha investita, ho cominciato a fare molto più caso a come tendiamo a raccontare l’esperienza della maternità. Ma anche a come questi racconti vengono “accolti” e metabolizzati all’interno delle reti sociali (tridimensionali e non) che popoliamo.

Mi utilizzerò come esempio non perché io ho ragione e gli altri sono scemi, ma perché faccio parte della casistica e mi pare una metodologia agevole.

Se uno va a vedere il mio profilo Facebook – ma quello personale, proprio – sembro una che non solo non ha un marito, ma manco si è mai riprodotta. Anzi, sembro una in coma da cinque anni che ogni tanto condivide (per chissà quale miracolo medico) dei link a quello che scrive o che fa per lavoro. E gli altri miei social non sono molto diversi, come approccio – anche se li utilizzo in maniera decisamente molto più “umana” rispetto al profilo Facebook. Sulle Stories di Instagram parlo tanto, in generale. E parlo anche di Cesare. Ma non è una presenza preponderante. Così come non lo si incontra molto spesso nella gallery. Quando c’è, poi, non lo si vede in faccia, ma sempre impegnato a scatenare la sua magnifica assurdità su oggetti, giochi, balocchi e scenari naturali. Non sono neanche una che manda a raffica foto del figlio agli amici. O che, parlando, riconduce immancabilmente la conversazione alla prole. Sempre a livello di contenuti multimediali, invece, amministriamo i parenti stretti con un’applicazione di photo-sharing che ci consente di caricare su questo super cloud condiviso tutti i video e le foto del bambino – i nonni e gli zii (che vivono tutti a un’oretta da noi), quindi, finiscono per avere in mano una fotocopia delle gallerie di immagini che ci sono sui nostri DEVAIS… e il resto lo integriamo telefonandoci indefessamente durante la settimana. Visto che coi social ci lavoro, poi, mi sono anche accorta di non essermi riconvertita a “mamma blogger”. Ho scritto spesso di Cesare e di noi – e ho anche accettato di partecipare a qualche progetto “da mamma” – ma, se una persona volesse leggere dei suggerimenti per organizzare la festa di compleanno perfetta per degli umani che arrivano a stento al metro d’altezza, qui non troverebbe assolutamente nulla.

Ecco.


Io, ogni tanto, mi sento a disagio. Perché, da un lato, mi pare di non “esternare” a sufficienza l’amore e la felicità che provo – considerando soprattutto la frequenza standard con cui i bambini rientrano nelle narrazioni degli altri. Dall’altro lato, però, percepisco il fastidio – spesso manifesto e fiero – di chi si trova a intercettare questi racconti.
Per farla breve, il timore di rompere i coglioni al prossimo che provo quando salgo su un mezzo pubblico con un bambino piccolo che potrebbe mettersi a piangere all’improvviso e per un tempo imprecisato (nonostante i miei sforzi di tenerlo allegro, di intrattenerlo e di ammansirlo) è lo stesso timore che mi sfiora SEMPRE quando mi viene voglia di pubblicare una foto di mio figlio, di inserirlo in una conversazione con il mio prossimo o di scrivere qualcosa che lo riguarda.

L’indole è indole, penso. E sono anche sicura che sia più un problema mio che una vasta piaga sociale. Cioè, anche in un contesto tra i più bambino-friendly del pianeta forse non passerei le giornate a creare album su Facebook dedicati a Cesare o a scrivere pensierini sulle sue gesta nelle caption di Instagram. E non risponderei alla domanda “Che ore sono?” con “Le cinque… proprio il momento in cui Cesare ieri notte ha tossito per tre volte svegliandoci di soprassalto. Ci siamo alzati tutti, siamo andati a vedere se si era scoperto e gli abbiamo accarezzato la testolina”.
Io, semplicemente, sono una che non lo farebbe “così tanto”… ma forse un po’ di più sì.

È anche vero che ci sono narrazioni con cui fatico a empatizzare, nonostante la condizione comune della maternità sia un fattore di avvicinamento. Per esempio, non ho voglia di leggere nessun libro sulle avventure di mamme pasticcione che nella loro consolante imperfezione cronica dovrebbero farci sentire meno inadeguate e più sprint. Così come fatico a identificarmi nelle foto con le mamme ricoperte di veli d’organza che stringono neonati al cuore, accompagnati da un immancabile “6 l’amore della nostra vita, kucciolo”. O con la maggior parte delle caption “da blogger” che vedo su Instagram.

Se non apprezzo tutto questo sono dunque uguale a quelli che dichiarano apertamente di odiare i bambini, anche se ne ho uno? Non lo so, ma non credo.
Perché sono sinceramente felice di imbattermi negli aneddoti di tante persone che seguo volentieri e che condividono anche molto spesso le gesta dei loro infanti, foto comprese. Di sicuro, crescendo, ho anche imparato ad analizzare meglio le classiche situazioni in cui ti viene da stramaledire i bambini perché “disturbano” o non si adattano a uno specifico contesto come piccoli Lord. Chiaro, non sono Santa Rita… se un bambino mi prende a pedate per quindici minuti su un autobus senza che nessuno gli impedisca di malmenarmi tendo a indispettirmi, ma spesso mi accorgo che le madri e i racconti delle madri vengono quasi sempre recepiti con un velo di compatimento. Con un “rieccola qua, a menarcela coi figli”. E non mi soffermo sulla deriva di scherno che accompagna le famigerate “pancine” (nelle loro accezioni più o meno immaginarie o strumentali), perché lì si spalanca un abisso che ha come risultato finale “mamma = povera imbecille dell’alto medioevo”.


Nessuna mamma, forse, ha idea di come regolarsi quando comunica la sua esperienza, nel nostro specifico presente. In fin dei conti, non abbiamo punti di riferimento pregressi. Le nostre mamme non avevano questo problema, se così poi possiamo chiamarlo. Al massimo dovevano preoccuparsi della vicina di casa impicciona o dei parenti che dovevano per forza ficcare il naso nelle loro scelte educative. Non si mettevano a fare, a livello analogico, quello che facciamo noi con le storie e le immagini dei nostri bambini sui social (se abbiamo dei profili pubblici, ovviamente). Cioè, se ci pensiamo, è come se ci mettessimo in mezzo alla strada a distribuire fotografie della nostra prole (con tanto di didascalia) ai passanti. È un paragone scemo, perché i comportamenti si evolvono con i contesti e la normalità di quello che succede è misurata sulle abitudini che sviluppiamo (e che gravitano su un concetto di “accettabilità” che muta con le norme condivise in un certo periodo). Però ci penso, ogni tanto, a mia madre che si mette nel parcheggio della Società Canottieri Vittorino da Feltre a fare volantinaggio con le mie foto di Natale.
Noi, di contro, possiamo scegliere come approcciare la questione (nessuno ci obbliga a “comunicare” i nostri infanti), ma molto spesso continuiamo a non poterne controllare a pieno le conseguenze.
Io, per dire, quando voglio farmi del male vado a leggere cosa scrive la gente sotto ai post della Ferragni col figlio. Se voglio provare del furore vero apro i commenti sotto agli status di qualche amica che ha incautamente dichiarato di dover portare un neonato a fare l’esavalente o, peggio, che si è proclamata felice per il passaggio al latte artificiale.

Ma lasciando perdere i temi ritenuti scottanti o i personaggi famosi – che tirano sempre fuori il meglio dai frequentatori della rete, proprio -, nemmeno coi racconti più innocui e tranquilli si va via lisci. Perché in mezzo ai tanti “ma che bel bimbo!” e “ma che tenerezza!” c’è sempre, se ci fate caso, almeno una voce inopportuna che sceglie di staccarsi da coro per ricordarci che le vicine di casa rompicoglioni continuano a esistere. O per domandare con finto interessamento “ma scusa perché non fai così e così?”. O per farti notare una mancanza, un deficit, un “potevi farlo meglio”. O per esplicitare l’irritazione che i bambini suscitano immancabilmente quando vengono a contatto con situazioni non pienamente strutturate per loro, ma che comunque fanno parte della realtà e del vivere comune.

Racconti una marachella?
Non sei una persona responsabile, stai crescendo un criminale, siete un pericolo per l’ordine pubblico.
Racconti un momento di fatica?
Eh, capirai. Io ho scalato il K2 con due gemelli nello zaino da trekking. E avevo anche il cagotto.
Racconti un traguardo?
Awwww, che bello. Due righe sotto: ma scusa, ha un anno e mezzo e non camminava ancora?


Quando voglio raccontare qualcosa di felice mi chiedo sempre “ma non sarà TROPPO coccoloso?”. Perché è un attimo. Diventi LA MAMMA RIMBECILLITA.
È come se non ci fosse una via di mezzo ancora codificata.
Ci sono dei costrutti e dei nessi causa-effetto prestabiliti. Dei “modelli” di mamma che in un dato periodo sono da ritenersi più accettabili e digeribili – o meno fastidiosi – di altri.

Se ti lamenti troppo era meglio se i figli non li facevi, se non ti lamenti neanche un po’ stai sicuramente fingendo che la tua vita sia un idillio, se parli troppo di bambini sei pesante, se ne parli troppo poco vuol dire di certo che nascondi qualcosa o che non li ami abbastanza. Se dici che sei contenta di come te la stai cavando vuol dire che te la meni GUARDA CHE NOI QUA NON DORMIAMO DA SEI ANNI, se dici che sei scoraggiata stai sputando sul dono più grande che il cielo poteva farti, se lavori come hai sempre lavorato sei una che non sa dare la giusta priorità alle cose, se vai in vacanza lasciando il bambino ai nonni sei un’egoista, se vai in vacanza e ti porti il bambino dovresti prendere in considerazione che anche gli altri sono in vacanza e forse è meglio se stavi a casa tua con quel neonato che strilla, se non vai in vacanza stai chiaramente privando una giovane mente delle esperienze necessarie al suo arricchimento, se racconti tre delle ottantasei cose buffe che ha fatto tuo figlio durante la giornata sei una che se le inventa perché è in cerca di attenzione.
Tutto questo accade contemporaneamente.
E accade, soprattutto, quando sei sincera. Quando non stai cercando di dare spettacolo o di somigliare a un canovaccio noto.
In generale, mi pare che le mamme si dipingano con molto più cinismo e distacco di quello che provano veramente. O che, all’estremo opposto, entrino in modalità “mamma onnipotente” – quella sempre bella, attiva, che lavora, che va a pilates, che s’abbona a teatro, che ha tempo per la famiglia ma anche per farsi i fattacci suoi e che ha sfornato solo bambini prodigio.
Non escludo che nelle due categorie ci siano davvero mamme sinceramente ciniche o mamme sinceramente onnipotenti, ma entrambi gli schieramenti – nelle loro varie sfumature di autentica adesione al principio cardine – hanno il sacro terrore di poter in qualche modo ricascare nello standard della mamma lobotomizzata dalla prole, occupando un punto qualsiasi all’interno dello spettro che va da “sono due anni che proviamo a invitarla fuori ma sai… col bambino… dice sempre che non ce la fa” e finisce con “presa per il culo conclamata su tutte le piattaforme perché ha cucinato la placenta”.

Sembra che non esista nulla di più disdicevole di una donna precedentemente in grado di funzionare all’interno di un contesto socio-lavorativo che, dopo aver avuto un figlio, dà segni di essere in qualche modo stata modificata dall’esperienza. È come se, inconsciamente, cercassimo costantemente di dire “ah, sì, sono mamma. Ma sono ancora una persona normale! Non lasciatemi indietro!”.


Sono andata a rileggermi alcune cose che ho scritto in questi due anni sul tema della maternità. E lo ripeto anch’io, immancabilmente: un mio grande obiettivo, tra i tanti, è quello di rimanere NORMALE.
Che volevo dire? Forse che è importante non dimenticare come eravamo prima. Che possiamo far lievitare la nostra identità per creare dello spazio nuovo che la maternità possa occupare senza sovrascrivere tutto quello che c’era già. O che, per qualsiasi cosa, vogliamo poter continuare a contare sulla rete di fiducia e di rapporti sociali che coltivavamo da nullipare.
Sono ambizioni legittime, mi pare.
Ma in quel SONO ANCORA NORMALE credo si nasconda anche un “non preoccupatevi, non vi ammorberò notte e giorno parlando di cacca. Lo so che è una rottura intollerabile”. Perché io, quello slancio empatico lo faccio. “Sarò menosa?”. “Come posso rendere sereno questo viaggio in treno?”. Il fatto è che, spesso, non percepisco uno slancio simmetrico che proviene dalla direzione opposta.

Per me, che ho passato a casa con Cesare un anno intero, in pratica, conservare la presa sulla normalità rappresentava un obiettivo importante. Perché, di punto in bianco, ti ritrovi a gestire tutto quello che sei in una maniera completamente diversa. Certo, hai nove mesi di gravidanza a disposizione per immaginare il cambiamento di paradigma che ti aspetta… ma poi, quando ogni mattina la porta si chiude e tuo marito va in ufficio, le ore che ti separano da un nuovo contatto con un adulto che ti racconta cos’ha fatto quel giorno sono parecchie. Si diventerebbe un po’ autoreferenziali anche ritrovandosi a gestire una responsabilità minore o un senso di meraviglia molto più limitato. E nemmeno una persona che tende a over-analizzare tutto – salve, eccomi qua! – riesce a prevedere davvero come la prenderà, come reagirà e quale sarà la portata dei suoi sentimenti. Perché sì, gli esseri umani si riproducono dall’alba dei tempi e la faccenda non dovrebbe causare un particolare scalpore, ma per il singolo (e specialmente per la singola nuova mamma) l’evento rimane rivoluzionario. Ma non perché, magari, l’hai presa un po’ troppo sportivamente e sei una che non si rende conto della portata del compito – massì, facciamo un figlio, in qualche modo ce la caveremo -, ma perché un bambino che nasce È un evento rivoluzionario.
C’è chi scopre una vocazione all’accudimento che non pensava di avere.
C’è chi abbandona la modalità Erode e si candida a rappresentante di classe al nido.
C’è chi diventa ferocemente intollerante verso i ventenni spensierati.
C’è chi si mette a chiacchierare in mezzo alla strada con chiunque stia spingendo un altro passeggino.
C’è chi si lamenta delle difficoltà CONTINUAMENTE, ma è felice lo stesso.
C’è chi si lamenta e lo sta facendo per manifestare un grande disagio sommerso.
C’è chi scopre di avere a fianco un padre inadeguato o un uomo che, di contro, “migliora”.
C’è chi riconverte ogni sua narrazione personale alla narrazione della maternità.
Che ne sappiamo. Succede di tutto.

Ci sono tanti racconti lontani da me. Così come ci sono tante esperienze che sono diventate, nei mesi, fonte di incoraggiamento, di utilità pratica e di supporto emotivo. La “normalità” da conservare, per me, è sempre stata un po’ un’arma di difesa. Perché, specialmente all’inizio, ti rendi conto che il resto del mondo procede mentre tu ti trovi in una bolla di tempo sospeso dove esisti – a lungo – quasi esclusivamente in funzione del tuo ruolo di mamma. Ci sono donne più pronte a votarsi alla causa, donne che non sapevano di essere così “adatte” a un compito del genere e donne che si riconfigurano con più difficoltà. E ogni incontro che facciamo, mentre cerchiamo di capire come cavarcela, è un incontro che ci segna un po’. Nel calderone vanno a finire le amiche che insistono per sapere TUTTO quello che sta succedendo, ma anche i colleghi che alzano gli occhi al cielo quando ti suona il telefono e dall’asilo ti dicono che il bambino ha la febbre e devi andarlo a prendere. Ci sono i ragazzi che ti aiutano a portare il passeggino su per una scalinata ma ci sono anche quelli col cane al guinzaglio che, su un marciapiede stretto, si piantano in mezzo e ti guardano infastiditi, senza capire che dovrebbero scendere loro, non tu che hai una carrozzina ingombrante.


Quello che volevo dire, forse, è che mi piacerebbe percepire un po’ più di cameratismo tra esseri umani. Detestare i bambini è un diritto sacrosanto, ci mancherebbe. Non capisco tanto, però, come proclamare il proprio odio per un’intera categoria umana – anzi, per due categorie: i figli e i genitori – possa tramutarsi in un tratto desiderabile. Ciao, sto dichiarando con fierezza di non essere in grado di empatizzare con questa fetta di mondo. Wow… complimenti.
Mi rendo conto che, spesso, la paura che abbiamo di risultare fastidiose e inopportune
– sia mentre ci raccontiamo che mentre “viviamo”, a livello pratico – frena un po’ la possibilità di condividere il bello. Quello su cui inevitabilmente è più difficile allinearsi e concordare è tutta la parte “felice”. Siamo più propense a far venire fuori le menate, perché le menate sono invariabilmente condivisibili. A chi piace svegliarsi quattro volte a notte? A chi piace la scarlattina? A chi piace l’assoluta irrazionalità di un bambino di due anni che strilla come un condor perché non può portare in giro un cane di plastica di due chili e mezzo? A nessuno, porca miseria. Forse, allora, è anche per quello che la felicità viene sempre descritta in maniera esagerata e stereotipata. La madre “soddisfatta” è un susseguirsi di frasi da Baci Perugina, nomignoli ultra-stucchevoli, luoghi comuni di ogni epoca ed estrazione, feste di compleanno faraoniche. La felicità dev’essere ENORME, dev’essere DI PIÙ per riuscire a farsi sentire o a suscitare una reazione.

Io, mio malgrado, appartengo più al partito del cinismo lamentoso. È questione di attitudini. Quello che mi piacerebbe, però, è poter fare a meno sia di una che dell’altra narrazione. Non so che cosa contribuisca, a livello tecnico e formale, a trasmettere quella sensazione posticcia che ti assale quando leggi o ascolti una mamma super cinica o una mamma super orsachiottosa. Non lo capisco, ma lo percepisco. E non ne abbiamo bisogno. Così come non abbiamo bisogno di sviluppare strategie per reagire al compatimento o all’ostilità altrui. I bambini devono piacere a tutti? No. Ma magari noialtre potremmo fare a meno di provare a piacere a chi, esercitando un suo diritto – per quanto discutibile -, la pensa così. E potremmo ricominciare a raccontarci – se ne sentiamo il bisogno -, come ci pare e quanto ci pare. A usare parole vere, che molto più del teatrino che allestiamo sanno trasmettere la bellezza in mezzo alla discreta fatica che ogni tanto facciamo.
Di che parla la gente, alla fin fine?
La gente parla, da sempre, di quello che ama.
Così com’è. 

 

La mia ammirazione per le artigiane che si lanciano in progetti creativi, strambi e coraggiosi è ormai risaputa. Instagram è un luogo dalle dinamiche talvolta tortuose, ma sono felice di essermi costruita un feed di cose belle da guardare e di storie interessanti da veder crescere. Capita spesso che mi arrivino “cose” – da leggere, da mangiare, da indossare. Sono una creatura curiosa e amo sperimentare, ma quello che poi effettivamente arriva a casa è scelto con cura – rispettando quello che sono e anche il lavoro degli altri. Di tanto in tanto, poi, mi imbatto in meraviglie autentiche. E mi viene voglia di approfondire e di fare un tifo sfegatato per le ragazze (perché sono quasi sempre ragazze) che si impegnano ogni giorno in imprese un po’ magiche e immancabilmente “diverse”.

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Un post condiviso da Fil Rouge Jewelry (@filrougej) in data:

Quest’intervista è nata da una collana da bibliotecaria, ad esempio. E da un mio commento particolarmente euforico, dopo qualche settimana di cuori silenziosi da parte mia. Antonia mi ha scritto all’istante, ci siamo scambiate dei video – in cui cercavamo di dirci qualcosa mentre i nostri figli ci saltavano sulla schiena – ed eccoci qua ad approfondire la sua avventura di gioielliera-narratrice. Ho sempre pensato che gli oggetti, anche i più minuscoli, racchiudano un grande potere. Ci fanno ricordare, conservano insieme a noi la memoria, diventano simboli, raccontano storie. E Antonia, con Fil Rouge, amministra con cura le storie degli altri. Qui c’è la nostra chiacchierata. E, anche se cominciamo da Max Pezzali – re della ninna nanna, come vedrete -, ci troverete dentro un’idea preziosa. E una persona ancora più luminosa.

Esordirei con un aneddoto che non c’entra niente con il tuo lavoro, ma che mi ha fatto molto ridere, quando l’ho scovato sul tuo blog. Tu non lo sai ancora, ma anch’io ho passato diversi mesi a far addormentare Cesare cantandogli Come mai degli 883. Uno stratagemma infallibile. Che cosa mai farà Max Pezzali ai bambini?

Quando ho scoperto di aspettare un bambino avevo 21 anni, poca cultura sulle tecniche di crescita di un infante e sul mondo “mammesco” in genere. Questo, per assurdo, mi ha portato ad essere una brava mamma di Luce in quanto ho avuto un bambino quando non ero pronta e non avevo alba di quel che avrei dovuto fare ed è stato l’unico modo per fare le cose giuste. La mia relazione con Max nasce in una di quelle tipiche notti in cui tua figlia pensa di essere uscita da un utero lirico, di essere il primo soprano della Scala e di essere quindi totalmente giustificata ad urlare come una faina in amore. Alle 3 del mattino ho dovuto tirare fuori l’artiglieria pesante e contrattaccare: dal basso della mia preparazione sui metodi naïf e non per calmare un bambino, ho pensato semplicemente di riproporle quel che lei mi stava propinando da ore, così decisi di cantare a squarciagola l’unica canzone che conoscessi a memoria (grazie a qualche amica delle elementari un po’ già inconsapevolmente hipster), ossia “Come mai” degli 883. Il risultato è stato che Luce smise di piangere, io continuo ad usare il mio metodo MammaPsyco – distendendomi ad esempio in mezzo al negozio di giocattoli e battendo i pugni a terra quando fa i capricci (lo uso solo in situazioni estreme, non sono pazza) – e “Come Mai” è diventata la nostra ninna nanna.

Sono andata subito fuori tema. Rimedierò, dunque, con una classica domanda alla David Copperfield. Da dove vieni. Dove vivi. Cosa combinavi prima di creare Fil Rouge.
Ho sempre invidiato quelli che nascono e sanno esattamente chi sono e cosa vorranno diventare. Io provengo da una famiglia di creativi, grazie ai quali ho imparato l’arte della curiosità. Quando sei curioso finisci per conoscere le cose e quando conosci davvero le cose riesci sempre a trovarci del bello e se trovi del bello non puoi far altro che amarlo. Per questo motivo ho spaziato in lungo e in largo attraverso una serie infinita di progetti e lavori di diversa forma e genere; se poi abbini la creatività all’impegno finisci per fare un ventaglio di esperienze enorme, riuscendo bene in tutte e non sapendo poi alla fine dei conti quale fosse la cosa che ti sarebbe piaciuto continuare a fare.
Io sono nata a Trieste e cresciuta a Udine, ho avuto una vita spericolata e piena di colpi di scena, un’opera teatrale della quale non so se mi sono mai sentita spettatrice o attrice protagonista. Prima di iniziare questo progetto lavoravo da anni per una multinazionale dalla quale ho deciso di separarmi per il grigiore che regalava alla mia vita, facevo la mamma single di Luce, procedevo con gli studi in Moda e Design e mi assicuravo un esaurimento nervoso. Ad oggi ho aggiunto Fil Rouge che per quanto possa sembrar sottrarre tempo, momenti ed energia a una vita già moderatamente incasinata come la mia, in realtà ha solo aggiunto. Un mese fa mia figlia mi ha portato un ciondolo a forma di cuore trovato nell’uovo di Pasqua esordendo con una delle frasi più semplici per cui io abbia mai pianto: “Tieni mamma, usalo per le tue collane!”.

Raramente – ma anche forse mai – mi è capitato di imbattermi in un progetto così favolosamente stravagante come il tuo. Come hai cominciato?
Sembra un cliché ma le cose belle succedono quando meno te le aspetti e dalle persone che non immagineresti mai. Ho sempre trovato affascinanti gli oggetti recuperati, la loro anima piena di momenti vissuti da qualcun altro e che in un momento diventano tuoi, li trovo amuleti carichi di magia. L’idea di dargli una seconda possibilità, una sorta di riscatto, mi faceva credere di dare un’opportunità anche a me stessa.
Ho creato alcune collane secondo il mio gusto e le ho caricate su Instagram, raccontavano storie che avevo inventato, senza riferirmi a nessuno, ispirandomi semplicemente alla vita. Senza accorgermene però avevo parlato una lingua che nemmeno io conoscevo, quella di una ragazza che una notte mi disse di volerne tre, perché raccontavano di lei. Non ho mai creduto in me stessa e ho sempre lasciato grandi progetti a metà per codardia, quella notte invece c’è stata una ragazza che pensava di aver ricevuto qualcosa da me, senza rendersi conto di avermi regalato l’inizio della mia storia. Da lì ho iniziato a credere di star facendo la cosa giusta e da quella sera ho raccontato storie di madri, di figlie, di famiglie, di dolori, di ricordi, di attimi, di vite intere, di passioni, di amicizie, di sentimenti, di inizi e mentre nei miei precedenti progetti non concludevo mai perché avevo paura di portarli a termine, questa volta non concluderò questo progetto perché non c’è nulla da concludere, non c’è nulla da finire, la conclusione arriva ogni mattina quando devo rendere reale e tangibile una nuova storia.

Qual è il primo gioiello che hai deciso di inventare?
Il primo gioiello che ho inconsapevolmente creato è stato 4 anni fa, molto prima dell’effettivo inizio del mio attuale progetto. Avevo quattro ciondoli molto importanti in quattro diverse collane: un 13 portafortuna, uno scarabeo turchese, uno scorpione (sì, sono dello scorpione, ero indecisa se dirlo per non creare validissimi pregiudizi) e un ferro di cavallo. Ho pensato fosse davvero stupido tenere cose per me così importanti lontane le une dalle altre quando avrei potuto averle sempre in mezzo al petto; così le ho riunite in un unico filo che non ho mai più tolto e che racconta la mia storia – e con il tempo sono sicura ci sarà ancora molto da aggiungere. Il progetto è nato da lì, dall’esigenza di racchiudere in un unico luogo i momenti migliori della propria vita, perché è vero che sono perfettamente ancorati alla memoria, ma ho pensato che se ci sono libri, poesie, quadri, spartiti che parlano così bene dei ricordi, non vedo perché non possa farlo anche un gioiello.

E dove diamine vai a prendere tutte le micro-antichità e i ciondolini vintage che vanno a finire nelle tue collane? Ti immagino mentre setacci luoghi inesplorati, soffitte, bauli e mercatini di ogni parte del globo alla ricerca del pezzettino perfetto.
La ricerca delle tessere del mosaico nasce da una storia d’amore tra un’abitudine e un’attitudine che da quando suonano insieme hanno dato un nuovo senso alle difficoltà che avevano se prese singolarmente. Quando parlo di abitudine intendo quella dell’assidua e quasi compulsiva frequentazione dei mercatini dell’antiquariato, ossia il posto dove trovo quasi ogni pezzetto. Nasce dai miei genitori, appassionati di modernariato, che mi trascinavano a peso morto ogni domenica mattina lungo le stradine ghiaiose dei vari parchi infestati dalle bancarelle. Quando sei una bambina di 8 anni e finisci a trattare il prezzo per un corrimano del ‘700 a forma di artiglio d’aquila hai due alternative: o coltivi la passione e diventi grande prima del tempo, o scappi ai gommosi e resti bambina. Io per fortuna non ho mai amato gli out out e ho sfidato il tempo continuando ancora oggi a farle entrambe. L’attitudine invece riguarda l’ascolto. Sono sempre stata una buona ascoltatrice, ho ascoltato moltissime storie forse anche un po’ per alleggerire la difficoltà della mia. Col tempo e la consapevolezza ho scoperto anche una spiccata empatia, grazie alla quale non immagazzinavo più solo le parole, ma anche l’impercettibile. È una meravigliosa dote per una persona come me, che la vita aveva reso troppo dura. Mi ha insegnato la delicatezza, nella gioia, nel dolore, mio e degli altri.
Custodisci tutto quello che trovi in una specie di forziere e poi fai una selezione al momento del bisogno o ti lanci anche in ricerche personalizzate?
Devo essere sincera, da accumulatrice seriale quale sono ho raccolto un bel bottino di battaglia nel corso del tempo, al quale difficilmente attingo senza trovare soluzioni. Generalmente, però, per le “Creazioni su Storia”, avendo comunque un limite di tempo per la loro produzione e dovendo andare a colpo sicuro non mi fermo ad una ricerca limitata ai mercati, ma immagino un mio progetto e cerco di soddisfarlo tramite quel che ho, o compiendo una ricerca tramite internet e le varie piattaforme che offrono oggetti d’antiquariato.

Forse è solo una mia impressione, ma mi pare che i tuoi gioielli abbiano una spiccatissima componente narrativa. Che cosa vuoi raccontare, quando metti insieme qualcosa?
Hai presente i bambini che hanno il fatidico periodo del perché? Ecco, io da quel periodo non sono mai uscita. Sono una persona che ricerca sempre le motivazioni per cui una cosa esiste e che cosa l’ha portata ad essere quel che è. Questo accade su tutto: dal voler capire il procedimento che rende l’uva vino, alle motivazioni che stanno dietro il colore della pelliccia di uno scoiattolo, alle leggende che per secoli hanno motivato il colore dell’aurora boreale fino al perché certe persone sono quel che sono e, ad essere sincera, ho una grandissima passione per le cose che non sono quel che sembrano. Ad esempio, recentemente, ho trovato qualcosa che spiega perfettamente chi sono io. Le conchiglie hanno il loro colore grazie all’ambiente in cui vivono, il mollusco costruisce pian piano la sua casetta rubando al mare i granelli di sabbia che lo circondano, e va da se che più si sposta nell’arco della sua vita e più diversi saranno i colori della sua casa. Io sono una persona che non si è mai sentita al posto giusto e questo mi ha portato a viaggiare molto, lavorare in molti settori, appassionarmi alle culture e alle personalità più diverse. Ho preso tutti i granelli che ho trovato e li ho fatti diventare la mia corazza colorata, e senza rendermene conto, grazie a tutti quei colori quel mollusco è diventato una perla. Questa è la mia storia e mi piacerebbe avere una collana che parlasse esattamente così ed è quel che cerco di fare attraverso le mie creazioni, raccontare la vita delle persone attraverso le metafore più delicate che conosco.
La collana più bizzarra che ti è capitato di produrre.
Forse questa collana di bizzarro ha ben poco, ma indubbiamente è differente da tutte le altre. Una meravigliosa ragazza toscana qualche mese fa mi ha commissionato un gioiello da indossare nel giorno del suo matrimonio. Ha pensato che fosse più indicato qualcosa che seguisse il filo della sua storia d’amore, piuttosto che il classico girocollo di punti luce.
Un’altra situazione bizzarra mi è capitata quando una ragazza mi ha commissionato una collana che parlasse della sua nonna, mancata qualche tempo prima. Il giorno seguente in un mercatino ho trovato un bracciale con due ciondoli a forma di cuore con incise le loro iniziali, erano talmente aggrovigliate che sembrava che non volessero separarsi, mi ha commosso questo segno e mi è sembrato giusto far in modo che in qualche modo rimanessero insieme nello stesso posto, e il posto giusto era al suo collo.

Se una volenterosa lettrice (o un volenteroso lettore) volessero una collana Fil Rouge qual è il procedimento che dovrebbero seguire?
Le creazioni sono presenti sui social – Facebook e Instagram – e sul sito web.
Nel caso in cui invece qualcuno fosse interessato a una “Creazione su Storia”, basta che mi contatti tramite uno di questi canali e mi racconti di che storia vuole che la collana sia il filo conduttore. Una volta ascoltato il progetto io cerco i “capitoli” giusti per ricomporre la storia e, nell’arco di massimo 15 giorni, propongo la creazione finita. Una persona che mi contatta per avere uno dei miei lavori difficilmente lo fa se non è totalmente consapevole di avere qualcosa di importante da cercare o da dire e quando si ha qualcosa di importante da dire si cercano sempre le parole giuste per farlo. Io, dal canto mio, col tempo e sviluppando una certa sensibilità, ho imparato i vari alfabeti delle persone e ad oggi riesco a capirle anche se parlano di cose che non conosco. Si tratta di una una relazione, brevissima ma pur sempre una relazione: loro si aprono e si confidano con me e io ho il dovere di capirli perché di fronte all’intimo l’ascolto è fondamentale. E non si ascolta solo con le orecchie.
Grazie, cuora. E buon lavoro! 

Gli esseri umani contemporanei hanno smesso di affrontare le stagioni con il rassegnato fatalismo del villico timorato di Dio. Se il susseguirsi di climi e temperature diverse era, un tempo, un fatto incontrovertibile da accettare e mettere in saccoccia, oggi l’arrivo dell’inverno o dell’estate suscita virulente polemiche, alzate di scudi e battaglie più o meno epiche.

Perché mi sfuggi, infido palloncino!

Sarà che il cambio dell’armadio ci crea problemi organizzativi e furori generalizzati, sarà che forse il villico dell’Alto Medioevo – per quanto la sua esistenza fosse difficile e flagellata da pestilenze, carestie, signorotti prepotenti e superstizioni invalidanti – affrontava escursioni termiche meno drastiche e repentine delle nostre, sarà che ormai siamo rissosi e basta, ma poche cose al mondo hanno il potere di farci infervorare come il clima. E no, non parliamo del tempo atmosferico con l’aplomb dei britannici – che dopo secoli di pioggia finissima hanno elevato ad arte la conversazione a tema meteo -, macché. Le compagini che appoggiano l’estate o l’inverno sono assai più bellicose. Il primo giorno d’afa in giugno viene salutato da sentitissime sollevazioni – BRAVI VOI CHE AMATE L’ESTATE SIETE CONTENTI SI CREPA SUDO COME UNA BESTIA FACCIO SCHIFO SUI MEZZI PUZZANO TUTTI COMPLIMENTI EH CHE BELLE ROBE CHE VI PIACCIONO -, così come le prime nebbie autunnali – VENITEMELO A DIRE DI NUOVO QUANT’È BELLO L’INVERNO DAI SU SE AVETE CORAGGIO MA VI PARE LA NEBBIA SIETE DEGLI ASINI. E via così. Fino al successivo cambio di stagione.

Autunno, ho smesso di combatterti. Vago vestita da pescatore islandese. E bene che sto. 

Io, che di natura sono polemica in maniera generalizzata, ho deciso che la strategia migliore è trovare qualcosa di cui lamentarsi ad ogni stagione. Perché credo sia quello che in fondo ci preme davvero. E lo sappiamo tutti. Mica viviamo in un’area pseudotropicale dal caldone costante. Così come non dimoriamo in una distesa ghiacciata invasa da foche leopardo e narvali vendicatori. Lo sappiamo perfettamente che l’estate non durerà per sempre, o che l’inverno dovrà ben arrivare prima o poi. Ci lamentiamo perché ci piace lamentarci. E non dovremmo vergognarcene.

Qua son contenta perché ho interiorizzato la polemica.

L’estate, secondo me, è mirabile dal punto di vista della luminosità e della lunghezza quasi eterna delle giornate. E ci dona anche la possibilità di poltrire all’aperto sorseggiando cose. È pure più facile vestirsi in maniera interessante senza eccessivi sbattimenti. L’abbronzatura ci rende meno spettrali. In estate ci sono le vacanze.
Poi chiaro, per stare in piedi devo bere delle damigiane di Polase, le zanzare riemergono dai loro nascondigli per perseguitarci, fai venti metri e pezzi come un maratoneta, sui mezzi pubblici si soffoca (o si surgela), partono le guerre coi colleghi/i partner/i congiunti per la gestione dell’aria condizionata, vuoi andare in giro e basta e non lavorare mai più, sui Navigli c’è ressa, la miglior stampa persevera nel pubblicare articoli sulla cellulite delle star, truccarsi diventa impossibile e se hai i capelli lunghi passi due mesi col collo umido. Ma pure se te li tiri su.

L’inverno, di contro, spazza via insetti ed eccessive sudorazioni, ci propone soluzioni vestimentarie che ci mettono di fronte a crisi d’autostima di minor portata, c’è il Natale, c’è il fattore poesia della neve, le cose ricominciano a succedere, bere la cioccolata torna ad essere plausibile, raggomitolarsi sotto al piumone è bello, i gatti ti vogliono più bene perché hanno freddo e ti vengono vicino, risotti, polenta, anolini in brodo, pizzoccheri, bombardini sulle piste da sci.
Va bene, è pur vero anche che ci viene il raffreddore, ci si surgelano i piedi e che bisogna andare in giro con la cuffia, i guanti, la sciarpa e il demonio sa cos’altro e che quando arrivi in un posto ci vorrebbe un tavolo aggiuntivo solo per buttarci su tutto quello che hai addosso. C’è un’oscurità sconfortante e cimiteriale, i bambini si ammalano ogni ventisei minuti, se non possiedi tredici cappotti ti sembra di essere sempre vestita uguale, ci si impigrisce vergognosamente, bisogna vivere col burrocacao in mano o ti si crepa la faccia.

Ti ho afferrato, accidenti!

Però, che rivelazioni.
Che indagine!
Che osservazioni sagaci e assolutamente rivoluzionarie.
Ecco, il punto è proprio quello.
Lo sappiamo che funziona così. 
Cercare di prevalere sulla compagine opposta è del tutto inutile. Non ci farà sudare di meno d’estate così come non ci metterà al riparo dai terrori della sinusite d’inverno. Non ci farà risparmiare cerette nei mesi caldi così come non ci restituirà ore di luce a gennaio.
Perché accapigliarci, quando possiamo semplicemente unirci nel sacro hobby della lamentela? Lamentiamoci simmetricamente di tutto quello che ci pare.
Esercitiamo il diritto di detestare – sempre e comunque – gli aspetti più nefasti del clima stagionale, senza accusare il nostro prossimo di scarsa coerenza.
Sventoliamo vestitoni fiorati in allegria e spiaccichiamo zanzare con autentico furore. Godiamoci la tisana alzando al cielo i pugni pieni di fazzoletti smoccolati.
E appena ci saremo abituati a infastidirci collettivamente per quel che merita fastidio, la stagione cambierà di nuovo. E potremo ricominciare da capo.
Non è questione di schierarsi col Team Estate o col Team Inverno. Gli estremi meritano di essere combattuti da un fronte compatto di polemica. Alleniamoci a concordare sulle discordie, mentre ancora possiamo andare in giro col giacchino e basta. Winter is coming. E, per quanto gli alberi di Natale possano rallegrarci, i White Walkers non stanno simpatici a nessuno. Ammettiamolo, maledizione. Che ci costa. Team Polemica, per salvare i Sette Regni!

***

Afferrare il nulla.

Le scarpine di questo post fanno parte della collezione autunno-inverno 2018 di Scholl, che mi sorregge sin dai primi caldi con le sue saggissime calzature – del tutto immuni alle polemiche, date le loro caratteristiche di spiccata comodità e suprema comprensione delle difficoltà strutturali di ogni stagione. Gli stivaletti si chiamano Peyton: sono super confortevoli – la mini-zeppa di 4 cm è provvidenziale, almeno per la mia schiena -, sono equipaggiati con la consueta tecnologia Memory Cushion (che li rende pantofolosi e ammortizzati, nonché caldissimi dentro) e i materiali sono ottimi (w il Nabuck).
Per dare un occhio a tutte le scarpe invernali, per trovare un negozio o per comprare cose direttamente online, ecco qua il sito di Scholl.
E buone battaglie stagionali a tutti.

Salto, che saltare fa sempre ottimismo. 

 

Dunque, sono finalmente riuscita a fare un po’ di repulisti nell’armadio. Ho eliminato quello che non mi va più bene da un pezzo – vedi cose troppo larghe o cose che palesemente non si addicono alla mia figura (e che credo di aver quindi comprato in momenti di scarsissima lucidità) – e quello che, più in sintesi, non mi va e basta. Lo dicevo mentre vagavo per Corso Vittorio Emanuele qualche tempo fa: non è che non ho niente da mettermi. È che non ho voglia di mettermi le cose che ho.
Ecco, se una roba sta lì a poltrire per un paio d’anni senza che ti venga l’ispirazione di infilartela, forse bisogna far pace con la sindrome da accumulo e decidersi a sgombrare il campo.
Visto però che non credo nel potere salvifico del minimalismo e dell’armadio vuoto come una cattedrale dopo LA MESSA È FINITA ANDATE IN PACE, vorrei cogliere anche l’occasione per rinnovare un po’ il guardaroba. Niente di drastico. Niente container che parcheggiano davanti a casa. Solo qualche integrazione e due o tre cose che si combinano effettivamente tra loro e che, potenzialmente, potrebbero anche funzionare con qualche altro indumento che già possiedo.
Ed è così che, armata di questi obiettivi vecchi come il mondo – ma comunque sempre validissimi e anche piuttosto affini all’indole umana -, mi sono avventurata alla scoperta della sezione moda di Amazon. Ora, io su Amazon ci compro perlopiù i libri in inglese (perché quello che voglio io non c’è mai in libreria) e tonnellate di aggeggi che servono ad amministrare un bambino piccolo. Dal grembiulino di plastica per dipingere all’asilo alle confezioni di pannolini grandi quanto il Principato di Monaco. Poi sì, capita pure che ci prenda armadi portagioie appendibili – un oggetto di rara e provvidenziale funzionalità. Mi ero abbastanza imposta, però, di non addentrarmi mai nella parte FASHION, perché sapevo che probabilmente non ne sarei mai più uscita. Un po’ come Jennifer Connelly nel labirinto di David Bowie. Amazon, qualche tempo fa, mi ha però chiesto di fare un tentativo. Ed eccoci qua.
Che ho preso, a questo giro? Diverse cose. Con un’ottima percentuale di fibre naturali, pure. E una spiccata predilezione per la private label “principale” di Amazon, Find. Voi lo sapevate che Amazon ha diverse private label che sfornano cose molto carine? Io no. Non so mai niente, NIENTE.
Lacune personali a parte, ecco cos’ho deciso di incamerare – sostenuta da motivazioni assolutamente adamantine, come vedremo.

VUOI NON AVERE UNA CAMICIA A QUADRI MOLTO GRUNGE?

Ecco, ho la fermissima intenzione di mettermela esattamente così. Pantaloni neri, una delle mie magliette pazze a prevalenza di bianco/nero, stivalini o Gazelle e via… a far finta di pogare in una palestra stranamente fumosa.

Dove:Find.
Alternativa meno cara e più a base di rosso.
Alternativa più cara e più sul nero, con vezzoso ricamino.

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VUOI NON AVERE UNA SEMPLICISSIMA MA SVOLAZZANTE GONNA MIDI PER L’INVERNO?

Ho deciso che questa gonna sarà molto utile. Perché è una di quelle robe che diventano più o meno “importanti” a seconda di quello che ci metti sopra o sotto. E in vita ha l’elastico – suprema comodità.

Dove: Find.
Alternativa più sciantosa (e dotata di leopardatura su base scura come la tenebra).

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VUOI NON AVERE UNA SORTA DI CAMICINA STELLATA CHE UN PO’ T’AIUTA A DIMOSTRARE LE TUE TEORIE SULLA GONNA DI PRIMA E UN PO’ TI FA SEMPLICEMENTE CONTENTA?

Fiocchi! Galassie! Nebulose globulari! Vezzose maniche a sbuffo!

Dove: Find.
Alternativa in versione vestito-a-portafoglio-che-tende-a-star-bene-a-tutte.
Alternativa col medesimo taglio ma tempestata di volatili orientaleggianti. 

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VUOI NON AVERE UNA TRACOLLA COMODA DI DIMENSIONI SENSATE?

Con l’arrivo di Cesare sono stata costretta a ridimensionare molto le mie aspettative in fatto di accessori. Ho dato via quasi tutte le clutch e diverse borse a spalla troppo grosse. Ho tenuto le borsine piccole “da sera”, perché ogni tanto esco ancora, la roba vintage di MADRE e di mia zia e mi sto ricalibrando sui secchielli coi manici lunghi e sulle tracolle basic. Perché sì. Se vado in giro con l’infante non posso permettermi di avere la mani occupate o della roba sotto l’ascella che mi limita nei movimenti. Ed è pure ora di non vagare più per la città come uno sherpa tibetano, trascinandomi dietro cinque chili di roba tutte le volte. Ben vengano, quindi, le tracolle semplici e razionali. Cara borsa nuova, diventerai la mia borsa standard, quella che va lasciata vicino alla porta con già dentro l’essenziale per sopravvivere nel mondo esterno. Questa, poi, ha una fodera pazza che sono certa mi consolerà dalla fobia per l’indubbia semplicità della struttura.

Dove: Christian Lacroix.
Alternativa più cara e tondeggiante.

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VUOI NON AVERE UN FELPOTTO ARABESCATO PER MIMETIZZARTI CON LA CARTA DA PARATI?

Per quanto ami le stampe, non ho ancora un parco maglioni degno delle mie aspirazioni. I miei maglioni invernali sono quasi tutti neri e quasi tutti a tinta unita. Ho ancora qualche assurdità tempestata di gattini, ma non mi sembrano sufficienti a contrastare la preponderanza della roba “normale”. Insomma, questo aggeggio che somiglia a un divano fru fru mi sembrava una buona soluzione. E poi è cortino… dunque posso cacciarlo pure sopra alla famosa gonna di prima, nuovo perno del mio universo.

Dove: Only.
Alternativa a collo alto con gioiosi intrecci da maestro di sci.

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VUOI NON AVERE DEGLI ORECCHINI POMPOSI DA ABBINARE AL FELPOTTO E ALLA CARTA DA PARATI?

Metti mai che m’invitano a corte.

Dove: Johnny Loves.

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Avrei voluto anche dell’altro? Ma certo. Per il momento, però, cerchiamo di cominciare con un minimo di razionalità. Se volete comunque godervi le mie aspirazioni animalier e altri portentosi svolazzi, qui c’è la wishlist degli Indumentini, che alimenterò con religiosa dedizione.
Sostienici, moda autunnale!

L’estate è finita, è arrivato il momento di lamentarci perché non abbiamo niente da mettere. O perché abbiamo meno tempo per leggere e fare i pisolini. O perché abbiamo posticipato troppa roba all’autunno e adesso stiamo crepando male. La panacea universale a ogni genere di difficoltà, però, è coltivare sani desideri. Io, in tutta sincerità, sto già pensando al Natale. Perché in fondo sono un’ottimista.
Ecco qua un po’ di cose che ho apprezzato – e che magari vorrei pure comprarmi o fare in modo che mio marito me le regali – nell’ultimo periodo.

Come di consueto, può capitare che ci siano aggeggi che ho scoperto, amato e scelto grazie alla solerte sollecitazione di un ufficio stampa o di un brand con cui sto lavorando volentieri. Li trovate segnalati con un agile *.

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Buone nuove all’orizzonte (soprattutto per i miei piedi): Scholl* continuerà a volermi bene e a farmi passeggiare con le sue multiformi calzature anche quest’autunno. Per un agile riassunto delle puntate precedenti, ecco qua i primi due post che sono usciti: UNO e DUE. Accantonando i sandali estivi in vista del ritorno di temperature adeguate e più clementi, sto scegliendo le scarpe da collaudare nei prossimi mesi. C’è di tutto – stivali e stivaletti compresi -, ma penso che partirò dalle sneakers, un po’ perché tra le mie necessità c’è quella di rincorrere un bambino velocissimo, e un po’ per soddisfare una curiosità quasi scientifica: le scarpe da ginnastica sono già, praticamente per definizione, le scarpe più comode che ci sono. A quali assurdi livelli di comodità può arrivare una scarpa da ginnastica Scholl? Ecco, spero lo scopriremo. Sono assai tentata dalle Charlize. Ci saranno in grigio e in nero (con gli sberluccichi metallici) e, indipendentemente dal colore, saranno dotate della consueta e saggissima tecnologia Memory Cushion – la soletta, in pratica, è studiata per redistribuire bene il peso e ammortizzare in modo ottimale la pianta del piede. In attesa di passeggiare in loro compagnia, ecco qua i primi modelli disponibili della collezione autunno-inverno.

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Chronicle Books sforna, in generale, libri pazzeschi – senza mai trascurare il feticismo innato che lega una vasta porzione della popolazione dei lettori ai libri in quanto “oggetti fisici”, oltre che vascelli per ogni possibile meraviglia. Ebbene, è da poco uscito un tomo illustrato di Jane Mount che celebra questa nostre fissazioni per tutto quello che è libresco. Si va dai gatti che hanno deciso di vivere nelle librerie ai negozi più belli del mondo, in un susseguirsi di colori, scaffali meravigliosi e libri ritratti al massimo delle loro potenzialità – in pila, insomma. Per farti capire che li devi ancora leggere.
Date un occhio a Bibliophile qui – c’è qualche immagine degli interni – o mettetelo nel carrello qui.

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Il mio entusiasmo per i grandi rettili preistorici è ormai di dominio pubblico. Tra una maglietta di Jurassic Park e l’altra, però, non ho di sicuro dimenticato l’altra mia surreale passione: LE STAMPE PAZZE. Ebbene, sono felice di comunicarvi che sarà un autunno gloriosissimo per chi ha intenzione di andare in giro con addosso dei dinosauri.
Le stampe in concorso sono due (più svariati accessori).
Tanto per cominciare, ci sono le camicette e i vestiti FAVOLA (sia midi che lunghi) di Ottod’ame.

Ma sul treno dei dinosauri – che è pure un cartone animato per bambini, lo trovate su Netflix – c’è anche Lazzari. Ogni anno, all’interno della collezione “principale”, c’è anche una capsule affidata a un’illustratrice. E a questo giro l’incombenza è toccata a Carolyn Suzuki, che ha deciso di deliziarci con questa fantasia che, personalmente, mi fa venire voglia di stramaledire il meteorite per averci privati di animali così mirabili.

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Non va bene per il mio iPhone, ma sono comunque felice di segnalarvi una cover di Tiger a forma di pavone.

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Nemmeno quest’estate sono riuscita a procurarmi una borsa di paglia. Ma la fissa per gli intrecci non mi è sicuramente passata. Mentre inizio a domandarmi se mai me ne libererò, ho deciso di appassionarmi agli accessori di Studio Sarta, un brand nato nel 2017 a Palermo. La “struttura” delle borse ricorda le sedie di paglia di una volta, ma in versione super minimal. I secchielli sono i miei preferiti. Ci sono diverse combinazioni di colori e sono tutti fatti in Italia con rattan, velluto (per il sacchettino-fodera) e pelle (per fibbie, manico e tutto il resto). Lui si chiama Pablo.

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Primark Beauty ha sfornato una linea di spazzole per capelli con le cattive Disney.
Ciao.
Addio.
Sogno di una vita.
Pettinami, Ursula. PETTINAMI.

Altroché arricciaspiccia!

Orbene, anche questa volta abbiamo finito.
Al prossimo tornado di desideri!

Ebbene, anche quest’anno siete stati gentili e favolosamente affabili. Senza bisogno di incoraggiamenti da parte mia, poi. Un paio di giorni fa sono usciti i risultati della prima selezione per i Macchianera Internet Awards e mi avete spedita per direttissima a militare tra i finalisti della categoria “Miglior sito letterario”.
Vi si vuole bene e siete molto efficienti, bisogna dirlo.

Non posso proprio lamentarmi della mia “carriera” ai MIA. Nel 2016 sono finita in finale sia per i libri che per Snapchat. Per Snapchat ho vinto… e non escludo che la cosa abbia contribuito ad affossare per sempre la piattaforma, almeno per quanto riguarda il recalcitrante bacino d’utenza italiano. L’anno dopo non c’era più la categoria Snapchat ma sono arrivata terza nella bellicosa compagine dei siti letterari. Ha vinto un portale con uno staff “vero” e, al momento di ritirare il premio, hanno pure proiettato una specie di video hollywoodiano dove dicevano chi erano e cosa facevano e il perché e i percome. Io, che parlo di libri in vestaglia per conto mio o, al massimo, scrivo dei post raccontando cos’ho letto in vacanza, mi sono molto meravigliata di essere arrivata comunque lì dov’ero. E senza manco un distacco così abissale, anzi.
Quest’anno, onestamente, non so cosa aspettarmi. Perché siamo – soprattutto su Instagram -, molti di più. Non peggiorare il terzo posto del 2017 potrebbe già rivelarsi un gran traguardo. E se poi facciamo meglio – chissà come -, evviva e gioia.

Non ho grandi argomenti per convincervi a tifare, me ne rendo conto, ma se vi va di sostenere la causa, qui c’è la scheda per esprimere le vostre garrule preferenze – fino al 6 novembre. Se non volete farlo per me, fatelo almeno per Alberto Angela.
Grazie da subito. Perché già finirci, in questa scheda, non è una faccenda per nulla scontata. Ecco perché siete e sarete per l’eternità dei cuoroni, indipendentemente dal risultato.
Per tutto il resto, alla pugna!

VOLEVO EMBEDDARE LA SCHEDA MA MI ESCE UN RIQUADRETTO STILE INCEPTION CON DENTRO DELLA ROBA CHE NON È LA SCHEDA QUINDI QUESTO GROSSO TESTO MAIUSCOLONE DIVENTERÀ UN LINK ALLA PAGINA DOVE SI PUÒ VOTARE CHE DIAMINE SÌ LO SO EMBEDDARE È UNA PAROLA ORRENDA MA TRASMETTE CON EFFICACIA IL CONCETTO APPREZZO LA VOSTRA PAZIENZA E VI ABBRACCIO CON TRASPORTO.

Tra le esternalità positive dell’aver figliato, almeno per me, c’è la possibilità di frequentare impunemente negozi di giocattoli di ogni genere. Comprando possibilmente delle cose, pure – al grido di SONO PER IL BAMBINO CHE COSA AVETE CAPITO.

Quando Nano Bleu mi ha scritto per invitarmi a fare un giro da loro allo scopo di procacciarmi un dono per Cesare e un nuovo pupazzo per il mio pregevole fotoromanzo digitale – per chi ancora non conoscesse PuPAZZI, la serie che ha cambiato per sempre il mondo dell’intrattenimento, nei contenuti in evidenza su Instagram c’è un pratico circoletto con le ultime puntate -, INSOMMA, quando Nano Bleu mi ha proposto di andarli a trovare sono stata investita da una felicità di rara potenza. Perché, a parte la sensatezza generale dell’operazione, ho ricordi antichissimi di quel negozio. Bimba bionda e occhialuta di Piacenza si reca periodicamente in gita a Milano con i pazienti genitori. E, dopo la tappa obbligatoria da Fiorucci, attraversavamo Corso Vittorio Emanuele per fare un giro da Nano Bleu, noto anche in provincia per la sua strabiliante selezione di peluche, fissazione che mi caratterizza dalla più tenera età.
Oggi, che di anni ne ho ben 33, a Milano ci vivo in pianta stabile e ne apprezzo ogni giorno di più la voglia di crescere, di inventare qualcosa di nuovo e di ospitare quello che di bello capita nel resto del mondo. Ma anche la volontà di continuare ad essere accogliente per le realtà indipendenti, che con la loro presenza hanno spesso fatto la storia di una via, di una piazza o di un pezzo di città. Ecco, Nano Bleu è un po’ un posto così. Una specie di istituzione, una vera attrazione (che potrei comodamente definire “turistica”, nella miglior accezione del termine) e, per chi è stato fortunato quanto me, una macchina del tempo tra le meglio riuscite.

Il negozio è stato fondato nel 1949, all’indomani della ricostruzione di piazza San Carlo al Corso, completamente rasa al suolo durante i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale. Nano Bleu non ha mai cambiato indirizzo, né “categoria merceologica”. Vende giocattoli da sempre e, per la perseveranza ultracinquantenaria, si è guadagnato il titolo di “Negozio storico” – l’unico di Corso Vittorio Emanuele. Bancone e vetrine sono ancora quelle d’epoca, mentre gli interni sono cresciuti, con la recente aggiunta di un terzo piano piuttosto mastodontico. Prima di parlare della giraffa di tre metri e venti che campeggia nel bel mezzo dell’anfiteatro dei peluche, vi informerò anche sugli indefessi orari d’apertura – sempre, in sintesi – e sulla possibilità di farsi consegnare gli acquisti a domicilio per chi abita a Milano.

Insomma, c’è dell’impegno. E la giraffa ha anche un amico orso del peso di (credo) seicento chili che siede serafico in vetrina a beneficio dei passanti. Ci sono tanti giochi che appaiono con marziale regolarità nelle pubblicità in televisione, ma anche giocattoli (e sono la maggioranza) selezionati con evidente cura e attenzione. Insomma, chicche avvincenti e Superpigiamini. Il mix funziona, soprattutto per l’atmosfera e per la concentrazione altissima di potenziali meraviglie. E un negozio così, che tiene aperto in Corso Vittorio Emanuele, penso sia una specie di tesoro da preservare.
Grazie per l’ospitalità, Nano Bleu. Siete meglio di come vi ricordavo.
:3

***

Per coordinate, orari e informazioni puntualissime, vi consiglio l’agile visita al sito del negozio.

 

Per la rubrica “un saggio che si legge come un romanzo” – ma anche un po’ “che scoperta, è narrative non-fiction!” -, eccoci qua con Essere una macchina di Mark O’Connell, in uscita il 18 settembre per Adelphi con la traduzione di Gianni Pannofino e l’ambizione del tutto accidentale di consolarci e/o terrorizzarci mentre attendiamo la nuova stagione di Black Mirror.
Perché sì.
Questo libro è come una versione giornalisticamente attendibile e ben documentata di Black Mirror e, nello spazio condensato di un racconto di viaggio alla scoperta del movimento transumanista, ci accompagna anche lontanissimo, alla volta di una frontiera filosofico-tecnologica che persegue un fine ultimo a dir poco ambizioso: sconfiggere la morte. Per sempre.

Qualche passo indietro. Il transumanesimo è, in estrema sintesi, un movimento che punta al prolungamento indefinito della vita umana. I transumanisti intervistati da O’Connell – che per il libro viaggia in lungo e in largo per gli Stati Uniti, partecipando a conferenze, incontrando i personaggi più disparati e salendo anche a bordo di un elegante camper a forma di bara – non approcciano il tema in maniera univoca, perché assai complicata è la natura del problema che intendono risolvere. Ci sono transumanisti che propendono per il congelamento criogenico del corpo e transumanisti che, impegnandosi a livello accademico nella ricerca neurologica, coltivano anche l’ambizioso progetto di riprodurre a livello digitale il funzionamento del cervello per poi poterlo caricare su un supporto indipendente dall’involucro di origine – o da un qualsiasi involucro, volendo. Ci sono transumanisti, poi, che disprezzano la natura imperfetta dell’organismo umano (colpevole di un fisiologico deterioramento che conduce in maniera per ora inevitabile alla nostra dipartita) e tentano di modificarlo e di potenziarlo, elevando a valore supremo il potere dell’intelletto sulla “carne”.
Avversione per la morte a parte, però, tutti i transumanisti sembrano essere accomunati da quella che somiglia molto a una professione di fede. I transumanisti vogliono esistere il più a lungo possibile perché è solo rimandando la morte che sono certi di poter accedere a un futuro in cui la morte verrà definitivamente debellata. In questo scenario, infatti, la tecnologia avrà raggiunto il suo orizzonte ultimo, una sorta di punto di fuga dal quale sarà libera di progredire a ritmi esponenziali – autogenerandosi, autogestendosi, autoreplicandosi. E risolvendo per noi tutto quello che non siamo ancora riusciti a controllare. La “Singolarità”, questo grande evento che cambierà per sempre le sorti del genere umano, è l’obiettivo da raggiungere per afferrare l’eternità. L’importante è arrivarci – vivi o congelati – per avere la certezza di essere rianimati o di poter usufruire efficacemente delle conquiste scientifico-informatiche.

Pazzi? Visionari? Squilibrati?
Chi lo sa.

Il garbatissimo scetticismo e la curiosità giornalistica di O’Connell ci accompagnano per tutto il libro. E la galleria di personaggi che l’autore incontra è a dir poco stupefacente. Molti operano, lavorano o raccolgono INGENTI fondi nella Silicon Valley – “bacino di utenza” particolarmente ricettivo nei confronti della causa transumanista forse per il suo già strettissimo rapporto con la tecnologia, per la tendenza a intraprendere imprese titaniche partendo dal garage di casa e per l’affinità già consolidata con l’inorganico, il virtuale e il meccanico.
Ci sono transumanisti a Google, come ci sono transumanisti che amministrano le ultime volontà dei guru dell’informatica (e dei più ricchi fra gli ottimisti) dalla periferia di Phoenix, dietro la scrivania del più grande impianto di criogenizzazione degli Stati Uniti. La Alcor può tenervi in sospensione fino al sopraggiungere della Singolarità per 200.000$ (se volete surgelarvi tutti interi) o per 80.000$ (se vi interessa surgelare solo la testa). Ci sono transumanisti nei centri di ricerca neurobiologica delle maggiori università americane che studiano l’architettura del nostro cervello con la speranza di riuscire a farlo “girare” su un supporto diverso dal nostro corpo, destinato a deperire.
Il futuro dei transumanisti, infatti, non è solo un mondo dove, ad esempio, le malattie letali non potranno più nuocerci, ma è un’epoca in cui la nostra mente sarà libera di assumere la forma che preferisce, grazie all’upload su corpi artificiali o alla possibilità di lasciarla fluttuale in uno spazio virtuale potenzialmente infinito.

Da fan della fantascienza e da profonda conoscitrice delle tre leggi della robotica di Asimov (con tutte le menate che ne conseguono) non potevo non lasciarmi risucchiare da questo viaggio, che somiglia – paradossalmente – molto più alle opere di finzione letteraria o filmica che in ogni tempo si sono interrogate sul futuro che a qualcosa di oggettivamente plausibile o “reale”.
Eppure i transumanisti ci sono. Si incontrano a conferenze. Ricevono finanziamenti milionari. E si candidano alla presidenza degli Stati Uniti con una campagna elettorale basata su un unico argomento: dire basta alla morte.
Essere una macchina è un lavoro di ricerca complessissimo e affascinante che, nonostante il tema non proprio immediato, risulta assolutamente comprensibile. E assai fascinoso. O’Connell riflette insieme a noi sul destino della coscienza, sul ruolo delle macchine e della tecnologia nel nostro presente (per intravederne le possibilità o i rischi futuri) e, in ultima istanza, sul valore che attribuiamo alla vita e al tempo, pilastri portanti della nostra permanenza sulla Terra.
Che cos’è una persona?
Un involucro per la mente?
Un sofisticato sistema per la raccolta di stimoli e per l’elaborazione di reazioni?
Una forma primitiva di superuomo immortale?
Le risposte del transumanesimo sono tante. Spesso poco plausibili, a volte terrificanti, sempre estreme. Ma immancabilmente fiduciose e tenaci. Due caratteristiche che, nonostante gli sforzi per revisionare e migliorare le nostre obsolete carcasse, sono quanto di più umano possa esistere.

Leggetevi Essere una macchina.
Che magari la Singolarità non arriva… ma se arriva conviene sapere che cosa sta succedendo. :3

Allora, avere un infante comporta svariate e articolatissime responsabilità. Si va da quelle della sussistenza più basilare – la creatura deve mangiare, dormire, lavarsi e indossare dei vestiti puliti – a quelle relative all’apprendimento, al gioco e, più in generale, alla felicità e alla gioia. In entrambi i casi, bisogna industriarsi. Anche con una certa creatività. Perché non è detto che somministrare al proprio luminoso erede un piatto di penne al pomodoro richieda meno estro rispetto all’organizzazione di un teatrino delle marionette, certe volte. Cesare, per mia fortuna, mangia come un facocero senza farsi pregare particolarmente e, grazie al cielo, ha anche deciso di non aver più bisogno di essere cullato per un’ora e mezza in attesa del sopraggiungere del sonno, migliorando di molto la tenuta strutturale delle nostre schiene e dandoci finalmente la possibilità di sfoderare tutti i libri di favole che possediamo. In altri frangenti, però, il nostro spirito di inventiva resta indispensabile. Perché i piccoli umani vanno intrattenuti, e non possiamo di sicuro aspettarci che faccia tutto la scimmia George. La scimmia George va bene quando sei da sola in casa e devi preparare la cena, ma una volta riempito lo stomachino son fattacci tuoi. BISOGNA GIOCARE. Bisogna assecondare i movimenti delle macchinine. Bisogna lanciare palloni di ogni forma e dimensione. C’è il nascondino. Ci sono le costruzioni. Ci sono le robe sonore da schiacciare. Ci sono i balletti e le canzoncine. I carrettini. I puzzle con le bestie. I puzzle fatti a cubo. Il Didò. I pennarelli per scarabocchiare. Le impenetrabili barriere di cuscini. I libri con le finestrelle da finestrellare. I libri che ti spiegano il mondo e come si chiamano le cose. I pupazzi. Ci sei pure tu, tutta intera, che devi trasformarti a comando in un cavallo e passeggiare per casa con tredici chili di bambino EUFORICO sulla groppa.
E fin qui, va bene.
La faccenda molto CHALLENGING, però, è rinfrescare il repertorio ludico. Perché, certo, ci sono dei giochi preferiti che faremo credo PER SEMPRE – temo -, ma mica possiamo adagiarci sugli allori della routine. Gli infanti crescono e le curiosità si evolvono. E tu devi adattarti, estraendo dal cilindro nuove occupazioni e rivedendo il palinsesto dell’intrattenimento per evitare che le minuscole sinapsi del bambino si cementino. Perché bisogna provare, almeno vagamente, a star dietro a tutte le cose nuove che conosce e che sa fare.

Visto però che noialtri abbiamo un po’ dimenticato quella storia della meraviglia che solo la mente di un giovane virgulto sa cogliere anche nel più banale degli anfratti della creazione, ogni suggerimento è utile. Ogni supporto, invenzione o stampella creativa è da considerarsi un’ancora di salvezza nel burrascoso mare del COSA DIAVOLO POSSO ESCOGITARE ANCORA. E il cavallo l’abbiamo fatto. E nasconderci ci siamo nascosti. E i travasi ok. E il libro con gli animali bene. E quello con le filastrocche pure. CHE COSA POSSO FARE PER TE PICCOLO KRAKEN DIMMELO MALEDIZIONE.
Ebbene, ci sono mezzi a nostra disposizione.
Qualche tempo fa, è iniziata la mia avventura con Canon alla scoperta di un progetto da mamma, il Creative Park. Visto che con Canon siamo già amici da tempo e che, per i fatti miei, uso da mesi e con immensa felicità la loro app per lo smistamento (all’interno della famiglia) delle foto e dei video di Cesare – se volete documentarvi, si chiama Lifecake… liberatevi dalla schiavitù dell’invio multiplo di prodotti multimediali a nonni, zii e parenti lontani -, ho accettato di buon grado. Sono stata dotata di una stampante Pixma e sono partita all’avventura.

Ma che si può fare, in sintesi?
Creative Park è una piattaforma in cui Canon ha raccolto – con l’ausilio di creativi, designer e artisti dell’origami di caratura galattica – una serie di progetti ludico-ornamentali da fare con le proprie creature, usando semplicemente la carta, le immancabili forbici con la punta arrotondata e un po’ di colla. Tutti i progetti sono gratuiti, scaricabili e stampabili (istruzioni comprese) e hanno il nobile scopo di intrattenere i nostri pargoli con attività di vario tipo. Ci sono i disegni da colorare, le bestie da costruire, le grafiche da appiccicare al muro per rendere più gioiose le camerette, i modellini da far volare e le giostrine da far penzolare sui lettini. È una specie di enciclopedia tematica di strumenti per generare divertimento “manuale” e di risorse fai-da-te per riempirsi i muri di casa di teste di tirannosauro. O di comodi metri per misurare quanto crescono i nostri benedetti figli. Si può spulciare tutto il “cataologo” e si possono anche consultare le raccolte tematiche – a questo giro, per esempio, c’erano i gruppi di lavoretti coi dinosauri e pure quelli sullo spazio, coi razzetti e i pianeti. LA VITA.

Cosa abbiamo scelto noi? Cesare raggiungerà il ragguardevole traguardo dei due anni a settembre, quindi non posso aspettarmi che faccia “attivamente” gli origami. Può, però, beneficiare del risultato. Quindi mi sono stampata diversi pennuti da fargli saltellare davanti – visto che tra le nostre onomatopee preferite c’è indiscutibilmente CIP CIP – e, nella speranza di espandere le sue capacità verbali e/o definitorie, ci siamo anche lanciati con baldanza sui blocchetti di carte con gli oggetti e la fauna. Non paga, ci siamo anche dotati di allegre bandierine dal grande potenziale decorativo e di una foca che sta lì ad aspettare che qualcuno le tiri dei cerchi colorati sul naso.

Insomma, c’è varietà. E ci sono le basi per sentirsi più estrose di Dodò dell’Albero Azzurro. Il Creative Park è in grado di sopperire a tutte le esigenze ludico-educative dei nostri figli ed è pure garanzia di un’ammissione alla Normale di Pisa con quindici anni buoni di anticipo? No, ma mi pare una risorsa utile per genitori che, molto umanamente, possono aver bisogno di una spintarella sul lato creativo e che vogliono aggiungere qualche freccia al loro arco. Rinfrescare il repertorio, gente. Rinfrescare il repertorio!
Con la sentita speranza di aver segnalato qualcosa di utile a chi ormai ha giocato pure con le piastrelle del pavimento, torno a incollare le ali a un parrocchetto canterino e a pianificare un’intera Arca di Noè di bestiole pieghevoli e variamente rimbalzanti.
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