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Uno dei più grandi fraintendimenti che perseguitano Amore del Cuore da anni è il seguente: a Marco piace un casino fare la spesa. Cioè, al supermercato si diverte proprio. Adora andare a fare la spesa, ci passerebbe i secoli.
A furia di sentirmelo ripetere da mia cognata e da mia suocera – che si fregiava (giustamente) del supporto del figlio maggiore quando si trattava di andare seriamente a fare provviste per il clan, al grido di “menomale che mi accompagnava lui, mi faceva spendere la metà” – me ne sono super convinta anch’io e ho sempre spedito Amore del Cuore al supermercato con grande spensieratezza. Anzi, certa di fargli cosa gradita.
Anni dopo, non si sa bene come, ho scoperto che era tutta una menzogna.
Amore del Cuore odia tutto.
Non so se l’astio sia subentrato dopo un’assidua frequentazione dei supermercati milanesi il sabato pomeriggio o se un certo fastidio di fondo esistesse da sempre, ma ora non ne fa più mistero. Credo stia cercando di tutelarsi, per non passare gli anni migliori della sua vita in coda all’Esselunga, a combattere per quattro focaccine al bancone della panetteria mentre innumerevoli vecchiette col carrellino scozzese – vecchiette che potrebbero fare la spesa durante la settimana alle tre del pomeriggio, invece che al sabato alle cinque insieme al resto della popolazione lavoratrice del nostro bel paese – gli arrotano spietatamente i malleoli.
Comunque.
Un’altra cosa che ho gradualmente scoperto è che Amore del Cuore è bravo a cucinare. E gli piace anche. Ora, spero di non dover tornare qui fra qualche tempo a dire che pure questa era una panzana, una gigantesca illusione, un tragico quiproquo ma, PER ORA, Amore del Cuore cucina con fierezza e buona volontà. Al momento posso addirittura riportare la seguente dichiarazione: “Cucinare mi rilassa”.
E chi sono io per fermarti, Amore del Cuore.
Riempimi di risotti.
Allietami con i tuoi hamburgeroni farcitoni.
Spadella e impana.
Io mangio tutto.
Quando vuoi. Come vuoi.

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Concentratissimo. Sempre.

Ecco perché, in estrema sintesi, ho deciso di imbarcarmi (anzi, di imbarcarlo) in un’impresa di collaudo culinario che è culminata con un garrulo pic-nic al parco nel primo weekend di sole dell’anno del Signore 2018. A SecondChef non importa tanto chi è che cucina, alla fin fine, basta che ci sia qualcuno che lo fa volentieri. 
Ma che roba è?
SecondChef è un nuovo servizio a metà tra il food-delivery e il “ti elimino un po’ degli sbattimenti legati al far da mangiare”. Ti piace cucinare ma, come Amore del Cuore, non hai voglia di morire al supermercato? Hai gente a cena ma non sai cosa inventarti e, soprattutto, hai poco tempo per fare una spesa sensata e completa? Trabocchi di buona volontà e adori i ritrovi conviviali dove ci si alimenta bene ma sei sempre di corsa e non ti va di passare le ore in giro per scaffali a cercare la curcuma? Ogni volta che leggi “q.b.” su una ricetta ti viene l’orticaria? Vuoi fare qualche esperimento perché prepari sempre le stesse tre robe in croce?
Bene, Second Chef potrebbe essere d’aiuto.

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È un’idea molto spassosa e funzionale, secondo me. Vai sul sito, scegli le ricette che vuoi preparare (e per quante persone prepararle), fai il tuo ordine e attendi un glorioso pacco refrigerato che contiene tutto l’occorrente per metterti ai fornelli. Gli ingredienti sono selezionati, freschissimi e arrivano già nelle quantità giuste per la preparazione scelta – entro 24 ore dal confezionamento -, con tanto di pratica scheda che illustra passo dopo passo il procedimento di preparazione. Le ricette, ovviamente, sono di stagione e cambiano ogni settimana. Ci si può abbonare o regalarsi di tanto in tanto uno scatolotto, senza particolari vincoli o patti col diavolo. E il tutto, per ora, è disponibile a Milano (più Lombardia), Roma e Torino.
Per il nostro pic-nic abbiamo scelto l’insalata di riso con seppie e piselli e i calamari con pomodori e olive. Perché sì, se ti arriva buono il pesce penso che sul fronte “qualità degli ingredienti” non ci possano essere grandi margini di dubbio. La box era per 4 persone… ma ci abbiamo mangiato in 6. Belle porzioni, dunque. E un Amore del Cuore pervaso da un’immane soddisfazione (anche se quando lo fotografi sembra sempre una signora siciliana che di lavoro piange ai funerali).

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Serietà massima anche durante le operazioni di impiattamento. Per fortuna c’è Paolo che beve.
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Il mio decisivo contributo: mangiare.

Siete in vena di collaudi e di cucinare per chi più amate al mondo? Date un occhio sul sito di SecondChef e, se vi va di regalarvi un menu, c’è anche un codicino sconto per voi – anzi, un codicione. Fino al 21/4, infatti, con 2TEGAMINI c’è uno sconto di ben 20€ sul primo box ordinato.

Felici cenine e pranzetti a tutti, dunque. E in bocca al lupo a SecondChef per la nuova avventura!

Che belle queste robe a cadenza settimanale che poi faccio un po’ quando capita. Che organizzazione, signora mia. Pugno di ferro. Disciplina. Un calendario editoriale fra i più coriacei dell’internet!
Tralasciando le mie difficoltà esistenziali e pianificatorie, però, i desideri non ci abbandonano. Anzi, si moltiplicano e ci assistono. Che cosa sto bramando ultimamente? Ecco qua un po’ di cose.

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Sto entrando prepotentemente in modalità-sandali e/o scarpe pazze per l’estate. Meglio se prodotte da calzaturifici storici della Riviera del Brenta, perché “questo è il luogo dove i maestri delle botteghe artigiane hanno creato le scarpe per Dogi e Principesse” – recita il CHI SIAMO di Pas de Rouge. Dogi e principesse! E pure noi, adesso. La collezione estiva sembra un incrocio fra le scarpe delle guerriere Sailor e una specie di sogno pastelloso pieno di bottoncini e stringhine. Amo tutto e voglio approfondire.

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Orbene, due designer newyorkesi – Jesse Reed e Hamish Smyth – hanno fondato nel 2014 un marchio editoriale indipendente con uno scopo ben preciso: archiviare e conservare pietre miliari della storia del design in modo da poterle rendere disponibili alle generazioni future. Standards Manual propone, dunque, ristampe di manuali grafici di particolare rilevanza e raccolte tematiche che esplorano una specifica corrente estetico-funzionale. Sono libri assurdi, super curati e fascinosissimi. E il NASA Graphics Standards Manual del 1975 mi fa iperventilare copiosamente.
Cioè.

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Ho deciso che il minimalismo non fa per me. Datemi dunque vestitini gonfi, maniche arroganti, gonne voluminose e arricciamenti boriosi di stoffe. Insomma, datemi un po’ tutto quello che c’è sul sito di Le’One.

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Non si sa per quale ragione, ma Lavazza ha deciso di dedicare un’edizione limitata delle sue macchine del caffè Jolie Plus a Star Wars. Ma non solo a Star Wars così, in generale, al Primo Ordine proprio. Il risultato è una macchina del caffè che non credo faccia niente di più di una Jolie Plus normale… ma che di sicuro starebbe bene sul ponte di comando di un sano Star Destroyer.

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Quando ci siamo conosciuti, Amore del Cuore aveva l’abitudine di scarrozzarmi in giro a bordo della MINI decappottabile che condivideva con sua sorella. L’Alice, ai tempi, ha dovuto fare a meno della sua automobile per numerosi weekend – perdonami, Alice! -, perché Amore del Cuore mi portava continuamente al mare, facendomi ascoltare Rino Gaetano a palla e scappottando ogni volta che il clima lo consentiva. Credo sia da lì che è nata l’ambizione di imparare a mettermi dei foulard in testa come una vera signora.

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Il Disney Store mi ha regalato un Funko Pop e sento di volermi abbandonare a un collezionismo sfrenato. Non so perché quei cosini siano così amabili e nemmeno mi capacito del grado di estensione della gamma dei giocattoli disponibili, ma non importa. Prima o poi dovrò cominciare – ma magari non precisamente dalla Diva Plavalaguna, che ormai è introvabile e costa tipo 90 IUROS. Qualcuno è vittima di un pesante invasamento per questi aggeggi? Come ci si comporta? Che devo fare? Quanti ne avete? Pensate di poterne uscire, prima o poi? Perdiamo il senno insieme.

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Avrò desiderato a sufficienza?
Giammai!
Alla prossima puntata – che non so quando capiterà, ma capiterà.
Giuro.

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Tutte le signore della mia famiglia andavano regolarmente dalla sarta. Erano altri tempi, certo, e credo pure si trattasse (in parte) di imprinting domestico – mio nonno faceva il pellicciaio e l’idea che gli indumenti fossero roba che si confezionava a mano, su misura, era decisamente molto radicata – ma anche, di certo, di un approccio diverso alla “costruzione” del proprio guardaroba. Meno cose, ma cose belle. Che resistono. Che mi stanno bene. Che durano nel tempo perché, in un certo senso, sono fatte anche per quello.
Io, di base, sono pigra. E negli anni mi sono convinta di essere troppo povera per permettermi la sarta. Ma più che oggettiva e drammatica indigenza, la mia è una forma di scarsa oculatezza. Sbaglio il metodo, più che altro. E solo di recente sto imparando ad affrontare la faccenda-armadio con del sano raziocinio. Perché è vero che il fast-fashion ci salva e ci aiuta sotto innumerevoli punti di vista, ma ci spinge anche un po’ a sbragare, ad accumulare montagne di cose che ci stufano all’istante e che magari non ci convincono nemmeno molto – “mi sta un po’ sbilenca, ma non costava niente e l’ho presa lo stesso”. E tutti questi “non costava niente”, reiterati su milioni di schifezzuole che non ci convincono e ci intoppano gli armadi, finiscono per corrispondere al valore di un paio di cose belle per davvero. Che poi sono quelle che ti metti regolarmente e che ti fanno sentire FAVOLA, lasciando da parte il resto.

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Orbene, qualche tempo fa mi ha scritto Caterina – che trovate in giro col nome di battaglia di Mis Katen -, per propormi un’incursione nel magico mondo del “su misura” e per raccontarmi il suo lavoro. Dopo aver a lungo militato nella moda – elargendo anche la sua saggezza alle nuove leve del domani – e aver gestito negozioni di abbigliamento, ha deciso di fare quello che le è sempre sembrato di dover fare: la sarta. Anzi, la sarta pop. Pure un po’ psicologa e/o consulente di stile, a dire la verità. Ma basta vederla. È una di quelle persone che vanno in giro con addosso solo cose dall’aria “speciale”. Non so bene come descrivere il fenomeno, ma è vero. La vedi e ti viene da pensare che sarà perfettamente in grado di farti sembrare molto più interessante di quello che sei – o che credi di essere – e di tirare fuori dal cilindro qualcosa che non somiglia a nient’altro… perché somiglia a te.

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Ma come abbiamo cominciato?
Sono andata a trovare Caterina – che credo abbia la casa-laboratorio tra le più incredibili di Milano e mi domando sinceramente quand’è che qualche prestigiosa rivista di interior design o interiorqualcosa deciderà di dedicarle un numero intero – e abbiamo dato il via alle grandi manovre. Che poi, in realtà, non sono per niente complicate. Non più di un caffè con una tua amica, all’incirca.

Caterina ha un’idea ben precisa di quello che vuole fare con le fortunate che vanno a vestirsi da lei. Il suo obiettivo è inventare degli indumenti che possano raccontare davvero chi li porta, assecondando le più svariate esigenze funzionali e adattandosi – ma proprio dal punto di vista morfologico – al fisico delle sue fortunate clienti. Ah, la commovente magia del su misura! Non parliamo però di abiti dalla gestione complessa – “per carità, è bello ma non me lo metto che poi lo devo portare in tintoria e sai che sbattimento” o “no, guarda, è fantastico ma è troppo importante per uscirci di pomeriggio, lo lascio lì per quando si sposa la cugina Concetta” -, ma di vestiti super speciali per gente che la roba bella la può usare (e la vuole usare) sempre… e che ambirebbe anche a lavarli a 30° in lavatrice.

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Come funziona, in soldoni? Caterina ti osserva e ti misura, si fa spiegare quello che ti serve e ti dice se è plausibile. Se le tue ambizioni sono poco realistiche, si producono alternative maggiormente in grado di assecondare spigoli, ciccette, braccia molicce, cosciotti poderosi o clavicole sporgenti. Perché puoi avere addosso anche la più inestimabile creazione da passerella ma, se non ti senti a tuo agio, sarai sicuramente meno baldanzosa. E sono le cose che ci stanno BENE che ci fanno sentire belle e in pace, c’è poco da raccontarsela.

Dopo aver elaborato qualche alternativa a livello di “taglio”, Caterina pensa ai tessuti. Ha una specie di fanta-armadietto che contiene chilometri di stoffe di ogni genere e composizione. Le prende e, in base all’abito che ha progettato – perché non tutti i vestiti “tengono” con tutte le stoffe, o producono il medesimo effetto – ti aiuta a sceglierne una. Io sono stata particolarmente rompicoglioni perché, nonostante avesse già in casa un mucchio di tessuti, è andata dal suo misterioso e onnipotente fornitore a cercarmene degli altri, in un posto che immagino come una specie di antro delle meraviglie dove vanno a finire gli scampoli della TROPPAMODA milanese. La mia unica indicazione: STAMPE PAZZE. MEGLIO SE CON ANIMALINI E/O NATURA.
E direi che ci ha preso.

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C’è anche un festoso video in cui mi specchio per la prima volta con il vestito “finito”.
(Avvertenza: urletti).

Caterina, oltre ad occuparsi delle signore, pensa anche agli infanti. Il suo progetto Mini-Me, di solito, è per mamme e bimbe, ma per il Cuorino ha deciso di lanciarsi in un energico esperimento. E ora abbiamo anche un bellissimo pagliaccetto per l’estate pieno di minuscoli pugilini – stampa che ben si addice alla personalità della creatura. Anche qui, l’idea non è di mandare in giro mamme e figli/e con i vestiti identici, ma di creare un piccolo dialogo tra i due pezzi, usando colori e rimandi e vestendo – GRAZIE AL CIELO – i bambini da bambini.

Progetti futuri?
Per forza.

Sospinta da una felicità degna di una cotoletta impanata, mi farò confezionare un top. Anche in questo caso, indicazioni molto chiare. E pacate.
ALUCCE.
ALUCCE OVUNQUE.
E FIOCCHI.
FAI TU.
BASTA CHE CE NE SIANO MOLTI.

Sarò riuscita a rendere giustizia al processo?
Me lo auguro.
Caterina, secondo il mio modestissimo parere, è un talento raro. È creativa, ma realistica. È sincera, ma non ti traumatizza. È saggia, ma originalissima. È brava ad ascoltarti, ma riesce a sorprenderti con una versione “migliorata” di quello che potevi avere in mente. E poi è brava a fare la sarta, c’è poco da fare. Credo che persino l’esigentissima MADRE si farebbe vestire di buon grado da lei. E con questo potenziale scenario miracoloso mi sento autorizzata a concludere, lasciandovi un po’ di credits e contatti. Chiamate Caterina, fatela diventare ricca. E fatevi un regalo, che ve lo meritate.

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Il sito di Mis Katen
Mis Katen su Instagram
Mis Katen su Facebook

Le fotone sono del pazientissimo Christian Fregnan.
Non è colpa sua se guardo sempre in terra. Lui è bravone. Sono io che mi imbarazzo.

Reduce dall’aspra battaglia con 4321, mi sono resa conto di aver bisogno di un solido periodo di decompressione e disintossicazione dai tomi troppo voluminosi. Perché, diciamocelo con sincerità, finire un libro in un giorno o due ha sempre il suo fascino e continua a rappresentare una grande forma di soddisfazione. Ecco, dunque, qualche breve impressione su romanzi altrettanto brevi che ho letto nell’ultimo periodo per ripigliarmi da Paul Auster.

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Gianluca Morozzi
Gli Annientatori

I libri di Morozzi generano su di me il fascino degli animali spiaccicati sulla statale. Sono rivoltanti, ma mi viene anche voglia di avvicinarmi per guardare meglio. Anzi, ogni volta che leggo Morozzi mi convinco sempre di più di non volerlo conoscere, perché se una persona riesce a concepire robe così contorte, inquietanti, spaventose, orribili e contro natura non è possibile che stia benissimo. E Morozzi, come se non bastasse, è anche in grado di produrre sortilegi. Perché, se apri uno dei suoi libri, senti di non poterti alzare finché non l’hai finito. Tutto ciò, come da tradizione, è vero anche per Gli Annientatori. Racconta la storia di uno scrittore quasi fallito che vive a scrocco a casa di una fidanzata che non ama. La cornifica spudoratamente e si approfitta di lei, perché non ha più una lira e non saprebbe dove altro andare. Comunque, un bel giorno la fidanzata scopre l’ultima tresca e lo butta fuori. Maspero, però, viene inaspettatamente salvato da un conoscente – un illustratore volgare e perverso – che gli offre la sua mansarda in un palazzo isolato, abitato da un’intera famiglia di gente un po’ stramba e invadente. Io devo partire, vai a stare da me finché ti serve. E il Maspero, da opportunista qual è, non se lo fa ripetere due volte… commettendo l’errore più tragico della sua vita.
SANTO IDDIO SANTO.

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Madeleine Bourdouxhe
Marie aspetta Marie
(Traduzione di G. Cillario)

Per la rubrica “riscoperte editoriali”, Adelphi ci ha ripescato la Bourdouxe. E non possiamo che rallegrarcene, soprattutto per la presenza di un personaggio femminile così poco “docile”. Marie aspetta Marie è, in soldoni, la storia di una donna che pensa di essere felicemente sposata e soddisfatta della vita che conduce. Durante una vacanza in Costa Azzurra, però, un giovane riuscirà a sconvolgere la serenità posticcia di Marie, ricordandole come ci si sente quando è il desiderio – puro e impossibile da contrastare – a prendere il sopravvento. Un romanzo che racconta il tradimento? Non solo. Un ritratto di donna? Non basta nemmeno quello. È una storia che ci accompagna, pian piano, alla scoperta dei meccanismi che si innescano quando smettiamo di ingannarci da soli e, smascherandoci, ritroviamo noi stessi… preparandoci con fierezza ad accettarne le conseguenze.

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Roberto Camurri
A misura d’uomo

Mi sto appassionando agli scrittori italiani che raccontano la vita nei paesini di provincia. Questa volta ci spostiamo a Fabbrico, piccolo centro emiliano che ospita i protagonisti di questo esordio molto dolente ma anche pieno di piccole speranze di riscatto. È un romanzo strutturato a racconti, con piani temporali differenti e personaggi che si sovrappongono o riappaiono per regalarci un altro punto di vista – o, più spesso, l’illusione che le cose non stiano poi andando così male. I tre protagonisti – affiancati sempre da comprimari non meno incisivi – sono Davide, Anela e Valerio, legati da un’affetto perennemente in bilico tra amicizia e amore. Le loro sono parabole di umanissima rovina e di dolore raccontato senza fronzoli e senza il compiacimento del cinismo. Sono personaggi che preparano continuamente il caffè, che si addormentano ubriachi sui divani altrui, che giocano coi cani quando tornano a casa. O che girano per il paese in bicicletta e affrontano a piedi nevicate molto abbondanti. L’atmosfera è fatta di dettagli minuscoli che contribuiscono a renderli vivi, ad avvicinarci ai loro dilemmi… e ai grandi slanci di pietà e tenacia di cui sono capaci.

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J. G. Ballard
High-rise

Con mia grande sorpresa, sono già riuscita a leggere ben quattro cose che mi ero prefissata per il 2018 – la lista dei buoni propositi libreschi è qui, per la cronaca. Non so se le operazioni proseguiranno con il medesimo impeto, ma per ora sono assai felice di essermi fatta terrorizzare con il meraviglioso ed elegantissimo senso della misura di Ballard. Il condominio è una riflessione sugli impulsi più primordiali ed egoistici che si nascondono sotto la superficie del vivere civile. E di come occorra pochissimo, spesso, per far riemergere la bestialità che cerchiamo caparbiamente di nascondere. Ci troviamo in un condominio di nuovissima costruzione, dotato di ogni automatismo tecnologico e ogni comodità. Piscine, supermercati, ristoranti, parrucchieri, una scuola. Gli abitanti – suddivisi in mille appartamenti – sono perfetti rappresentanti della civilizzatissima classe media dei professionisti, dei medici e dei docenti universitari o del gruppo dei dichiaratamente ricchi, fatto di attori, architetti geniali e orafi di lungo corso. L’allocazione degli inquilini rispecchia, all’interno del condominio, la “posizione sociale” di ciascuno, la loro importanza, lo status di cui possono fregiarsi. I più “poveri” e meno importanti ai piani bassi. I ricchi e i potenti ai piani alti. Tutto è regolato dal decoro, dalla misura, dalla raffinatezza e dalla cortesia. Ma basta un pretesto per far sprofondare l’intero condominio in una spirale di violenza, ambizioni meschine e istinti bassissimi. Un libro affascinante.

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Amélie Nothomb
Colpisci il tuo cuore
(Traduzione di I. Mattazzi)

Un’altra lettura rassicurante. È il primo romanzo della Nothomb con cui mi cimento – già, tutti abbiamo le nostre lacune, dopotutto – e non mi aspettavo di riscontrare anche qui un conclamatissimo “effetto-Morozzi”. Dai, leggo qualche pagina mentre pranzo. E niente, l’ho finito. È una storia di donne: madri e figlie, figlie e amiche, figlie e “madri sostitutive”, figlie e figlie. Ma è anche la storia di una bambina che cresce con la consapevolezza di non essere amata e che, con il passare del tempo, si arma di ogni possibile strumento per riuscire ad affrontare il futuro all’ombra di questo immenso disastro. È un romanzo fatto di crudeltà più o meno consapevoli, di tradimenti che si svelano pian piano, della cecità di fronte al male che possiamo infliggere agli altri per placare le nostre insoddisfazioni, o per rifarci delle ingiustizie che pensiamo di aver subito. Ma parla anche della velocità con cui dimentichiamo quel male, nascondendocelo o negando, compensando o ignorando.
Benvenuta, madame Nothomb.

Sono arrivata alla conclusione che le feste di compleanno sono necessarie perché solo buttando in piedi una gran caciara si riesce vagamente a seppellire la tristezza fisiologica che ti assale quel giorno lì. Amici, parenti, congiunti, figuranti stipendiati o anche solo semplici anziani che osservano le celebrazioni in corso. Torte giganti. Canzoni. Bevande alcoliche. Doni, pacchetti, regali, roba nuova. Plateali dimostrazioni di gioia, parate, Frecce Tricolori. Beyoncé.
Io lo so che dovrei mettere in pratica questa strategia. Ci penso tutti gli anni – o, almeno da quando ho smesso di compierli volentieri. Ma poi non lo faccio mai. Ma no, ormai è tardi per invitare. Ma no, non c’è abbastanza spazio. Ma no, non ho preparato niente. Ma no, che con Cesare in mezzo alla confusione facciamo fatica. Ma no, mettono pioggia.

Quand’è che ho smesso di compiere gli anni volentieri, però?

Dopo i 25, credo.
Che per me è anche stato un po’ il momento in cui mi è sembrato di non avere più di fronte un futuro fatto ancora di potenzialità vaste e assolute, ma una sorta di destino già parzialmente scritto. Ma non perché ci sia, chissà dove, una qualche divinità che trascorre le sue giornate a tessere il fato di ogni singolo essere umano del pianeta. Ma perché col passare del tempo accumuliamo scelte e decisioni che, a cascata, producono delle conseguenze più o meno ragionevoli, auspicabili o prevedibili. E che ci fanno avanzare in una certa direzione, sbarrandoci altre strade.

Cresci – se sei fortunata e magari già un po’ propensa a fottertene dei ruoli che l’universo potrebbe appiccicarti addosso – con l’idea di poter fare quel che ti pare, di poter diventare tutto. E, visto che nel TUTTO c’è tutto, c’è anche quello che vorresti essere, ci sono i tuoi desideri. Per forza. Magari non ti sono ancora chiari, questi desideri, ma sai di avere a disposizione un ventaglio di aspirazioni. E il cosa sei, prima o poi, ti apparirà. E sarà lì a portata di mano.

Ecco.

Il tempo che passa, però, fa cambiare forma al tuo ventaglio. Lo modifica.
Magari diventi più capace di distinguere i tuoi talenti dalla roba che ti riesce malissimo. E ripieghi uno spicchio, accantonando qualcosa. Magari sai già che una certa facoltà universitaria sarebbe favolosa per te, ma poi tuo cugino ti ride in faccia alla cena di Natale e ti viene da cambiare idea. E ti iscrivi da un’altra parte, perché è una facoltà “utile”. Nessuno ride più, questa volta, ma ripieghi un altro spicchio. Magari ci metti un qualche anno a identificare le tue aspirazioni. Ed esplori qualche spicchio per accertarti della sua solidità o per accantonarlo con più sicurezza. Ti piace un tizio e state molto bene insieme. Ma lui è lontano e non si può spostare. E tu hai appena iniziato un nuovo lavoro e nemmeno a te pare di poter cambiare città. E salutiamo un altro spicchio.

Mamma mia, leggere 4321. Che toccasana.
Comunque.

Non è detto che ripiegare spicchi sia un male. Di tante cose è meglio liberarsi. Ed è anche molto complicato trascorrere la vita dribblando decisioni, per la paura di ritrovarsi con un ventaglio chiuso in mano. Ma accorgersi, a un certo punto, che fare retromarcia è difficoltoso e che la quantità di spicchi che possiamo giocarci è diventata un pochino meno fantasmagorica non è rassicurantissimo. Ti viene in mente che forse hai sbagliato. Che era troppo presto o troppo tardi. Che hai sprecato delle opportunità. Che non sei mai dove dovresti essere. Che sei troppo grande per cambiare idea. E il futuro comincia a somigliare a un puntino, invece che a un vasto orizzonte illuminato da un sole sfavillante. E l’unica differenza che percepisci è che hai un anno in più, ma di miracoli non ne hai combinati. E non sei molto fiduciosa sulla possibilità di combinarne in futuro, visto l’andazzo.

Perché, SI SA, è il futuro a fare ansia.
E il passato? Quello è il magazzino per la roba di cui ci rimproveriamo.
E il presente serve a pensare alle stronzate del passato e ad attendere che il futuro ci riservi dei miglioramenti.

Credo di aver preso una nuova decisione: mi sono rotta le balle di questo schema. Sarà che, per quanto malvolentieri io compia gli anni, gli ultimi anni che ho compiuto mi hanno dato ben poche occasioni di rimpianto, recriminazione e ripensamento. Sarà che ho imparato molto più di quello che ho perso per strada, per quanto faticosi siano stati alcuni momenti. Sarà che mi sento immancabilmente sostenuta dagli abitanti grandi e piccoli di questa casa – e anche da chi, superando filtri più o meno accentuati, riesce comunque a farmi arrivare numerosi buffettini di incoraggiamento.
Forse il nocciolo della questione non è tanto il tempo che passa, ma un po’ come lo misuri e come scegli di percepirlo.
Perché è pacifico che in un anno ci siano 365 giorni, ma quello che mi viene da prendere in considerazione – quando ripenso a quello che ho combinato – è il dov’ero e il cosa facevo, o le persone che vedevo in un determinato periodo, o quanto mi sentissi saggia o scema. Preferisco pensarmi a capitoli, che per precise demarcazioni temporali. Preferisco misurare i traguardi o prendere atto delle battute d’arresto che sentirmi “vecchia” o “giovane”. E credo sia meglio investire le mie energie nel decidere qualcosa con il cuore e con la testa – accettando l’imponderabile ma provando a fare tutto il possibile per ottimizzare le risorse che abbiamo disposizione – che spaventarmi per i ventagli che si ripiegano.
Perché tutto è migliorabile, tutto potrebbe essere fatto “meglio” o andare meglio – ovviamente. Si può sempre ambire ad essere un po’ più felici. Ma se devo farmi schiacciare da questa sensazione di non essere ancora riuscita a fare abbastanza, se devo perennemente proiettarmi verso chissà che cosa, partirò sempre da più lontano. Perché non ci sarà mai un presente che sento di padroneggiare, un momento “vivo” in cui potrò decidere di iniziare a cambiare (in meglio) quello che penso di dover cambiare.
È un po’ una forma di auto-deresponsabilizzazione, forse, questo spostare sempre tutto sul futuro. Come se il trascorrere del tempo fosse una garanzia di successo. Il tempo non ci calcola. Non è buono. Non è malevolo. Fa il suo. E siamo noi a raccoglierne e a portarne i segni, nel bene e nel male. E temo tocchi un po’ a noi capire che nessuno farà il lavoro necessario al posto nostro. O che il bello che ci stiamo perdendo – nel nome di un “migliore” ipotetico che non è detto che apparirà mai – non tornerà a farci visita. Non con la meraviglia della prima volta, almeno.

E niente, ho 33 anni.
E non ho ancora trovato il modo di ricordarmi com’è che si compiono volentieri.
E ho un ventaglio che è quello che è, perché è lo specchio di un viaggio fatto di tante decisioni, felicità, cretinate, miracoli, sciatterie, scoperte e tentativi. È roba mia. Forse è pure a pois. Non so cosa ne sarà degli spicchi che posso ancora scegliere di esplorare – ma ho deciso di cominciare a usarlo strada facendo, proprio nel modo in cui un ventaglio andrebbe sensatamente utilizzato. Farò quello che posso e proverò ad avvicinarmi a quello che non posso fare. E, nel frattempo, col ventaglio mi ci voglio sventolare.

Tra le cose più belle che possono capitarci in assoluto nella vita ci sono sicuramente i libri e i viaggi. Questi due indiscutibili doni del cielo possono di certo continuare ad esistere senza mai incontrarsi o, magari, trovare un punto d’intersezione in un bel pomeriggio estivo, quando vi piazzate a leggere sotto l’ombrellone. Si può fare di più, però. Si può viaggiare insieme ai libri. O sulle tracce dei libri. O seguendo le orme degli autori che quei libri li hanno scritti. Si possono costruire itinerari letterari per approfondire un determinato angolino del globo, partendo in compagnia e decidendo di condividere un po’ di strada con chi, come noi, viaggia ogni volta che apre un libro e, di tanto in tanto, ama anche viaggiare facendo concretamente i bagagli.
Marta Ciccolarila McMusa per tutti – è un personaggio dal multiforme e vasto talento. Giornalista, blogger, animatrice di esaurientissimi corsi di Letteratura Americana, Marta organizza dal 2014 dei MIRABILI viaggi on the road negli Stati Uniti, tutti caratterizzati da un preciso tema libresco. Visto che l’idea è nobilissima e variamente meravigliosa, ho deciso di farle qualche domanda. Qui trovate le nostre chiacchiere e, per approfondire (e magari prenotarvi un’avventura), ecco qua il campo-base dei suoi Book Riders.

Marta, premettendo che partirei domani per uno dei tuoi tour, come diamine sei finita a organizzare viaggi negli Stati Uniti per appassionati di letteratura americana? Ammetterai che non è unoccupazione in cui ci imbattiamo frequentemente… 

No, in effetti no! Ma a me piace così tanto, e sento che mi calza proprio a pennello! Ho avuto un’illuminazione dopo un lungo viaggio negli States nel 2013: sono stata ospite di diverse famiglie nel Central Illinois per uno scambio professionale e poi ho proseguito per il viaggio della vita, cinque settimane da sola sulla West Coast, da nord a sud, da Seattle a San Diego. Ero appassionata (e grande studiosa) di letteratura americana da anni, ma fu durante quel viaggio (ore e ore on the road) che realizzai: sì, ma le persone devono sapere, devono conoscere questa America! Remota, sorprendente, diversa da quello che noi pensiamo di sapere.

Ho iniziato aprendo il blog e mettendomi semplicemente a raccontare; poi ho proseguito con i corsi, viaggi immaginari stato per stato nella letteratura americana, rivolti a un pubblico di lettori curiosi. Poi ho conosciuto Xplore, tour operator torinese specializzato in viaggi americani. Li ho conosciuti, li ho sentiti affini e scatenati come me e ho detto: ragazzi, io voglio trasformare i miei viaggi letterari in viaggi veri. E così, a un tavolo di un bar assolato nel centro di Torino, sono nati i Book Riders! 

Arriva prima linnamoramento letterario per un preciso luogo geografico o è il fascino di un posto che ti fa venire voglia di approfondire e di leggere? 

Quando ero piccola mio padre mi portò a fare un viaggio in Svizzera, Austria e Germania sulle tracce dei suoi pensatori guida: Freud, Jung, Herman Hesse, Thomas Mann. Per una magia che oggi ricordo con estremo affetto riuscimmo a entrare a casa di Jung sul lago di Zurigo, conoscemmo la nipote, girammo per le quelle stanze circolari che mio padre aveva solo osato sognare durante i suoi studi. Ecco, io credo che sia nato tutto lì, in quella magia.

Ho iniziato a pensare alla letteratura come a un mondo in cui si può entrare e quando ho iniziato a viaggiare in America l’ho fatto tenendo sempre a mente i racconti che me l’avevano fatta amare sin dai tempi della scuola. Adesso che il progetto è avviato posso dirti, però, che arriva prima l’innamoramento letterario. Un innamoramento che può moltiplicarsi dopo che quel posto l’ho visitato per davvero. Il luogo può farmi venire voglia di approfondire, lo guardo con gli occhi della guida letteraria, cerco di capire quali storie potrebbero sorprendere i miei compagni di viaggio, quali dettagli potrebbero amare. Il viaggio in Texas, ad esempio, mi ha fatto venire una voglia di leggere matta e irrefrenabile, sia prima di andarci che dopo (credo si noti, non parlo d’altro da mesi!).

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Ogni destinazione ha un tema. La California del noir, il “wild wild Texas, la Louisiana magica. Come nascono gli itinerari? Ti armi di piletta di libri e di mappa dello stato e vai in cerca di tutti quei luoghi letterari che i tuoi Bookriders potranno vedere sul serio o si tratta di viaggi più “sentimentali?

La prima, condita di qualche tocco strategico. Ti faccio entrare proprio dentro il mio lavoro: penso a uno stato, mettiamo appunto il Texas. Faccio una lista di libri letti e non letti. Penso a cosa del Texas mi piacerebbe evidenziare e conoscere, sia attraverso quei libri che sul posto. Vado in Texas e faccio un viaggio di esplorazione (ecco, premessa fondamentale: non porto mai i Book Riders in posti che non abbia già esplorato da sola o con la mia fida compagna di viaggi, Valeria). In Texas aggiungo o tolgo da quella lista altri libri, scopro un sacco di cose nuove, leggo e ascolto e, sulla base delle mie intuizioni in loco e di quello che ritengo più efficace per far appassionare i Book Riders, raggruppo libri, scrittori, articoli, immagini in un unico tema. Ci sono stati americani, come ad esempio la California, in cui il tema diventa fondamentale: troppa letteratura, non avrebbe senso includere tutto incondizionatamente, è bene trovare un percorso che restituisca più di altri l’anima, l’essenza di quelle zone.

Se poi la domanda era: ma i luoghi letterari (magici, selvaggi, noir) esistono tutti per davvero? allora la risposta non può che essere: certo!

Ho letto il decalogo del Bookrider perfetto. E oltre a pensare che hai fatto benissimo a stilarlo, mi sono anche molto divertita. E vedendo i video dei vostri viaggi passati mi pare anche che funzioni. Cioè, i gruppi mi sono sembrati affiatatissimi! Quant’è importante il lavoro sulla “filosofia di viaggio, per un progetto come il tuo?

Mi fa un gran piacere che tu abbia notato questa cosa, sai? È la parte del progetto su cui lavoro di più ma è forse quella che risulta meno visibile. Sì, esatto, scegliere le letture, gli autori guida, le tappe del tour è un lavoro meno complesso rispetto alla cura dello spirito di gruppo. A me preme che i Book Riders facciano esperienza dell’America a tutto tondo, che riescano ad apprezzare l’autenticità di un desolato paesino di provincia così come di uno scintillante quartiere di Los Angeles, di un motel abitato dalla peggio gioventù così come della frontiera con il Messico. Se vengono meno la curiosità, lo spirito di adattamento, la flessibilità, l’apertura mentale allora viene a mancare tutto: il mio lavoro è quello di inserire ogni cosa (luoghi, parole, persone) in un unico racconto, di rendere ogni dettaglio sorprendente e interessante, di prepararli a quell’autenticità in modo che la possano apprezzare. Molte delle persone che vengono in viaggio con me hanno già frequentato i miei corsi in Italia, quindi sono già dentro lo “spirito McMusa”: profondo ma pop e informale. In viaggio si va ancora più a fondo, discutiamo, ridiamo, ci interroghiamo, leggiamo, parliamo con le persone del posto.. poi certo, più loro diventano curiosi, più è difficile gestire le loro domande.. ho una nota aperta sull’iPhone intitolata “Le domande dei Book Riders”: dovreste leggerle, alcune sono assurde! “Marta, perché ci sono così tanti pick-up rossi in questo parcheggio?” Ragazzi, NON LO SO.

So che non è riassumibile in due parole, ma proviamo. Com’è la giornata tipo di un Bookrider che viaggia con te?

Sveglia prestino, ritrovo verso le 9. Se l’hotel offre la colazione bene, altrimenti dedichiamo al breakfast la prima parte della giornata. E con breakfast intendo: bacon, uova, pancake, toast, patate, avocado e tutto quello che può servire per affrontare una giornata piena on the road. Partiamo, tutti dentro il nostro van personalizzato e via verso la prima tappa! Alcune giornate sono più rurali, altre più urbane. Ognuna prevede da uno a tre momenti letterari: i Book Riders si radunano intorno a me e io leggo o racconto una storia relativa al posto in cui ci troviamo. Possiamo essere seduti su un molo sul Rio Grande, nel giardino di casa di Wallace, in un’aula universitaria, sullo stesso van (in certe periferie di Chicago, ad esempio, è meglio non scendere, anche se è fondamentale vederle), nel museo del rock di Seattle. Gli spostamenti da un paesino all’altro portano via parecchie ore e in quelle ore il protagonista assoluto è il finestrino. E anche la musica! L’America vera si scopre on the road! Di solito si arriva a destinazione intorno alle 18, breve momento di riposo e poi cena molto presto, intorno alle 19 (e in tantissimi posti è già tardi, le cucine chiudono alle 20). Chi ce la fa va a bere qualcosa più tardi, chi è stanco rientra in hotel. Per fortuna i dettagli tecnici (la guida del van, la scelta dei ristoranti, la relazione con gli alberghi, la prenotazione dei voli) è a cura di Claudio e Federico di Xplore: il primo accompagna i Book Riders in tutti i viaggi nuovi, il secondo li coordina tutti da Torino. 

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Un episodio particolarmente favoloso che ti ha fatto pensare “mamma mia, voglio continuare a fare questi tour per leternità”.

Lo penso spesso, sai? Mi emoziono moltissimo in viaggio e quell’emozione è un gran motore. Però l’episodio con la E maiuscola è stato l’incontro con Tess Gallagher, la moglie di Raymond Carver, sulla tomba del marito il giorno del compleanno di lui. 25 maggio 2016. È stato un regalo del destino! Noi avevamo in programma una giornata emotivamente niente male: visita mattutina ad Aberdeeen, paese natale di Kurt Cobain, e poi su verso Port Angeles, casa di Tess e Ray durante i loro ultimi dieci anni felici insieme nonché avamposto magnifico sul Pacifico dove il grande scrittore è sepolto. Quel mattino mi sveglio, guardo Facebook e scopro che è il compleanno di Carver! Mi viene un colpo, penso “va a finire che ci imbattiamo in qualche commemorazione”. E così succede, con tempi e modalità che solo un raffinato deus ex machina poteva aver messo in atto: arriviamo al cimitero dopo soste impreviste, ritardi e deviazioni; vediamo un gruppo di persone radunate vicino a una panca e una lapide nere; io faccio la maestrina e dico ai Book Riders di comportarsi bene perché quelli probabilmente stanno facendo un funerale ma non finisco neanche la frase perché vedo lei e mi pietrifico. “Cazzo, ragazzi. Ma quella è Tess Gallagher!” E da lì comincia un’ora di abbracci, lacrime, poesie lette nel vento del Pacifico, torte cucinate e mangiate in suo onore, batticuore e incredulità. C’è un video anche, che testimonia la mia e la nostra emozione: mi chiesero di leggere una poesia in italiano, e io lessi Per Tess. Lì ho proprio pensato: voglio continuare a inseguire questi momenti per sempre. Me lo sta dicendo il fato.

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E una disavventura assurda, invece?

Chicago. Primo tour, prima sera. Per iniziare col botto! Andiamo a mangiare in un ristorante vicino al locale di Al Capone direttamente dopo l’arrivo. Parcheggiamo il furgone in un parking lot abbastanza vuoto e trascorriamo spensierati un’oretta a tavola. Quando torniamo nel parcheggio il furgone non c’è più! Sparito, andato. Panico. L’avevano rimosso. Tutt’altro tipo di incredulità questa! Poi l’abbiamo ritrovato e il viaggio non ha più subito sparizioni misteriose, ma ci siamo detti che non saremmo mai più andati a mangiare fuori la sera dell’arrivo: il jet-lag non ci aveva fatto vedere il cartello NO PARKING.

So che sei al lavoro sulla prossima tappa. Quale sarà e come sei messa con i preparativi?

Nei canonici periodi di vacanza ripropongo i vecchi viaggi in versione mini: stesso tour, gruppo più piccolo, solo io come unica accompagnatrice. Quest’estate porterò due gruppi di mini Book Riders nel Pacific Northwest, l’angolo di America tra Seattle e Portland, sotto il Canada. Ma la vera novità che annuncio a te e ai tuoi lettori in esclusiva è che, visto che quest’anno ricorre il decennale della morte di David Foster Wallace, a metà settembre vorrei portare un gruppo di appassionati a conoscere i suoi luoghi dell’Illinois e i suoi amici dell’università di Bloomington, dove lui insegnò per dieci felici anni. È una notizia fresca fresca!

Visto che i pazientissimi lettori di Tegamini sono abituati a ricevere consigli libreschi – più o meno riusciti -, cosa stai leggendo ora?

Leggo sempre tanti libri insieme quindi no panic: La straordinaria famiglia Telemachus, un romanzo di Daryl Gregory con nonni nipoti e genitori di Chicago affetti da poteri magici a cui le cose a un certo punto cominciano ad andare male; Lospite donore di Joy Williams, sono 46 racconti, me ne gusto uno ogni tanto; Loitering di Charles D’Ambrosio, raccolta di non fiction utile per il viaggio di quest’estate e, tra lavoro e passione, In a Narrow Grave, saggi sul Texas scritti dal più grande scrittore texano vivente, Larry McMurtry.

E i tuoi pilastri irrinunciabili, sempre rimanendo sulla narrativa americana?

Cormac McCarthy e Don DeLillo, i maestri a cui mi inchino. Joan Didion e Bret Easton Ellis, i californiani del mio cuore. Raymond Carver, lo scrittore che tutti amano per i racconti ma che a me ha fatto scoprire la poesia. Patti Smith e Sam Shepard, mi emoziono solo a scrivere i loro nomi.

Concluderò con una domanda di raro spessore. Quanti libri trasporta in valigia il Bookrider medio?

Macché, loro ne porteranno uno o due al massimo! Poi hanno gli ebook sul tablet e il libro di viaggio che gli faccio io (una raccolta di articoli, racconti, foto e approfondimenti vari in pdf). Quella che ha un lato di valigia sempre pieno di libri sono io! Ma del resto, le foto con il Kindle in mano mica sarebbero la stessa cosa!

*

[Foto di Elena Datrino]

Per addentrarvi meglio nel McMusa-mondo, ecco qua il suo sito.

Orbene, il mondo è pieno di challenge fotografiche più o meno letterarie. Io, però, oltre a non aver mai partecipato a una di queste lodevoli iniziative, non ne ho nemmeno mai “ospitata” una. Non ho la minima idea del perché ci troviamo qui, dunque, ma sono comunque molto felice di provarci lo stesso – insieme a voi, mi auguro.

La faccenda è semplice.

Sostenuta dalla mia travolgente immaginazione, ho elaborato un gioioso elenco di ben 31 potenziali fotografie libresche da scattare nel mese di marzo a beneficio dei nostri profili Instagram e dell’universo tutto. Marzo. Tutto questo non si fa a marzo perché le foto dei libri vengono meglio a marzo, ma perché il nome del mese mi consentiva una storpiatura particolarmente funzionale dell’0rmai consolidato #LibriniTegamini. La baracca si chiamerà #LibriniMarzolini, e #LibriniMarzolini sarà anche l’hashtag di riferimento da utilizzare.

Provo a prevenire le eventuali domande.

Perché?
Perché, se mai qualcuno parteciperà, riusciremo a creare una piccola galassia di libri da approfondire, scoprire e amare. E anche un po’ perché – a causa di impulsi feticistici che non credo di aver cuore di approfondire – mi piace fotografare i libri, oltre che leggerli. E pure per vedere che succede, visto che non ho mai tentato nulla del genere prima d’ora.

Ma si fa tutto su Instagram?
Esatto. L’importante – ai fini della creazione di un bell’archivio a disposizione del mondo – è indicare #LibriniMarzolini quando si posta qualcosa. Se poi volete condividere le vostre foto anche da altri parti, non c’è problema. Anzi. Bravoni.

Ma devo fare per forza 31 foto? TUTTE?
Assolutamente no. Fate quello che vi pare, quello che avete tempo di fare o quello che vi sembra più significativo per il vostro percorso di lettori. Ovvio, se ci sono milioni di foto è meglio, ma non è un lavoro. Dev’essere un piacevole sollazzo.

Ma devo andare in ordine cronologico?
La Marie Kondo che è in me vi risponderebbe di sì. Ma la verità è che se arrivate in ritardo ma volete comunque fotografare qualcosa, potete postare un po’ quando vi va. L’importante è indicare il tema della giornata, che così si capisce tutto un po’ meglio.

Ma bisogna fare le foto come la Petunia Ollister?
No, non è necessario. Le foto della Petunia Ollister stanno là nell’iperuranio. Noialtri facciamo quello che siamo capaci di fare e quello che ci somiglia, soprattutto.

Ma che ci scriviamo nella didascalia?
Quello che vi pare. Dal trattato critico-filosofico all’opera al perché avete amato – e raccomandate – un certo titolo al vostro prossimo. Citazioni? Favola. Frasi sconnesse? Come volete.

Qualche editore ti paga per far questa roba?
No. Magari!

E su Instagram dove sei?
Qua.

Cosa si vince?
Niente, tendenzialmente.
Ma mi piacerebbe creare un post finale per raccogliere i risultati più curiosi e interessanti dell’impresa.

E i temi?
Eccoli.
[Se cliccate sull’immagine verrete catapultati anche a una stampabilissima versione ingrandita].

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Mi auguro che la bislacca iniziativa possa allietarvi, stimolare la vostra creatività e farvi spendere molti soldi in libreria. E ringrazio da subito chi deciderà di partecipare. Mal che vada, farò 31 foto da sola. Ma spero di no, in tutta sincerità.
Molti cuori e buon divertimento, quindi. Spero di trovarvi su Instagram con #LibriniMarzolini. 

Da quant’è che non andavo a teatro? Quasi due anni, se dobbiamo fare un calcolo avvalendoci di una misura del trascorrere del tempo convenzionalmente condivisa. Più o meno tremila, invece, se vogliamo servirci di un’unità di misura un po’ più sentimentale. Sono una spettatrice curiosa e molto propensa a lasciarsi affascinare da quello che succede sul palcoscenico, pur avendo ancora larghissimi margini di manovra sul fronte delle conoscenze drammaturgiche. Il mio sogno è un po’ quello di diventare una di quelle sciure milanesi con le perle, il foulard di seta, la borsetta inestimabile, l’atteggiamento ipercritico, la piega fatta e l’abbonamento al Piccolo. Loro sì che hanno capito come si sta al mondo – nonostante siano stranamente propense a mettersi gli orecchini con la clip.
Comunque.
La scorsa settimana sono andata a vedere “Freud o l’interpretazione dei sogni”. Regia di Federico Tiezzi e testo di Stefano Massini, che già “conoscevo” per i miei trascorsi einaudiani e per Lehman Trilogy, che avevamo visto nella monumentale e favolosa versione integrale di cinque ore e passa, sempre messa in scena al Piccolo. Prima della rappresentazione abbiamo avuto la fortuna e il vasto onore – grazie alla saggia intercessione di Intesa Sanpaolo Giovani – di chiacchierare con Marco Rossi (che per il Freud si è occupato della scenografia) e con il costumista Gianluca Sbicca, che ci ha anche portato a visitare la sartoria del teatro, antro degli stuporoni – e delle scatole dai contenuti più imprevedibili.

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Ma procediamo con un vago senso logico.

Il testo di Massini è un viaggio onirico/metodologico all’interno di una delle opere che hanno segnato il Novecento, cambiando per sempre la percezione della nostra vita interiore. L’interpretazione dei sogni è già uno scritto dallo straordinario potere narrativo. Sigmund Freud è un “autore” dalla penna felicissima, un abile costruttore di intrecci che ha saputo (o voluto) appoggiarsi alla scrittura come strumento fondamentale per decifrare l’insondabile. Massini lo trascina nella rappresentazione, così come ogni paziente finiva per risucchiarlo nei propri turbamenti, invitandolo (più o meno volontariamente) a smontare e maneggiare la materia disordinata e misteriosa del sogno. Lo spettacolo è un tragitto dalle molteplici facce e destinazioni.
È un viaggio che racconta la costruzione di un metodo – perché insieme a Freud ripercorriamo le tappe fondanti della teoria psicanalitica, dai casi clinici all’ipnosi -, ma anche un racconto che procede per accumulazione di dubbi, scoperte, cantonate e punti di svolta – che viviamo grazie alla processione, spesso dolentissima, dei pazienti che bussano alla porta di Freud per liberarsi di qualcosa di innominabile che li angoscia o li intrappola nella vergogna, nella paralisi completa, nell’incapacità di abitare davvero il mondo o anche solo il proprio essere. Ma è anche – e forse soprattutto – un viaggio fra i diversi piani della coscienza, una commistione tra realtà taciute e sogni che gridano la verità in un linguaggio che acquista senso solo se destrutturato, decodificato, rivelato.

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Al centro di tutto c’è la figura di Freud – evviva Fabrizio Gifuni! – che non ci appare come uno scienziato eroico e infallibile, ma come un essere umano a sua volta alle prese con il demone del fallimento, con le grandi indecisioni di un metodo che va formandosi per stratificazioni e incontri. Una persona che rifugge da chi appare sopraffatto da un fardello di ossessioni che somigliano troppo alle proprie ma che, al contempo, non può fare a meno di governare con divorante curiosità un microcosmo di pazienti che potrebbero ritrovarsi a tributargli, un giorno, la loro eterna gratitudine. Un sognatore tra i sognatori, insomma, diversamente – ma comunque – tormentato da tarli, ricordi e ambizioni.

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Il risultato di tutto questo, nel testo di Massini, è una perfetta compresenza tra riflessioni del medico e degli afflitti che sfilano nel suo studio, tra sogni “decifrati” e sogni ancora misteriosi, tra realtà studiata e realtà onirica. Lo spettacolo stesso ha la struttura di un gigantesco caso clinico, in cui Freud si muove per decifrare se stesso mentre si addentra nella psiche altrui.
PERBACCO CHISSÀ CHE CASINO.
E invece…
Uno spettacolo “funziona” se il testo ha la possibilità di vivere in uno spazio, di trovare voci e movimenti capaci di rendere giustizia alla sua complessità, rendendola però fruibile, chiara per noi quanto possono esserlo quelle verità che si appigliano al nostro istinto, diventando limpide anche quando indagano una materia oscura e mutante come il sogno. E tutto questo, tra le altre cose, è compito della scenografia.
Marco Rossi ci ha raccontato – redarguendo anche un solertissimo addetto di scena che stava passando l’aspirapolvere in vista dello spettacolo serale (ma noi ti vogliamo bene, signore con l’aspirapolvere!) – gli aspetti più impervi del lavoro su un materiale come quello di Massini, che riunisce sullo stesso palco – contemporaneamente – il tangibile e l’immaginario. La scena è divisa in “piani”, separati da una barriera di porte che si spalancano a turno per lasciar filtrare quello che ribolle sotto la superficie, come una rete, che separa fisicamente ma resta comunque permeabile. Ma i sogni vengono anche raccontati, non solo “visti”, e capita che il piano immateriale da rappresentare sia quello delle riflessioni di Freud. E il pensiero, il lavoro di scomposizione e di sintesi, di condensazione e spostamento, diventa parola che appare fluttuando – ma proprio con delle scritte luminose, fatte di termini chiave o di punti salienti che ci aiutano ad orientarci, come una mappa, come se il taccuino dello psicanalista fosse anche un po’ in mano nostra. Quello che “c’è” sul palco è ridotto all’essenziale e, abbiamo scoperto, è anche stato realizzato a partire da materiali di scarto… proprio come i sogni, che rubano pezzetti di memoria o frammenti indigeribili per la coscienza,  trasformandoli in qualcos’altro, che ci risulta al contempo familiare e alieno. Un principio che ritroviamo anche nel lavoro sui costumi, mi viene da dire.

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Gianluca Sbicca, il costumista del Freud, ci ha fatto da guida tra bozzetti e moodboard utilizzati per dare vita allo spettacolo di Tiezzi e Massini. L’ambientazione della Vienna di inizio ‘900 riaffiora nella scelta dei materiali e delle stampe – l’ispirazione visiva per tagli e fantasie, infatti, è proprio quella della secessione viennese. I motivi sono spesso ripresi da tappezzerie d’epoca e modelli “storici”, che ritroviamo sul palco in una nuova veste o riplasmati con il velluto, una stoffa scelta proprio per la sua natura cangiante e mutevole. I pazienti di Freud indossano anche i loro demoni, e gli abiti che portano raccontano il percorso di guarigione. All’inizio li vediamo aggirarsi per la scena con grandi maschere animalesche, che li accecano e li rendono irriconoscibili. Man mano che il lavoro psicanalitico prosegue, però, i colori dei costumi si fanno più vivaci e i testoni zoomorfi spariscono per lasciare il posto alle persone che ci sono sotto.

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Lo spettacolo si chiude con una soluzione scenica (e pure concettuale) davvero potente, che trasforma anche lo spettatore – al pari dello psicanalista – in sognatore depositario di costrutti irrisolti. Ma, visto che fino all’11 marzo potete ancora andare a vedere Freud a teatro – ecco qua i riferimenti dello spettacolo – non credo di volervela spoilerare troppo. Per chi volesse approfondire il testo di Massini, invece, ecco qua il tomo. Per vederci vagare a teatro, poi, qui ci sono un po’ di foto.
Non mi resta che ringraziare Intesa Sanpaolo Giovani per l’ospitalità e il Piccolo Teatro per la magnifica rappresentazione e per averci permesso di invadere preziosi spazi di lavoro. Un grazie sentitissimo anche alle sciure milanesi della terza fila, per avermi mostrato la via da percorrere.
Rifacciamolo presto.

*

[Le foto di scena sono di Masiar Pasquali e arrivano da qui].

Visto che la piccola lista di Adelphi sembra essersi rivelata utile, ho pensato di compilarne una anche per i tascabili Einaudi, che saranno in promozione al -25% fino al 10/3. Il compito è assai arduo, perché nei tascabili Einaudi c’è praticamente tutto lo scibile umano, compresi i classici irrinunciabili della narrativa più o meno contemporanea. Certa di fallire, dunque, farò del mio meglio per sintetizzare. E magari per scovare qualcosa di meno ovvio… anche se quando finisco questi elenconi mi viene sempre da dire “capirai che originalità”. Proviamoci lo stesso, però.
Alla pugna! (In ordine rigorosamente sparso, come da tradizione).

***

Jeff VanderMeer, Trilogia dell’Area X

Sono tre libri difficili da classificare. O da spiegare. Su Amazon ci sono recensioni esilaranti. MA CHE TORRE? NEL PRIMO LIBRO C’È UN TUNNEL CHE VA NELLE PROFONDITÀ DELLA TERRA! LO CHIAMANO TORRE! C’È SICURAMENTE UN ERRORE DI TRADUZIONE! E invece no. L’Area X trasforma anche i concetti architettonici più consolidati… così come dovrebbe trasformare la nostra percezione della realtà. Il tascabilone (con la copertina curata da Lorenzo Ceccotti) raccoglie Annientamento – che è diventato anche un film di Alex Garland con Natalie Portman -, AutoritàAccettazione. Se siete in vena di esperimenti biologici, enigmi, parentesi metafisiche, cospirazioni e litorali misteriosi, mettetevi lo scafandro e partite.

[Qui il mio post originario sulla Trilogia].

*

 Stefania Bertola, Romanzo rosa

Un romanzo che consiglio SEMPRE per una ragione semplicissima: è un piccolo gioiello di comicità. Una signora di mezza età – dalla vita non particolarmente movimentata – decide di iscriversi a un corso che promette di insegnare a sfornare un romanzo rosa “regolamentare” in una settimana spaccata. L’insegnante è una blasonata autrice di “Melody”e la classe è composta da individui piuttosto imprevedibili. Il libro racconta il corso e contiene anche un romanzo rosa che farebbe impallidire gli sceneggiatori di Boris. Ho riso tantissimo.

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Agota Kristof, Ieri
(Traduzione di Marco Lodoli)

Visto che con la Bertola si stava troppo allegri, direi di passare ad Agota Kristof – che non ha scritto solo La trilogia della città di K. Un libro che racconta la vasta disperazione di un uomo senza futuro, perché senza passato. Dopo aver reciso di netto – anzi, a coltellate – le sue radici, Tobias fugge per ricominciare da capo in un paese lontano. Lavora in una fabbrica di orologi e le giornate si srotolano, meccaniche, davanti a lui. A sostenerlo c’è un’unica speranza: Line, una donna a lungo immaginata che si trasformerà nell’ossessione definitiva.

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Francesco Piccolo, La separazione del maschio

Il narratore è un porco mascalzone. E si accoppia ripetutamente – con descrizioni pure piuttosto esplicite – a intervalli ravvicinati e regolarissimi con una moltitudine di donne diverse da sua moglie. Moglie che, comunque, ama teneramente e che non si sognerebbe mai di lasciare. Perché la sua giustificazione è un po’ questa: “ti adoro, ma sai… sono fatto così”. E il problema è che ci crede veramente. Il diario di un fedifrago spavaldo e sincero, per esplorare la coppia con gli occhi di un uomo dalla schiettezza disarmante – ma che si merita comunque dei gran calci in culo.

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Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica
(Traduzione di Franco Lucentini)

Credo sia uno dei miei libri preferiti di tutti i tempi. È una specie di dizionario ragionato delle creature immaginarie, da quelle più note alle bestie mitologiche di nicchia. È una guida alla meraviglia e alle leggende che hanno sostenuto e affascinato i popoli di ogni tempo, dall’antica Grecia all’estremo Oriente. Vi siete sempre chiesti – tra le altre cose – che diavolo sia il CATOBLEPA di cui Elio canta le gesta? Ecco, qua c’è pure il catoblepa. Una gioia.

*

Magda Szabó, La porta
(Traduzione di Bruno Ventavoli)

Le protagoniste sono due donne molto diverse. Una scrittrice con poco senso pratico e la signora non più giovanissima che viene assunta in casa come governante. Ermenec è spigolosa, riservatissima, severa e testarda. Ma è anche una donna capace di stringere legami assoluti e di accudire con l’affetto autentico di chi non si muove mai con un secondo fine. Il suo passato è impenetrabile, un po’ come il suo appartamento – con una porta che nessuno può aprire e che, sospettiamo, nasconda la storia vera della sua indole inflessibile.

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Philipp Meyer, Ruggine americana
(Traduzione di Cristiana Mennella)

Il sogno americano che rallenta fino alla paralisi, rapprendendosi come la ruggine che divora le acciaierie dismesse di Buell – Pennsylvania -, le saracinesche dei negozi chiusi, le giunture delle case-mobili in cui la gente va a vivere senza credere troppo nel futuro. Isaac, dopo aver passato anni ad accudire il padre malato – al contrario della sorella che si è rapidamente eclissata, per andare a star meglio da un’altra parte – decide di andarsene. Vuole raggiungere la California, ma il suo viaggio rischia di interrompersi ancor prima di cominciare: in un capannone dismesso, dove ha deciso di ripararsi insieme a un amico grande e grosso – ma non molto sveglio -, si imbatte in un gruppo di vagabondi poco raccomandabili. Che cambieranno irrimediabilmente la traiettoria della sua fuga.

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Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno
(Traduzione di Maria Antonietta Saracino)

Di Ishiguro consiglio sempre Non lasciarmi – che è all’incirca il libro più triste mai scritto dall’umanità nel suo complesso, ma che amo moltissimo nonostante tutti i fazzoletti che servono per finirlo -, ma un altro splendido esempio di malinconia e illusioni perdute è anche Quel che resta del giorno. È la storia di un maggiordomo che ha fatto del dovere la sua unica ragione di vita. Dopo aver passato un’esistenza intera al servizio di un gentiluomo dalla condotta morale non proprio limpidissima, Stevens si prende una settimana di ferie – all’incirca la prima da quando lavora – e si avventura nel mondo esterno per un piccolo viaggio in Cornovaglia, viaggio solitario che gli darà il tempo di raccogliere le idee e di fare un bilancio degli anni trascorsi ad occuparsi fedelmente degli altri, mettendo sempre da parte quello che sentiva davvero e scopettando sotto al tappeto ogni frammento di verità che avrebbe potuto incrinare gli ideali di tradizione e di devozione assoluta che governavano il suo comportamento. Stevens, io sono sinceramente dispiaciuta per te. Però CHE DIAMINE.

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Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa

Un romanzo di formazione e di promesse infrante, che racconta le due facce degli anni Ottanta – da un lato, quella di un’improvvisa prosperità economica e dell’ostentazione del benessere e, dall’altro, quella torbida della disonestà a viso aperto e della droga che lambisce con la sua lunga ombra un’intera generazione di giovani, inghiottendoli e trasformandoli per sempre. Sullo sfondo – ma mica tanto – una Bari agitata, paradossale e quasi sconfinata.

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David Foster Wallace, Il tennis come esperienza religiosa
(Traduzione di Giovanna Granato)

Ora, Roger Federer è tornato n.1 del mondo a 36 anni suonati. E ho capito che, prima che si ritiri, mi piacerebbe vederlo giocare dal vivo. Ce la farò? Non si sa. Mal che vada, però, mi rimarrà sempre il ritratto che DFW gli ha dedicato. Questo brevissimo librino, oltre al saggio su Federer, contiene anche una cronaca di un’edizione particolarmente emblematica degli US Open – e tutto l’amore di Wallace per uno sport che riesce a coniugare geometria suprema e follia, lotta e armonia delle forme.
Del tennis non ve ne frega una mazzafionda ma DFW vi affascina? Nessun problema, c’è sempre Wittgenstein: leggetevi La scopa del sistema.
Siete invasatissimi col tennis ma DFW non lo reggete? Nessun problema, c’è un premio Pulitzer che racconta la storia di Agassi: leggetevi Open.

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Marcello Fois, I Chironi

Allora, la saga della famiglia Chironi è un susseguirsi di sventure, cataclismi e sfide aperte alla malevolenza dei cieli, ma è anche uno straordinario spaccato umano che racconta cent’anni di Italia (e di Sardegna) attraverso le vite travagliate e avventurose degli eredi di Michele Angelo (fabbro nuorese) e di Mercede (donna del destino). Questo librone contiene i tre volumi che compongono la trilogia: StirpeNel tempo di mezzoLuce perfetta.

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Fruttero & Lucentini, I ferri del mestiere

Un “manuale di scrittura involontario con esercizi svolti”, assemblato dai due autori in maniera quasi accidentale nel corso di una lunga militanza cultural-operativa. Si affrontano – con arguzia e puntiglio – generi letterari, questioni di traduzione, quarte di copertina e, in generale, l’arte e le tecniche funzionali alla creazione di un libro, sia come “opera” che come “oggetto commerciale”.

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Jonathan Littell, Le benevole
(Traduzione di Margherita Botto)

Un romanzo straordinario per ampiezza e precisione della ricostruzione storica e assolutamente agghiacciante a livello “psicologico”. Littell racconta – non so come – la storia di Maximilien Aue, ex ufficiale delle SS che, a guerra finita, si ritira nel nord della Francia per dirigere una rispettabilissima fabbrica di merletti. Uomo all’apparenza irreprensibile, Aue ha attraversato per intero gli anni del Nazismo, partecipando attivamente ai momenti più significativi della parabola bellica, dal fronte orientale alla battaglia di Stalingrado. Le benevole è la sua confessione, il suo testamento, la storia di un uomo che continua a vivere pur contenendo moltitudini di fantasmi e, alla fin fine, l’essenza stessa del male.

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Michele Mari, Roderick Duddle

Un altro romanzo che consiglio spesso con travolgente trasporto per la sua palese vocazione al puro divertimento, all’ingarbugliamento fantasioso dell’intreccio, al gusto per il fraintendimento, l’equivoco e il colpo di scena. Roderick è un bambino cresciuto in una locanda dalla dubbia reputazione. La madre, che all’Oca Rossa esercita con discreto successo il mestiere più antico del mondo, muore all’improvviso lasciandogli soltanto un medaglione, che si rivelerà – tra mille peripezie – la chiave che potrebbe spalancargli le porte di un futuro migliore. È un romanzo d’appendice, in pratica, e un omaggio alle avventure più belle della letteratura, con personaggi memorabili – Suor Allison! – e una lingua affascinante.

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Cormac McCarthy, La strada
(Traduzione di Martina Testa)

Ora, se la vostra intenzione è quella di apprezzare al meglio la versione “western” di McCarthy dovreste orientarvi su Meridiano di sangue. O sulla Trilogia della frontiera. Se invece siete in cerca di una storia universale di amore e sopravvivenza, di un romanzo che racconta il lungo viaggio di un padre e di un figlio in una landa desolata e se, incidentalmente, siete pronti ad aiutarli a portare il fuoco (piangendo come vitelli), forse vi conviene cominciare dalla Strada.

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Domenico Starnone, Lacci

Il potere narrativo delle corna è veramente strepitoso. Soprattutto se il romanzo comincia con l’invettiva di una donna molto incazzata e prosegue con “la versione di lui”. Una storia d’amore imperfetta e vera, che si fa strada in una trama di legami fittissimi che non possiamo spezzare – pur con tutto l’impegno del mondo.

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Michel Faber, Sotto la pelle
(Traduzione di Luca Lamberti)

Una ragazza – assai avvenente – guida per le Highlands scozzesi in cerca di autostoppisti da caricare sulla sua macchina. Non lo fa perché animata da un’indole particolarmente caritatevole, lo fa perché  gli autostoppisti sono buonissimi da mangiare – almeno per la sua specie. Un romanzo strambissimo, che svela poco a poco un mondo vasto e sconosciuto, fatto di travestimenti minuziosi, galassie lontane e sacrifici supremi per assicurarsi la sopravvivenza.
(E no, non ho visto il film con Scarlett. Ma mi sento di affermare che il libro è meglio).

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E niente, spero troverete qualcosa di bello da leggere. Se vi va, taggatemi un po’ dove vi pare e aggiungete l’hashtag #LibriniTegamini. Ho deciso che voglio collezionarli. Perché vale la pena ricordare gli incontri ben riusciti, che siano tra esseri umani e basta o tra esseri umani e libri.
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Il mio amore per la cancelleria è vasto è smisurato. Colleziono quaderni troppo belli per essere utilizzati, penne mirabili e graffette a forma di cose assurde – tra cui pinguini e orsi polari. Adoro i bigliettini, gli adesivi, i portamatite e i blocchetti. Rubo pure le biro degli alberghi, ma anche quelle brutte. Perché comunque sono delle biro. E le biro sono il bene.
Di tanto in tanto, poi, vengo travolta dalla necessità di rendere più sistematiche le mie passioni. E mi ritrovo a costruire ordinatissime cartelline di bookmark in cui cerco di far confluire tutto quello che amo da mesi in maniera dispersiva e caotica. Ecco, questo post nasce esattamente dalla nobile esigenza di compilare un affidabile mini-database delle cartolerie online che vorrei monitorare con più attenzione e sensatezza. E visto che il grosso dello sforzo consiste nel ritrovarli, questi benedetti shop o quel che vi pare, buttare giù un elenchino anche qui mi sembrava faccenda di poco conto. La speranza è quella di donarvi emozioni impareggiabili e, magari, di raccogliere anche qualche suggerimento aggiuntivo – a beneficio mio e della collettività tutta.

Pronti?

Pronti.

Ecco un po’ di cartolerie virtuali (più o meno definibili “cartolerie”) che vorrei sommergere di soldi.

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Libri Muti (Slow Design)

Dei Libri Muti avevo già parlato in una Weekly Wishlist, credo – oltre ad aver condiviso su Instagram un regalo bellissimo di Rigadritto -, ma visto che sono incredibilmente meravigliosi mi pare opportuno ribadire il concetto. Che cosa sono i Libri Muti? Sono dei quaderni. Che somigliano a dei libri. Perché sono legati come dei libri. E hanno la copertina. E le pagine di un’ottima carta. Bianche, però. Quindi voi potete prenderli e scriverci dentro quel che vi pare. Quelli di Slow Design – impresa fiorentina di rara saggezza – riprendono le copertine classiche di capolavori letterario-scientifici di ogni epoca e sono oggetti splendidi, oltre che quaderni funzionali e rispettabilissimi.

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Present /&/ Correct

P&C è stato fondato nel 2009 da una coppia di grafici londinesi. Inizialmente doveva ospitare le creazioni dei fondatori, opere meritevoli di altri designer e chicche vintage scovate in giro per l’Europa, ma si è ben presto trasformato in un progetto in perenne evoluzione. Tra le ispirazioni dichiarate: i compiti, gli uffici postali e la scuola.
Oggi c’è praticamente di tutto. Dai multicassettini di legno per organizzare la scrivania ai francobolli bulgari degli anni ’60. Ogni oggetto è deliziosamente retrò e selezionato con palese passione e cura maniacale.

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Kawaii Pen Shop

Un vasto deposito votato alla diffusione globale dei colori pastello e della cancelleria nipponico/asiatica. Non è un’accozzaglia di quaderni di Hello Kitty, tanto per capirci, ma un posto interessante dove trovare accessori “orientali” che conservano la loro giocosità pur non somigliando in maniera smaccata ai patacconi che potremmo trovare nell’uovo di Pasqua. Altra nota positiva, spedizione gratuita.

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Season Paper Collection

Julie Costaz e Mélissa Le Vaguerèse, designer tessili, hanno fondato Season Paper nel 2012. Il brand sforna due collezioni l’anno di prodotti cartacei (quaderni, biglietti, carta da parati, carta da regalo…). Tutto viene realizzato a Parigi con materiali provenienti da foreste sostenibili europee. La specialità delle estrose signorine sono i poeticissimi pattern disegnati con le loro manine d’oro.

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Write Sketch &

Un po’ di made in Italy milanese, che gioia. Anche in questo caso, dobbiamo la nostra gratitudine a una coppia di creativi – Matteo Carrubba e Angela Tomasoni – che, dopo una decina d’anni di militanza nell’art direction per la moda e il design, hanno deciso di dedicarsi alla cancelleria di qualità eccelsa. WS& nasce nel 2014 con una linea di quaderni geometrico-postmoderni a cui si sono aggiunti, negli anni, formati e prodotti diversi. Oggi troviamo copertine metalliche, tutto l’occorrente per scrivere e favolosissime tote-bag plissettate.

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Jo & Judy

Brand tedesco ad altissimo coefficiente di instagrammabilità, Jo & Judy è un po’ più orientato al “design da scrivania” che alla cancelleria in senso stretto. Ci sono soluzioni esteticamente armoniosissime per numerose esigenze fin troppo reali (che ne so, trovate anche i planner per ricordarvi i compleanni), ma anche piccoli gioielli e ninnoli per rendere bellissimo il vostro spazio di lavoro. Lo shop è consultabile per aree tematiche e per filtri cromatici… e tutto grida fortissimamente MOODBOARD.

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Paperchase

Paperchase è una colossale catena britannica specializzata in cancelleria di ogni forma e dimensione (da quella più pacata alle assurdità totali), con un occhio di riguardo allo scemenzame variegato e all’occorrente per il crafting. L’assortimento è vastissimo e l’attenzione ai “fenomeni pop” del momento è decisamente spiccata. Volete i cactus? Volete gli unicorni? Volete i glitter? Volete le frasi motivazionali – ma non quelle zuccherose? Volete i fenicotteri? Bene, da Paperchase c’è. E finalmente hanno deciso di spedire in tutto il mondo.

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Scrapzelda

Penso che Camilla – già superlativa di suo – non abbia bisogno di presentazioni. E forse nemmeno il suo shop, ma parliamone lo stesso. Perché Camilla è riuscita a tirare fuori dal cassetto un po’ il sogno di tutte/i: fare (anche) la cartolaia. Da lei, oltre all’ormai proverbiale agenda annuale, troverete quaderni, adesivi e accessori per lettori incalliti, come i segnalibri a barchetta con gli elastici colorati. Evviva!

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Out of Print

Out of Print non è precisamente un brand di cartoleria, ma una specie di paradiso per i lettori che non sanno come vestirsi. L’impresa è cominciata con le magliette letterarie – con stampate sopra le copertine “vintage” dei grandi classici – e l’assortimento si è gradualmente espanso per ospitare le sportine di tela, gli astucci, le calze, le spillette, i quaderni e centomila altri articoli per chi ama leggere e (probabilmente) anche scrivere. Amore del Cuore si è abbigliato per anni solo da Out of Print.

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Sticker Stack

Un negozione britannico – ancora una volta – specializzato in adesivi tenerelli, cancelleria vergognosamente appagante dal punto di vista visivo e accessori funzionalissimi per organizzare lo studio, il lavoro e l’esistenza in generale. Tutto arriva dall’Asia – in particolare dalla Corea e dal Giappone – e, cosa non frequentissima, è anche possibile una ricerca per brand – il che è ancor più invasante perché poi finisci a cercarti anche quei brand lì, trasformando la tua wishlist in una specie di abisso senza fondo. La componente kawaii, in questo caso, è praticamente nulla. Ma giuro che non se ne sente la mancanza.

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Bonus finale, un libro che credo mi comprerò fra cinque minuti.

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Il mondo è vasto e sono certa di ignorare l’esistenza di un’infinità di luoghi pieni zeppi di cancelleria che invece voi conoscete come le vostre tasche. Ecco, raccontatemi tutto, se vi va. Che nella mia cartellina di bookmark c’è ancora un sacco di spazio. Per il resto, in alto i pennarelli!

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EDIT MIGLIORATIVO

Grazie ai preziosi contributi raccolti su Facebook – tanto amore per voi! – ecco qualche altro link favolosissimo per proseguire con lo shopping.

Pleased To Meet
Papier Tigre
kikki.K
Erin Condren