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Sebbene io sia consapevole delle mie oggettive difficoltà nella gestione dello shopping, ecco qua una nuova carrellata di desideri e brame più o meno insensate.

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BlackMilk è una bottega creativa che sforna accessori di stoffa fatti a mano, super personalizzabili. Si può scegliere un modello di borsa, ad esempio, e richiederlo in una particolare fantasia, pescando tra quelle a disposizione. L’assortimento di stampe è saggio – ce ne sono tante “classiche”, ma si trovano anche quelle pazze. Ho adocchiato due cose: i segnalibri di stoffa da mettere sugli angolini dei libri e la borsa Pancia – che ha una forma intelligente e adattabile e si può portare anche a tracolla.

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Per il sessantesimo anniversario di Biancaneve, Disney e Asics hanno unito le forze per sfornare una microcollezione di scarpe da ginnastica Gel-LYTE dedicate alla fioccosa principessa mangiatrice di mele avvelenate e alla Regina Cattiva. Nonostante la mia tradizionale propensione a parteggiare per i malvagi, devo arrendermi alla meraviglia vellutata del modello di Biancaneve.

[La fotina viene da qui].

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“I Maverick”. Perbacco, non mi ero minimamente accorta dell’esistenza di questa nuova collana einaudiana. Probabilmente stavo perdendo tempo su internet – pratica che Kenneth Goldsmith sembra però riabilitare. In questo breve saggio, Goldsmith analizza il comportamento del navigatore medio, evidenziando le esternalità positive e i risvolti socio-esperienziali che derivano da una fruizione e produzione di contenuti che potrebbe apparire superficiale, disordinata e puramente ludica. Troppo ottimismo – in un libro che parla di umani che USANO L’INTERNET? Forse sì. Ecco perché sono curiosa.

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Francesi folli che creano cancelleria surreal-rétro e una vasta gamma di oggettistica per la scrivania (e la casa) degna di un manicomio vittoriano. Ci sono distinti signori con la bombetta e le orecchie colme di orate, fermacarte di vetro con insetti variopinti, pecore con gli stivali, pugili con dei carciofi al posto delle mani e duchesse dotate di tentacoli. Io mi sono affezionata al pollo-lampione, ma sono certa che Gangzai sarà in grado di assecondare brillantemente anche alle vostre più insolite fissazioni. I quaderni sono INCREDIBILI.

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Già qualche tempo fa mi interrogavo sull’offerta standard dei corsi in palestra – corsi che, in nessun modo, sembrano in grado di soddisfare la mia esigenza di diventare la Vedova Nera. Ma poco male, perché ho scoperto l’accademia di spada laser. Anzi, di LIGHTSABER COMBAT SPORTIVO. E sto impazzendo. Ludosport, si chiama. L’idea è venuta nel 2006 a tre amici milanesi ed è poi stata esportata con crescente successo in tutto il mondo. Si va, si piglia una spada laser – gli attrezzi sono stati studiati e progettati appositamente da una specie di fucina di premi Nobel per un utilizzo “reale”, senza tralasciare lucine ed effettoni a noi tanto cari – e si imparano i rudimenti della tecnica e del duello. Seriamente, io DEVO iscrivermi. Sarei magnifica. Compio gli anni a marzo, Amore del Cuore. Questo è un appello ufficiale.

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Il mercato delle magliette con delle cose disegnate ad altezza tette – anzi, con un disegnino per ogni tetta – è ormai saturo. Per la prima volta, però, sento il bisogno di comprarmene una. Perché ho scoperto che sulle tette possono starci felicemente anche dei triceratopi disegnati da Happycupstudio.

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Downton Abbey è finito – e ok, stanno girando il film, ma che dobbiamo fare nel frattempo? Possiamo guardare The Crown, ma nemmeno la nuova stagione è in grado di accompagnarci in eterno. Ma Julian Fellowes è comunque qui per soccorrerci, perché ha anche scritto dei libri all’apparenza gradevolissimi. Belgravia – polpettone romantico-storico di rara piacevolezza – mi aveva tenuto compagnia due estati fa sotto l’ombrellone, facendomi venire voglia di scovare i suoi altri romanzi. Il primo che vorrei leggere è Snob, arguta cronaca delle peripezie della nobiltà inglese contemporanea alle prese con l’orda rampante dei nouveaux-riches. Il cuore della contesa, in questo caso – anzi, OVVIAMENTE -, sarà il matrimonio tra la fascinosa ma relativamente “umile” Edith e un ultra-nobilissimo conte con madre ingombrante. Somiglia a Downton Abbey? Certo. Ed è questo il bello.

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Casa mia è un inferno, a livello Instagram-fotografico. Non ci sono superfici ben illuminate e, quando sono ben illuminate, sono troppo cupe. Legni scurissimi. Tappeti cupissimi. Roba che riflette. Ora, non sono una foodblogger che deve ritrarre fette di torta perfettissime e nemmeno una di quelle che va a compare i fiori freschi all’alba per fare la foto con la tazza di caffè e una pletora di deliziosi biscottini incredibilmente simmetrici, ma un fondo chiaro mi farebbe comodo – soprattutto per i libri o per le foto di cose “piccole”. Ebbene, l’universo ha elaborato una soluzione. C’è un sito, ad esempio, che smercia una vasta gamma di fondi “finti” – di vinile – da utilizzare per le foto più disparate. Ci sono quelli colorati, quelli coi pattern e pure quelli che riproducono materiali di ogni genere, dal legno al marmo. Si chiama MiniBackdrops… ed è tutto qui.

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E per questa settimana abbiamo desiderato a sufficienza, direi.
Felice sperpero!

È all’incirca dal Black Friday che medito di esternare la mia inettitudine in fatto di shopping. E, a saldi inoltrati, mi sento finalmente pronta. Perché sì, ho un problema. Nulla di paragonabile, per gravità e rilevanza, a un incombente conflitto nucleare o al recente abbassamento della copertura vaccinale, ma comunque un problema, una fonte di disagio e di fondati sentimenti d’inferiorità evoluzionistica.
Non sono capace di gestire gli sconti.
Ecco.
Pur rendendomi perfettamente conto che gran parte delle mie difficoltà derivino da una tara personale, sono anche convinta che comprarsi delle cose in santa pace stia diventando sempre più arduo.

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Ma procediamo con ordine.
All’alba dei tempi, i posti dove fare acquisti erano relativamente pochi. E, per la proprietà transitiva, anche la mole di iniziative promozionali in cui potevi imbatterti non era particolarmente ingente. Anche i canali comunicativi capaci di convogliare fino a te una notizia tipo “I saldi cominciano il 6 di gennaio” o “Rinnovo locali! -30% dall’1 al 5” erano scarsi – e quasi sempre privi di approcci mirati. Scoprivi un po’ per caso, magari da un cartellone del Trony, che i tostapane erano in offerta così come scoprivi, passando nella via principale della tua città, che gli sconti sulle scarpe che ti piacevano erano lì lì per iniziare. Insomma, la faccenda era gestibile. Due grandi periodoni di saldi sostanziosi e sconti estemporanei (piuttosto rari) in cui potevi imbatterti di tanto in tanto. Comprare a prezzo pieno era normale, trovare il modo di incamerare l’articolo X pagandolo di meno era spesso un colpo di culo di cui vantarsi anche un po’.

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E fin qui ce la potevo fare anch’io.
Poi hanno “inventato” gli outlet.
E lo shopping online.
E le newsletter.
E gli alert via SMS.
E i programmi-fedeltà con le tessere a punti.
E gli sconti personalizzati basati sui programmi-fedeltà con le tessere a punti.
E i saldi privati.
E le svendite segrete a cui puoi accedere solo se hai un cugino nella Massoneria.
E le private-week per i clienti VIP.
E i pre-saldi.
E i saldi-flash prima dei saldi-saldi.
E gli “ULTERIORI RIBASSI!” a saldi già cominciati.
E lo sconto solo online su una specifica categoria di prodotto.
E lo sconto solo online a scaglioni progressivi con spese di spedizione incluse.
E i coupon.
E i coupon da aggiungere agli sconti già in corso applicando il codice MENOMILLEMILAPERCENTO al checkout.
E il coupon che ti regalano per il primo acquisto.
E il coupon “Francesca, ci sei mancata, torna a trovarci! Ecco qua un regalo per te”.
E il coupon che ti elargiscono quando ti iscrivi alla newsletter.
E il coupon che ti aggiudichi se riesci a far iscrivere alla newsletter anche le tue amiche.
E il codice-sconto che screenshotti dalle Stories di una tizia su Instagram.
E i gli outlet virtuali.
E gli outlet virtuali con assortimento a rotazione e conto a rovescia per la promozione settimanale.
E il Black Friday.
E il Cyber Monday.
E le offerte pre-Natalizie.
E lo sconto speciale per il tuo compleanno.
E che ansia, perbacco.

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Ebbene, qual è l’effetto – almeno su di me – di questo proliferare di occasioni promozionali e di comunicazioni perfettamente personalizzate che ci informano nei momenti più disparati delle nostre vite della relativa convenienza di un potenziale acquisto in un limitato lasso temporale?
La paralisi.
Il congelamento.
L’immobilità assoluta.
Io mi blocco e basta. Come un opossum in mezzo all’autostrada.

Perché ormai sento il dovere di non comprare più niente a prezzo pieno. È diventato quasi obbligatorio. Ma per ragioni d’autostima, all’incirca.
Cos’è, l’unica cretina che non usufruisce dell’onnipresente convenienza che il progresso tecnologico-commerciale ha messo a nostra disposizione sono io?
Giammai!
Perché è così che finisce.
Ti senti imbecille a comprare qualcosa se non c’è uno sconto. E, dopo un po’, ti senti imbecille anche a comprare qualcosa con poco sconto. E, parzialmente, hai ragione.
Perché, quando ti compri un mascara usufruendo dello sconto del 20% garantito dalla tua preziosa tessera fedeltà, due giorni dopo ti fanno sapere che l’intero assortimento – sia online che nei negozi – è in promozione al -25%. Ma tu il mascara l’hai appena comprato, maledizione. E la discrepanza di prezzo è minima, va bene, ma è sufficiente a farti incazzare.
Ti senti poco razionale, poco preparata, in balia dei forze che sfuggono al tuo controllo.
Ma è anche vero che non puoi dedicare ogni tua energia a mappare con un foglio Excel le fluttuazioni degli sconti sui tuoi store preferiti, nel vano tentativo di elaborare un modello predittivo che ti assicuri di poter usufruire in maniera infallibile del miglior ribasso possibile sul prodotto X nel periodo Y, in assoluto. E non potrai fare a meno di pensare che, da qualche parte negli angoli più remoti dell’Internet – o in una bottega sperduta di Guastalla, perché manco dei negozi fisici riesci a dimenticarti -, ci sia un posto che vende quello che vuoi tu a un prezzo ancor più conveniente rispetto ai quello che sei riuscita a stanare durante le tue estenuanti ricerche online. E nel frattempo continuano ad arrivarti messaggini, avvisini, newsletterine con le scritte lampeggianti, tweet funzionalissimi pieni di link cliccabili e svariati FRANCESCA CI SEI MANCATA. Ma senza un ordine, senza una struttura. All’improvviso. Le promozioni possono assalirti in ogni momento. E se vai a vedere, se approfondisci, è pure peggio. Guardi una roba su Amazon? Ti soffermi su una borsa su Yoox? Vai un po’ in giro su Asos? Per i dieci giorni successivi i banner di ogni possibile sito che visiterai si trasformeranno in una sorta di reliquiario delle occasioni perdute, riproponendoti per sempre quello che hai analizzato ma, lì per lì, non hai comprato.
Perché era disdicevolmente a prezzo pieno.
O perché non era abbastanza scontato.
O perché, con tutto quello che c’è da vedere, valutare e soppesare – a fronte di risorse che perseverano nell’essere tristemente scarse -, non riesci più a governare una tale complessità d’offerta e, alla fin fine, non decidi e basta.

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Sono diventata una vecchia signora convinta che ci sia sempre qualcuno in agguato pronta a truffarla? Perché non riesco più godermi un acquisto che mi pare quasi oculato senza essere assalita da quella raggelante sensazione di fregatura – che arriva solitamente un millisecondo dopo aver schiacciato su PAGA? Ecco, ho preso il rossetto. Ma ci scommetto le rotule che domani m’arriva un bel CIAO FRANCESCA DA OGGI UN BEL -70%! Ma così, a caso. Senza una logica, un motivo.
E molto spesso succede davvero. Non sempre, per fortuna. Ma con una frequenza sufficiente a minare le mie già vacillanti certezze.
Perché un conto è comprare volontariamente un capo della nuova collezione anche se a mezzo metro di distanza ci sono montagne di vestiti in saldo. Un conto è cadere vittima di un’imboscata, quando per di più hai già speso dei soldi.

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C’è una soluzione?
Dobbiamo forse tornare a un’economia di pura sussistenza, cucendoci le vesti per nostro conto e rattoppando le suole bucate del nostro unico paio di scarpe fino alla fine dei tempi? O magari metterci in coda davanti a un negozio per 14 ore perché COMPAGNI, OGGI HANNO I CALZINI, SONO TUTTI UGUALI E COSTANO DUE RUBLI – MA CI SONO come nell’Unione Sovietica?
Io non lo so.
Ci adatteremo, immagino.
Probabilmente impareremo a filtrare e a ignorare – sia le comunicazioni brandizzate che le comunicazioni provenienti da quelle amiche che magicamente riescono sempre e solo a fare affaroni (CIOÈ NON PUOI CAPIRE, COSTAVA DUECENTONOVANTANOVE EURO VIRGOLA NOVANTANOVE EURO MA L’HO PAGATO VENTIDUE, CON SPEDE DI SPEDIZIONE EXPRESS INCLUSE!) – e ci rassegneremo placidamente all’esistenza di un margine d’errore inevitabile. O forse completeremo il cerchio. Disorientati fino alla paralisi dalle offerte e dall’intricato mondo degli sconti, ritroveremo la pace e la serenità del prezzo pieno. Il romanticismo perduto di un acquisto lineare e semplice. Quando ci pare. Quando qualcosa ci serve veramente. Quando qualcosa ci piace sul serio. E basta.

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Archiviato il 2017 – che parecchie cose belle ci ha portato – è arrivato il momento di guardare al futuro. Perché il tempo sarà comunque poco, ma le ambizioni restano vaste. Ora, sicuramente verrò sorpresa in corsa da novità imperdibili che sconvolgeranno ogni mio progetto, ma ci sono un po’ di libri che so già di voler leggere. E, all’incirca, sono questi qua.

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Agnese Grieco
Atlante delle sirene

Mi è arrivato durante le vacanze di Natale e ho salutato l’evento agitando un arricciaspiccia verso il cielo. Da appassionata di creature mitologiche, iconografia del fantastico e leggende più o meno metropolitane, un Atlante delle sirene è una specie di sogno che riemerge dalle profondità del mare. Da Omero a Splash – passando per infinite declinazioni letterarie, musicali, artistiche e drammaturgiche -, questo saggio ricchissimo di immagini e aneddoti traccia una mappa super eclettica delle apparizioni sirenesche più emblematiche, risalendo alle origini del mito e decifrando per noi simbologie, trasformazioni e riferimenti culturali.

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Alex Alice
Il castello delle stelle
1869: la conquista dello spazio

Lo steampunk alla conquista dello spazio! Una graphic-novel (di formato piuttosto monumentale e ricca di tavole veramente strabilianti) per raccontare il viaggio un figlio alla ricerca della madre scomparsa durante una spedizione in mongolfiera verso gli strati più rarefatti dell’atmosfera, per verificare l’effettiva esistenza del misterioso etere. Siamo nell’Età del Progresso, dopotutto, l’epoca delle scoperte geografiche e delle avventure per mare e per terra. Perché non spingersi anche verso le stelle?

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Lev Tolstoj
La felicità domestica

Vorrei riprendere un po’ di slancio per tornare ad affrontare i MEGAROMANZONI russi. Perché, su quell’impervio fronte, mi sono proprio arenata. La felicità domestica dovrebbe tratteggiare il breve ma profondissimo ritratto di una coppia alle prese con i primi accadimenti della vita matrimoniale. Pare sia anche la storia di un progressivo allontanamento, dei cambiamenti che si verificano all’interno di un rapporto che transita inesorabilmente dalle gioie dei primi tempi felici fino a un’indifferenza insuperabile, passando per tutte le minuscole sfaccettature che caratterizzano le relazioni umane più complicate, dettagli che Tolstoj è sempre stato in grado di cogliere e di restituirci con una sensibilità devastante.   

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J. G. Ballard
Il condominio

Visto che l’ultima stagione di Black Mirror non è riuscita ad appagarmi particolarmente, ho deciso di farmi dare una mano da Ballard. Il romanzo è ambientato in un immenso condominio ipertecnologico – un mondo in miniatura, a tutti gli effetti – che, a causa di un blackout, diventerà teatro di una lotta per la sopravvivenza capace di sovvertire gerarchie sociali, norme del vivere civile e il concetto stesso di umanità. Una di quelle letturine distopiche lievi e rassicuranti, insomma.

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Leo Ortolani
Oh! Il libro delle meraviglie

Pochi esseri umani al mondo mi fanno ridere come Leo Ortolani. Ho amato molto Il buio in sala, la sua raccolta di recensioni cinematografiche – che ho comprato anche se le avevo praticamente già lette tutte sul blog – e ho già ordinato Oh!, perché le “Meraviglie della Natura e della Tecnica” che Ortolani ha sfornato nell’arco di vent’anni (e che ritroviamo in questo volume con l’aggiunta di parecchi inediti) me le sono effettivamente perse. Non vedo l’ora.

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Ursula K. Le Guin
The Lathe of Heaven

Un romanzo del 1971 – tradotto in Italia con il titolo di La falce dei cieli e, da quel che ho capito, abbastanza irreperibile – di un’indiscussa regina della fantascienza e del fantastico. Non ho mai letto nulla della Le Guin e sono molto curiosa di cominciare l’avventura. Il libro indaga il rapporto tra sogno, verità tangibile e potere attraverso lo “scontro” tra due personaggi: George Orr (un tizio che si accorge di sognare cose che poi diventano vere) e il dottor Haber, che intende utilizzare Orr per modificare la trama della realtà a suo piacimento.

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Paul Auster
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L’ho già iniziato. Ero curiosa, ma anche molto riluttante, visto che di romanzo imponentissimo trattasi. Sono però già molto felice di aver spazzato via i tentennamenti. 4321 racconta tutte le vite possibili di Archie Ferguson, nato nel 1947 a New York e destinato ad attraversare – nelle sue diverse emanazioni – il Novecento dei grandi eventi storici, delle grandi città e dei grandi movimenti… ma anche della più spicciola quotidianità. È la storia di un uomo comune, rappresentato simultaneamente mentre si sposta lungo quattro sentieri diversi che lo porteranno a vivere quattro vite altrettanto distinte, ma accomunate da alcuni affascinanti punti fermi. Un’opera monumentale e vivacissima che (e lo dico soprattutto per chi è intimorito dai libroni) scorre con grande naturalezza.
Una delle mie solite profezie, visto che con Exit West ci avevo visto giusto, l’estate scorsa: credo sia già un po’ il mio libro preferito dell’anno.

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Roberto Bolaño
Lo spirito della fantascienza

Ho rinunciato a orientarmi in maniera razionale nel mondo di Bolaño. Per cogliere ogni rimando, ogni citazione e ogni indizio che appare nelle sue storie, legandole le une alle altre, ci vorrebbe una specie di dottorato. Non ci riuscirò mai, ma non per questo i suoi libri smetteranno di affascinarmi. Lo spirito della fantascienza è stato scritto da un Bolaño non ancora trentenne e racconta, in un intreccio come al solito labirintico e ricco di divagazioni e ingarbugliamenti surreal-picareschi, l’iniziazione alla vita di un poeta ventunenne che, in quel di Città del Messico, condivide una stanzetta con uno scrittore agorafobico perennemente preda di allucinazioni, deliri e manie.

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Elizabeth Strout
Tutto è possibile

La farò breve. Lucy Barton mi era piaciuto. Cosa faccio, non leggo il “seguito”? Ambientato ad Amghast (Illinois), paese natale dell’aspirante scrittrice fuggita a New York lasciandosi alle spalle fratture difficili da saldare, il romanzo esplora gli effetti del tempo e delle illusioni sfumate sugli abitanti della cittadina, riportando anche Lucy – per la prima volta dopo quasi due decenni – nella casa di famiglia, insieme al fratello (trasformatosi in una specie di grosso bambino il cui unico scopo è preservare quel che era dei Barton) e alla risentitissima sorella Vicky.

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Michele Mari
I demoni e la pasta sfoglia

L’implausibilità dell’impresa mi appare già con molta nitidezza, ma I demoni e la pasta sfoglia è un testo quasi mitologico – e da lungo tempo praticamente introvabile. Il massiccio volume raccoglie una serie di saggi-ossessione che Mari ha dedicato alla tradizione letteraria che più ha influenzato e alimentato la sua ricerca narrativa. È una galleria di mostri, demoni, indimenticabili protagonisti, incubi ricorrenti e realtà deformate. Da Lovecraft al Richiamo della foresta, Mari costruisce un labirinto di rimandi e riflessioni, consegnandoci una lente per esaminare la struttura e le deviazioni imprevedibili del suo cammino di scrittore (e di lettore).

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Antoine Volodine
Terminus radioso

Una steppa contaminata dalle radiazioni nucleari di una Seconda Unione Sovietica prossima al collasso. Una pila atomica semisepolta governa la vita di un kolchoz sopravvissuto – il Terminus Radioso – abitato da un manipolo di superstiti che la radioattività ha variamente maledetto con una serie di doni quasi sovrannaturali. Un romanzo visionario e bizzarro che squaglia i confini dello spazio e del tempo per creare una specie di epica del disastro.

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Jeff Vandermeer
Borne

Il nuovo romanzo di Vandermeer, dopo la favolosissima Trilogia dell’Area X – se è garbata anche a voi, ci vediamo al cinema per Annientamento di Alex Garland. Anche qui, una misteriosa Compagnia biotecnologica governa una città in rovina, popolata da creature mutanti condannate alla pazzia o ad evolversi in modo imprevedibile. Il nuovo enigma è Borne, un grumo di materia verdognola destinato a diventare la chiave per decifrare i segreti più inconfessabili della Compagnia.
Il romanzo uscirà presto anche per Einaudi – con un’altra bellissima copertina di Lorenzo Ceccotti.

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Daniel Clowes
Patience

Un uomo arrabbiatissimo che cerca di salvare la sua storia d’amore. Viaggiando nel tempo. Non so nient’altro. Ma stiamo parlando di Daniel Clowes… e quindi mi basta.

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Adam Haslett
Imagine Me Gone

John viene ricoverato per una depressione inaffrontabile e Margaret, la sua fidanzata, deve decidere se “procedere” con il matrimonio – ora che conosce la malattia dell’uomo che ama e le potenziali difficoltà di una vita insieme. Margaret sceglie di sposarlo e Imagine Me Gone è la storia della famiglia che nascerà da questa decisione difficile ma fondamentale. La storia è raccontata da cinque narratori diversi – Margaret, John e i tre figli – e segue le peripezie del “clan” per decenni, esplorando gli effetti del dolore sulle persone che più ci stanno a cuore e interrogandoci su quello che saremmo disposti a fare per salvare chi amiamo, nonostante tutto.

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 China Miéville
Embassytown

Non so bene da dove provenga questo afflato fantascientifico, ma eccoci qua con China Miéville – uno dei “nuovi” maestri del genere – e con un pianeta alieno di nome Arieka, colonizzato dalla nostra specie in un remotissimo futuro. Gli indigeni parlano una lingua incomprensibile e strambissima. Solo pochi umani sono in grado di decifrarla (gli Ambasciatori), mentre altri vengono utilizzati dagli alieni come “vascelli” per convogliare concetti complessi e altrimenti inesprimibili. Ma gli intrighi politici infuriano, il nuovo Ambiasciatore rischia di incrinare il fragile equilibrio che lega le due comunità e il cataclisma è prossimo…
Sarà che mi è piaciuto Arrival, ma la faccenda del linguaggio e della comunicazione – al cuore di questo romanzo – mi intriga moltissimo. Facciamo amicizia, China Miéville. Vediamo che cosa succede.

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Gianluca Morozzi
Blackout

Tre persone rimangono intrappolate in un ascensore il giorno di Ferragosto a Bologna. Una studentessa che si paga l’università facendo la cameriera, un tizio che abita nel condominio e un sanguinario serial-killer che passa di lì quando ha una vittima da torturare nel suo pied-à-terre. Nessuno può sentirli. Nessuno riesce a comunicare con il mondo esterno. Nessuno può prevedere che cosa si sarà inventato Morozzi.

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Gonzalo Torné
Una relazione borghese

L’antefatto è favoloso: due coniugi vanno alle terme per salvare il loro matrimonio. Joan-Marc, il marito, ripercorre la storia della loro unione infelice rievocando le tappe fondamentali della sua vita “borghese”, riflettendo sul tempo – che deforma e incrina le nostre certezze -, sull’approssimarsi della morte e sul valore (crescente) dell’esteriorità. Una commedia dell’inettitudine e dell’incomprensione, una meditazione ironica e tagliente sulle relazioni umane, sul potere dell’autoinganno e sul fallimento che ci aspetta sempre al varco.
Allegria!

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John Williams
Augustus

Vogliamo fermarci a Stoner? Giammai! Perché John Williams ha scritto anche un romanzo storico – all’apparenza affascinantissimo – sul principato di Ottaviano Augusto, servendosi di un vasto e ramificato intreccio di documenti, trovate letterarie, epistole e diari. Perdonami, Alberto Angela. Ma non è che dell’antica Roma puoi scrivere solo tu.

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Virginia Woolf
Le tre ghinee

La prevenzione della guerra, un’università femminile, un fondo per supportare le donne che vogliono esercitare una professione. Tre “buone cause” che Virginia Woolf analizza in questo scritto, immaginando di aver ricevuto altrettante lettere che richiedono il suo ipotetico sostegno economico. Le tre ghinee, scritto all’approssimarsi del 1938 – e della guerra – è un’indagine sul potere e sul ruolo ricoperto dalla donna in una società che tende(va) a confinarla in una sfera limitata – e strettamente privata.

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Li leggerò? Non li leggerò? Ne leggerò altri e me li dimenticherò tutti? Mi scriverò la lista su un pezzo di carta e li depennerò con cura maniacale man mano che li affronto? Quanti me ne sarò dimenticati?
Non ne ho la più vaga idea.
Ma lo sforzo di progettazione, almeno quest’anno, l’abbiamo fatto.
Speriamo bene.
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Quest’anno mi sarebbe piaciuto leggere di più, ma si fa quel che si può. In realtà, anche negli anni in cui sono riuscita a leggere “tanto”, sono comunque arrivata alla medesima conclusione. Mi sarebbe piaciuto leggere di più. Chissà se un giorno avrò mai la sensazione di aver finalmente letto abbastanza. Spero di no.
Comunque, tra un infante che cresce e una riorganizzazione radicale della mia esistenza, ho anche avuto la fortuna di imbattermi in diverse opere narrative – più o meno disegnate – che mi hanno donato incredibili soddisfazioni, per motivi diversi. La trama, la lingua, l’intreccio, il divertimento puro, il messaggio, i temi. Un libro può farti dire “ma guarda un po’ che bello” per parecchie ragioni. Qui ci sono i miei preferiti del 2017 (non necessariamente novità del 2017), con dei mini perché a sostegno di tanto entusiasmo e qualche link di approfondimento per i titoli che ho già affrontato in un #LibriniTegamini o in una recensione. Che se una roba mi piace è probabile che mi sia già venuta voglia di dire qualcosa.
Forse li avrete già letti anche voi. O forse no. In quel caso, fateci un pensiero.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 Marjorie Liu & Sana Takeda
Monstress – Vol. I e Vol. 2
Traduzione di C. Libero, A. Di Luzio

Monstress mi ha ricordato perché alle superiori ero così fissata con i manga e con Final Fantasy. Quest’anno ho letto i primi due volumi della serie (usciti nella collana Oscar Ink di Mondadori a distanza di qualche mese l’uno dall’altro) e sono rimasta ipnotizzata dalla meraviglia del disegno, dalla ricchezza ed estensione dell’universo fantastico raccontato (originalissimo) e dalla trama felicemente ingarbugliata. Altro aspetto positivo: eroine cocciute, devastanti e mega potenti EVERYWHERE. Più una vasta schiera di gatti parlanti e mostri coi tentacoli che non si ricordano più chi sono.

Il #LibriniTegamini abita qui.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Gianluca Morozzi
Radiomorte

Una famiglia felice e famosa – paladina dell’autorappresentazione e del successo posticcio – viene invitata per un’intervista in una scalcagnata radio di provincia. Ad un certo punto, però, le porte dello studio si chiudono. E la DJ annuncia ai Colla che, al termine della giornata, uno di loro non uscirà vivo da lì. Un romanzo che non si riesce a mettere giù, pur scorgendone le super esagerazioni narrative e il ricorso ad ogni possibile declinazione del grottesco. Architettura favolosa, mille segreti ORRENDI da scoprire, scelte impossibili, umanità che fa schifo e angoscia a palla.

Il #LibriniTegamini abita qui.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Chimamanda Ngozi Adichie
Quella cosa intorno al collo
Traduzione di Andrea Sirotti

La Adichie è una donna portentosa… e anche i suoi racconti non scherzano. Quella cosa intorno al collo è una raccolta di storie femminili che parlano di spaesamento (in bilico tra la Nigeria e gli Stati Uniti), di aspettative disattese, ostacoli pratici, dolorosi compromessi e ricerca della felicità. Una galassia di protagoniste accomunate dal bisogno di liberarsi da un onnipresente groppo in gola… o dalla necessità, spesso disperata, di imparare a convivere con la consapevolezza di non aver ancora trovato il proprio posto (sempre che un posto per loro esista).

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Margaret Atwood
The Handmaid’s Tale

Una distopia potentissima ed estrema che è pure diventata una serie TV (che espande il mondo della Atwood “allungando un po’ il brodo” ma rispettando splendidamente lo spirito del romanzo). Raramente mi è capitato di inorridire a tal punto di fronte alle coercizione e al tramontare della libertà raccontate in un libro. Architettura della Repubblica di Gilead a parte, quello che ho amato ancora di più (e che mi ha fatto anche molta paura) è la ricostruzione di come si arrivi all’instaurazione del regime. Le Ancelle diventano Ancelle. E una società intera si riconverte in nome di un’ideologia che, sulle prime, sembra troppo incredibile per essere presa sul serio dal mondo che sta per stravolgere. È una storia di identità perse e ritrovate, di tenacia, di ribellione e di sopravvivenza. È un libro che racconta un potere schiacciante e lo sforzo titanico che serve per ricordarsi, in una situazione estrema, che cosa ci rende umani.

Visto che siamo in tema, ecco qua il post che avevo scritto per Ragazze elettriche di Naomi Alderman, altra lettura assai thought-provoking di quest’anno.

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Matthew Weiner
Heather, The Totality 

Da grandissima fan di Mad Men, mi sono precipitata a leggere il primo romanzo di Matthew Weiner piuttosto istantaneamente, senza sapere bene che cosa aspettarmi. Heather, più di tutto – in italiano disponibile nei Supercoralli – è un romanzo breve ma incredibilmente denso e “centrato”. La storia è quella di una coppia di quarantenni – proiettati per direttissima verso gli agi di Park Avenue – che si sposano un po’ accontentandosi e un po’ sopravvalutandosi a vicenda. La nascita della desideratissima figlia Heather sconvolgerà gli equilibri, trasformando la bambina nel centro del loro mondo – ma anche nell’oggetto di un’incomunicabilità crescente, fatta di piccole meschinità quotidiane e dalla necessità di ostentare costantemente il proprio status e la propria artificiosa felicità. Sullo sfondo, una presenza inquietante, instabile e del tutto estranea si farà inesorabilmente strada verso i quartieri alti di Manhattan. Un piccolo gioiello di intrigo psicologico-familiare, rapidissimo da leggere, splendido nell’alternanza dei punti di vista dei diversi personaggi, ben architettato (anche dal punto di vista della tensione, sempre percepibile e “viva”) e sorprendente nel finale. Matthew, scrivicene un altro.

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Jonathan Hickman & Tomm Coker
Black Monday – vol. 1
Traduzione di L. Fusari

Una graphic-novel visivamente gloriosa e assolutamente spiazzante per esplorare il legame tra sangue, soldi e potere. Una sorta di noir esoterico-finanziario ambientato tra Wall Street e le profondità dell’inferno. Incredibile, sia dal punto di vista “artistico” che da quello dell’intreccio narrativo.

Per approfondire, ecco qua la recensione più completa.

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Donatella Di Pietrantonio
L’Arminuta

Vincitore del Campiello – che bello quando i libri che se lo meritano vincono i premi importanti -, L’Arminuta è un romanzo di formazione strappacuorissimo e viscerale. Mi ha ricordato un po’ le atmosfere della Ferrante – anche se la storia è ambientata in Abruzzo e la narrazione molto più incisiva e “concentrata”. Per farla MOLTO semplice, la storia è quella di una bambina che crede di essere figlia di qualcuno che, in realtà, l’ha solo presa in prestito per poi riparcheggiarla sull’uscio di una famiglia sconosciuta e molto diversa – per mezzi ed estrazione – da quella che l’ha accolta. È un libro che si interroga sull’identità, sul valore dei legami più profondi e sul margine di manovra che ciascuno di noi ha sulle proprie radici. Una lingua meravigliosa e una protagonista che si meriterebbe un posto d’onore nella galleria delle bambine ribelli con qualche storia della buonanotte da raccontare.

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Laura Pugno
Sirene

Dunque, Sirene vince il Premio WTF dell’anno. È senza dubbio il romanzo più assurdo e a tratti disgustoso tra quelli letti nel 2017. Scomparso per lungo tempo dalle librerie e ora riproposto da Marsilio, Sirene è di difficile riassumibilità. Vi basti sapere che nel futuro distopico della Pugno le sirene esistono, sono buone da mangiare, somigliano a dei lamantini comatosi e suscitano brame erotico-gastronomiche dalle vastissime e ramificate conseguenze.
Non è un romanzo, è una FOLLIA.

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Mohsin Hamid
Exit West
Traduzione di Norman Gobetti

Tornata dal mare, ecco cosa scrivevo di Exit West: “Hamid esplora il tema della migrazione e della fluidità delle società globali attraverso una storia d’amore che nasce nel momento meno propizio, in un paese sull’orlo del baratro, spaccato da una guerra civile che spazzerà via ogni speranza di normalità. I due protagonisti, come tanti altri, scelgono di abbandonare il loro mondo per avventurarsi verso l’ignoto, attraversando clandestinamente una delle tante ‘porte’ che conducono verso un altrove incerto. È un romanzo prezioso, saggio e umanissimo… e sospetto sia anche la cosa più bella che leggerò quest’anno”.
Ecco, non mi sbagliavo. Leggetelo per capire meglio il nostro presente. E anche un po’ per sperare in un futuro migliore.

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E Cognetti? Cognetti non c’è perché quest’anno ha già ricevuto tutti i complimenti che potevamo fargli.

Bene. Corroborata dalla magra consapevolezza di aver almeno riordinato un po’ le idee, mi appresto ad affrontare un nuovo anno di letture auspicabilmente FAVOLOSE. Mi sembreranno sempre troppo poche… ma speriamo si rivelino stupefacenti come alcuni dei romanzi in cui mi sono imbattuta nel 2017. Spero possano servirvi da ispirazione. Ai prossimi Librini!

In questi mesi – un po’ perché mi sono riprodotta e un po’ perché capita di poter lavorare a progetti belli – ho fatto amicizia con Peg Pérego. A giugno ho passato una giornata sul set con la navetta Elite e i videomaker di Marie Claire, qualche settimana dopo ho seguito lo shooting per il trasformabilissimo seggiolone Siesta e, all’inizio dell’autunno, ho trovato il Biglietto d’Oro in una tavoletta di cioccolato e sono andata a visitare gli uffici e la fabbrica di Peg Pérego ad Arcore.
Ora, non so voi, ma io sono una grande fan di tutti i programmi che ti fanno vedere come si fanno le cose. Li amo indistintamente, senza badare al prodotto o alla complessità del procedimento. Una fabbrica di filo spinato? Perfetto! Una petroliera? MEGASTRUTTURE, fantastico! Un fiasco d’alabastro? Adoro! E via così.
Quando mi hanno proposto di passare una giornata a disturbare moltissimo con i miei video e le mie domande moleste gli indaffarati dipendenti di Peg Pérego, dunque, ho accettato con trasporto. Un po’ per una mia personalissima forma di curiosità verso i più svariati COME SI FA, ma anche un po’ per rendermi conto in maniera più completa che cosa succede quando un’azienda progetta, produce e distribuisce una vasta gamma di articoli destinati ad esseri umani molto piccoli – che, come possiamo ben immaginare, non sono i consumatori finali più malleabili e facili da accontentare. Procreare per credere.
Che cosa succede a casa Peg Pérego, quindi?
Ecco che cos’ho scoperto in dieci punti (più o meno rapidi) pieni di marchingegni elaboratissimi e persone molto gentili e disponibili. 

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Razionalizzare la complessità – a.k.a. ci sono tanti modi per organizzare un assemblaggio

Non mi immaginavo di finire in un incubo fordista – con tanto di Charlie Chaplin incastrato in qualche ingranaggio – ma neanche di trovarmi in un ambiente all’apparenza così “semplice”. Mettere insieme il telaio di un passeggino, una navicella o un seggiolone è una faccenda intricata. Ci sono tanti pezzi da creare, molti incastri da padroneggiare e una miriade di controlli da fare. Trasformare l’intricato in qualcosa di lineare è un lavoro di una difficoltà estrema… e forse è proprio per questo che i “come è fatto” ci affascinano tanto. La fabbrica di Peg Pérego è una sorta di arcipelago di isolette specializzate che si occupano ciascuna di un prodotto diverso, dall’inizio alla fine. Molte linee utilizzano il metodo Toyota – razionalizzando le risorse necessarie e producendo quello che effettivamente viene ordinato, in maniera super rigorosa ma anche flessibilissima.

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La scritta “Made in Italy” non racconta frottole

Peg Pérego è un’azienda storica che si basa, da sempre, su un indotto di tante piccole – ma indispensabili – realtà locali che sostengono la produzione fornendo le materie prime e i pezzi che non vengono stampati direttamente nello stabilimento. Si assembla a pochi chilometri da Milano, ma anche quello che si assembla non arriva da lontano. E la sensazione è quella di mettere piede in un’azienda di famiglia che è diventata gigantesca ma che non si è dimenticata da dove viene. O come si coltivano relazioni solide con i propri vicini di casa. Le componenti sono sfornate da macchine che stampano i pezzi partendo dal materiale grezzo, ma ad assemblare effettivamente il seggiolone che vostro figlio ricoprirà di appiccicosissime rondelle di banana ci pensano delle mani. Ci sono delle mani che vestono le navicelle con l’imbottitura che accompagnerà molte nanne e mani che ricoprono la scocca con la fodera impermeabile che terrà alla larga il freddo e l’umidità. Mani, come in un laboratorio artigiano. Ma molto più grande.

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Gli step di controllo sono innumerevoli – e nessuno è superfluo

Ogni addetto si occupa spesso di più fasi produttive. In alcuni casi (e con variazioni cicliche delle mansioni) una persona mette insieme un determinato articolo dall’inizio alla fine, sottoponendolo regolarmente a un sacco di step di controllo che hanno a che fare con la tenuta, i meccanismi di aggancio, le chiusure e la corretta applicazione di tutto quello che serve. Gli ovetti, per dire, vengono infilati in un aggeggio che, con 11 macchine fotografiche, ha il compito di verificare il corretto posizionamento delle parti metalliche. Alla fine del procedimento, i prodotti vengono imballati, inscatolati e pesati. La pesatura è una saggissima prova del nove. Pesa troppo? C’è qualche pezzo in più. Pesa troppo poco? Manca qualcosa.

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Gli stampi sono classificabili come arte moderna

I prodotti vengono assemblati, ma da dove arrivano i pezzi? Dal capannone vicino. Fuori dallo stabilimento ci sono dei silos decisamente voluminosi pieni di materiale plastico – e qui mi giocherò la parola difficile della giornata: POLIPROPILENE – che viene “risucchiato” e dato da mangiare a una macchina che somiglia un po’ a un autolavaggio ma che, in realtà, fonde la plastica, la stampa e la raffredda, restituendoci un oggetto tridimensionale perfettamente strutturato e pronto al montaggio. Per stampare i pezzi servono gli stampi, MA GUARDA UN PO’. Ci sono stampi di millemila tipi – i più favolosi erano quelli per i telai delle macchinine giocattolo – e sono tutti accomunati da una gloriosa caratteristica: sono cari come il fuoco. Gli stampi sono inestimabili, massicci, pesantissimi e facilmente scambiabili per dei pezzi da museo. Dato il loro valore di mercato e il loro favoloso aspetto da astrattismo post-industriale (esisterà bene una corrente artistica che fa più o meno una roba del genere), fossi in Peg Pérego mi farei dare una sala all’Hangar Bicocca.

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I collaudi sono cruentissimi

C’è un signore che passa le sue giornata a torturare i passeggini. Li prende, li piazza su un rullo pieno di dossi artificiali e ce li fa correre sopra per chilometri e chilometri. Non pago, li ficca in una cella frigorifera a temperature polari e li osserva compiaciuto mentre surgelano. Non ancora soddisfatto, prende una specie di incudine di quindici chili, ce la carica su e simula il movimento della mamma che fa il gradino per giorni, settimane, secoli. C’è un tavolo DEVASTANTE che ospita una fila di bottoni – quelli montati sulle macchinine giocattolo, per dire – che vengono pigiati da dita d’acciaio per milioni di volte. Ci sono marchingegni che sottopongono i tessuti ad ogni genere di angheria per valutarne la resistenza alla frizione, alla luce e alle intemperie. È un signore adorabile e il suo lavoro è importantissimo sia per testare la resistenza dei prodotti alle condizioni più disparate che per capire come migliorare le materie prime e i tessili, ma sono certa che se i passeggini potessero muoversi di loro sponte, lo travolgerebbero senza pietà.

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L’ufficio invenzioni è un covo di Mr Wolf 

Un’azienda deve preoccuparsi di sfornare e recapitare ai clienti quello che hanno ordinato, ma deve pensare costantemente al prossimo prodotto. E Peg Pérego ha una specie di covo di folli inventori che progettano e costruiscono prototipi a bordo scrivania, in un tripudio di bulloni e software di modellazione 3D. L’idea è quella di migliorare costantemente quello che c’è già, ideando soluzioni nuove a richieste che possono essere emersi dal lato del consumatore, rendendo ancor più fluido e comodo quello che già si vende o escogitando prodotti che ancora non esistono per semplificarci ulteriormente la vita. C’è chi disegna al computer e chi martella, chi sagoma materiali e chi si legge le ricerche di mercato. Avrò visto di sfuggita il prossimo passeggino definitivo? È molto probabile.

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Vestire i passeggini è un po’ come vestire le persone

Pensavo che i moodboard fossero un costrutto immaginario – spesso utilizzato nei film quando bisogna raccontare come funziona la redazione di Elle – o qualcosa che puoi aspettarti di vedere solo su Pinterest, ma invece esistono veramente. E sono utili. I tessuti che rivestono i passeggini che spingete o i seggioloni che ospitano le vostre creature quando è ora di mangiare vengono da una ricerca combinata di materiali e pattern. Ci sono le collezioni stagionali, proprio come per le case di moda, e c’è un super lavoro che comincia con lo studio delle tendenze di un particolare periodo e finisce alla macchina da cucire. In mezzo c’è un grande sforzo di progettazione estetico/funzionale e ci sono anche persone precisissime che tagliano cartamodelli, applicano bottoni e trovano il modo di vestire ogni prodotto nella maniera più piacevole e comoda possibile. In poche parole, una sartoria per passeggini. La vita.

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Per disegnare i giocattoli si usano pennarelli straordinari

Da dichiarata maniaca della cancelleria ed ex-persona che sa disegnare, il reparto giocattoli mi ha regalato grandi emozioni. Con “giocattoli”, Per Pérego intende principalmente le macchine, i trattorini e le ruspette pilotabili dai vostri bambini. E sui tavoli dei progettisti di giocattoli ho visto meraviglie. Schizzi e disegni di mini-fuoriserie. Portamatite pieni zeppi di pennarelli inestimabili. Astucci strotolabili contenenti ogni pastello mai inventato dall’uomo. Copiosi cicciottini di gomma – avete presente quando si cancella con la gomma, no? Il risultato della cancellatura è una specie di palata di cicciottini. COMUNQUE. Mi immaginavo, non so bene perché, che ormai non capitasse più, ma il pensiero di una persona che si siede lì e disegna un giocattolo con la matita, la gomma e i pennarelli mi riempie di una felicità senza pari.

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Al parco giochi ci sono anche le corse clandestine

Tra i disegnatori, gli inventori e l’ufficio stile c’è una sorta di parcheggio, pieno di veicoli telecomandabili di ogni forma e dimensione. Molti giocattoli Peg Pérego, oltre ad essere guidabili da vostri figli, sono pilotabili da remoto anche attraverso un’app. E mi è stato rivelato che questa funzionalità è assai gradita dai genitori. E io, subito: “Ah, certo. Insomma, è comodo. Metti che il bambino sta per schiantarsi, tu sterzi con l’app e sei a posto”. Ma mi sbagliavo. “Certo, certo. Le macchine sono sicurissime, Francesca. Ma la faccenda è un’altra. I papà ci fanno le corse”.
Favola.

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Dietro alle “cose” ci sono tante persone. E molta passione

L’ultima scoperta è un po’ un tratto comune di ogni punto che ho cercato di raccontare. E credo sia un po’ l’anima della giornata. Quando vai in un negozio e chiedi di vedere un passeggino, ne percepisci istantaneamente i vantaggi pratici e ti preoccupi di capire esattamente come funziona e quali sono le caratteristiche che possono contribuire effettivamente a semplificarti la vita. Ma non ti rendi conto – almeno, io non me ne sono mai resa un granché conto – di quello che è successo prima. Non hai modo di intravedere la lunga strada che quel passeggino ha fatto per arrivare lì davanti a te. Può sembrarti più o meno bello, comodo e ingegnoso – ma è difficile percepire la complessità della sua storia progettuale, produttiva e logistica. E, soprattutto, non capita spesso di intuire la cura gigantesca che tante persone ci hanno messo per fartelo trovare lì. Al di là della curiosità che un “come è fatto” può suscitare, quindi, quello che mi ha colpito davvero di questo giro in Peg Pérego è stato proprio quello. La cura. L’idea di doversi impegnare per rendere più facili le giornate di chissà quante famiglie sconosciute. La necessità di fare bene le cose, perché nei seggioloni, nei passeggini e sulle macchinine ci finiscono dei clienti molto importanti. E avere la possibilità di accorgermi davvero di tutto questo, gironzolando per gli uffici o in mezzo alle linee di montaggio, è stata la scoperta più preziosa. Il mio nuovo passeggino arriva da quel posto lì. E mi pare una grande fortuna.

Grazie del tour, Peg Pérego! Vedervi all’opera è stato un piacere.
E grazie a Marie Claire ed Elle per avermi voluta a bordo in questo progettone lungo, interessantissimo, super ricco di scoperte e di elegante utilità materna.

E ora perdonatemi, ma devo andare a fare le impennate con Cesare e il mio Pliko Mini tutto a righette colorate.
:3

 

CI SARANNO MILIONI DI SPOILER.
Regolatevi, dunque.

Star Wars è una delle cose che amo di più al mondo. E ci tengo tantissimo. Il risveglio della forza mi è piaciuto un sacco – nonostante tutto – ed ero super carica per Gli ultimi Jedi. Ma presa bene a livelli incontenibili. Poi niente, sono uscita dal cinema e mi è venuto un mezzo magone. Per la precisione, mi sono sentita un po’ così:

Ma che cosa ho visto, di preciso?
Da dove scaturisce questa sensazione di profondo smarrimento?
E chi lo sa.
Proviamo a capire.

Gli ultimi Jedi non è una tragedia conclamata. È che, in millemila momenti, non sembra un film di Star Wars. O se ne esce con un “tono” – un mood? – che lascia semplicemente perplessi. Senza star lì a fare paragoni con il senso dell’umorismo della trilogia originale, mi è sembrato che qualcuno, da qualche parte, stesse disperatamente cercando di farmi ridere ogni sei minuti. Un po’ come quando ridi perché ti fanno il solletico. Per un istante può anche essere divertente… ma poi, nel caso il solleticatore persista nel suo assalto, lo implori di smettere perché la faccenda sta diventando spiacevole e ti è venuta voglia di morire e basta.
Ecco, il film comincia con uno scherzo telefonico di rara mestizia – una roba che persino Bart Simpson avrebbe accuratamente evitato di propinare al povero Boe – e da lì basta, gag a non finire. Gag a base di animaletti goffi di un’invadenza incredibile. Torneremo ad occuparci degli animaletti – perché meritano una riflessione a parte – ma per ora mi viene da dire che tutti questi interventi un po’ alla Guardiani della Galassia non solo non fanno ridere, ma devastano anche abbastanza i sentimenti che ti travolgono mentre guardi il film. Ci sono sequenze in cui la tensione narrativa è vera e ben orchestrata che vengono rovinate irrimediabilmente da manipoli di suore-pesce col grembiule e una carriola. Inseguimenti stellari tra il Millennium Falcon e gli Starfighter in cui ti auguri che Chewie si schianti in una miniera di cristalli di sale solo per liberarci di quei maledetti porg che continuano a interrompere una battaglia altrimenti favolosa. ABBIAMO CAPITO CHE SONO CARINI E FANNO I VERSI MA STIAMO BENE ANCHE SE NON LI VEDIAMO DI CONTINUO LEVATELI DI MEZZO NON NE POSSIAMO PIÙ.

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Umorismo forzato a parte, ci sono proprio dei momenti di assoluto MA CHE MA CHE MA CHE.
La principessa Leia – pace all’anima di Carrie Fisher – che sfreccia nello spazio come una Statua della Libertà coi razzi sotto alle scarpe.
L’ammiraglio Ackbar – colui che pronunciò il memorabile IT’S A TRAP! ed eterno eroe della Resistenza – ucciso come un cane qualsiasi all’inizio del film. E tanti saluti.
Quell’assurda videochiamata alla tartaruga saggia con gli occhiali grossi.
Tutti i tre quarti d’ora che abbiamo trascorso sul pianeta Las Vegas. Ma che era quella roba lì? Perché.

Insomma, succedono cose sbagliate al momento sbagliato mentre personaggi di ogni tipo dicono roba anche quella po’ sbagliata in mezzo a vasti branchi di creature più o meno tondeggianti che cercano di farci tenerezza inciampando, farfugliando in strani idiomi o facendo le faccette. 

Che diavolo, non ce lo meritiamo.

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Comunque.
Gli animalini.
QUANTI ANIMALINI CI SONO.
Va bene, un film intero di Star Wars si svolge in un bosco pieno zeppo di orsetti alti mezzo metro che indossano adorabili tunichette da combattimento. Ma gli Ewok sono gli Ewok. Il fenomeno a cui assistiamo negli Gli ultimi Jedi somiglia di più a un’invasione di Gremlin. O a una puntata dei Pokémon. O a un Animali Galattici e Dove Trovarli.
Ovunque, li troviamo.
OVUNQUE.
Potrei sforzarmi tantissimo e cercare di elencarli, ma so già che fallirei in partenza. Tralasciando i porg, parecchi hanno anche un’utilità – le volpi di cristallo salato indicano la via, le mucche-tricheco dissetano Luke ANCHE SE FANNO SCHIFO MALEDIZIONE CHE BRUTTE SONO QUELLE BESTIE GRAME, i levrieri-alce-fennec alti dodici metri che corrono pure sulle pareti verticali permettono a Finn e Rose di scappare, il piccolo goblin rincoglionito che usa BB8 come una slot-machine gli fornisce involontariamente dei proiettili -, ma finisci per irritarti lo stesso. Perché sono troppi. E tutti visibilmente ansiosi di piacerci o di colpirci molto con la loro arguta stravaganza.
Meno, perbacco.
Meno.

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Ma torniamo alle faccende di struttura, di equilibrio e di senso. Perché pure lì mi sembra che ci siano un po’ di problemi. Ho avuto l’orribile sensazione che tanti personaggi venissero “buttati via” – soprattutto considerando il primo episodio della nuova trilogia – e che venisse regolarmente dedicato molto più tempo a parti della trama che mi interessavano poco o niente, quando invece avrei amato immensamente soffermarmi in altri posti.
Per dire. Finn. Finn era praticamente il co-protagonista del primo film. E qua che fa? Lo impegnano per secoli in una missione che si rivelerà un vicolo cieco insieme a una compagna d’avventura letteralmente incontrata per caso. Non che di Finn mi sia mai importato un granché, francamente, ma sembra proprio uno che “massì, ce l’abbiamo sul groppone anche a questo giro. Troviamogli due fotocopie da fare”. E dove va a finire tutto il gran legame con Rey? Si rivedono, si fanno due ciao e poi entrambi tornano a farsi i fattacci loro. Ma io dico.
Snoke, amici. SNOKE. Un personaggio così misterioso ed enigmatico da mostrarsi per un film intero unicamente in guisa di ologrammone monumentale che impartisce ordini senza che nessuno osi dirgli BA! Il leader supremo! Il male in persona! Colui che corruppe e avvelenò il cuore di Ben Solo, fino a convincerlo a compiere l’irreparabile! Ma scusate, ma ditemi chi è. Da dove viene. Qual è l’estensione dei suoi temibili poteri. Che vuole fare davvero. Com’è che ha incontrato Ben Solo. Dateci qualcosa, prima di segarlo in due. È incredibile!
E Phasma? Che senso ha mettere Gwendoline Christie in quell’armatura FANTASTICA se poi la fai tornare in scena solo per morire come una cretina? E io che pensavo che nel secondo film avrebbe finalmente avuto un ruolo un po’ meno ridicolo!
E Benicio del Toro? Benicio del Toro in questo film è un espediente narrativo che parla e cammina, e basta.

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A salvarci parzialmente dalla rovina, però, ci sono quelli che maneggiano la Forza. Ora, sarò strana io, ma Star Wars lo vado a vedere perché mi piacciono i Jedi e i Sith, perché amo le spade laser e i conflitti interiori che solo il Bene, il Male e Destino possono scatenare nell’animo degli abitanti di galassie lontane lontane. Certo, ci piacciono anche i robot che rotolano, la Resistenza che pilota navette che somigliano alla Uno Hobby che mi ha regalato mia zia quando ho fatto la patente – “Guida questa, Francesca. Che se ti pialli da qualche parte non rovini la macchina, anzi” – e gli alieni strani che suonano il piffero al bar, ma al cinema ci andiamo perché la Forza scorre potente dentro di noi.
FATEMI VEDERE I JEDI E I SITH, ALLORA.

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Ero molto felice perché, date le premesse del Risveglio della Forza, sembrava molto probabile che Rey avrebbe fatto la fine di Luke quand’è andato a trovare il maestro Yoda. Ecco, non è andata esattamente così – e Luke ha fatto ben poco per impartire a Rey dei concreti insegnamenti -, ma la nostra volitiva amica si è data da fare comunque. Dal punto di vista narrativo, la trovo molto meno affascinante rispetto al primo film – perché mai dovrebbe convertirsi al Lato Oscuro? Nessuno lo ritiene plausibile nemmeno per un secondo -, ma ho adorato la bieca invenzione di farla parlare su con Kylo Ren con quella specie di Face Time buttato in piedi grazie alla Forza. Ma quante cose si possono fare con la Forza? Tutto, cavolo. Pure Face Time. Ecco, per me tutto quello che Rey e Kylo Ren fanno insieme ha funzionato bene. La scena in cui incontrano Snoke e poi triturano i pretoriani-samurai è favolosa. FAVOLOSA. Forse è il mio duello preferito con la spada laser, altroché quelle boiate coreografatissime dei prequel coi musiconi in sottofondo. Il dilemmi che cercano di risolvere, i problemi che si creano a vicenda, il fatto che – alla fin fine – non hanno davvero nessun altro con cui parlare – ecco, è questa la roba che vogliamo vedere. Ma mica perché nutriamo la recondita speranza che che si amino con foga. Un po’ anche quello, va bene, ma perché è solo quando ci sono loro due che questi benedetti film trovano un po’ di vita o ci mettono di fronte a una strada inesplorata. Coi personaggi contenti e realizzati ci si fa poco. Sono i tormentati e gli irrisolti che creano le storie.
A tal proposito, dunque, che il cielo benedica Kylo Ren
. Anche questa volta.

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In un film pieno di personaggi gettati alle ortiche, lui continua inesorabilmente a complicarsi splendidamente la vita.
Ripensando alla paura vera che faceva nel Risveglio della Forza – nella prima metà del film, almeno – vederlo conciato così è affascinante. Non solo Snoke lo tratta come un rincoglionito dal minuto zero – confermando che, senza maschera e senza tutte le sovrastrutture da NONNO IO CONCLUDERÒ QUELLO CHE HAI COMINCIATO, quel che resta è un groviglio di nervoso, delusioni, vanagloria e solitudine -, ma pure lui ha un bel po’ di orgoglio ferito da amministrare e delle decisioni francamente pessime con cui venire a patti. Ora, Luke Skywalker che si avvicina di soppiatto al letto di un ragazzone che russa per tranciarlo in due con la spada laser è una roba un po’ strana – perché Luke, insomma, è sempre stato l’eroe puro, quasi un simbolo dell’innocenza e del bene senza sfumature oscure -, ma introdurre quel trauma lì nella storia di Kylo Ren è un raro caso di DIAMO DELLE MOTIVAZIONI SOLIDE A QUESTI PERSONAGGI. Snoke aveva già fatto danni irreparabili? Ben sarebbe stato recuperabile, se Luke non si fosse spaventato per tutti quei poteroni grezzi e incasinati? Chi può dirlo, Snoke è crepato male prima di poterci spiegare la sua versione dei fatti. Comunque.
Dopo la figuraccia finale – cercare di abbattere un’illusione ottica con la spada laser e accorgersi dopo tre ore che Luke Skywalker non sta veramente lì è piuttosto imbarazzante – Kylo Ren si ritrova rabbiosamente alla guida di un impero senza manco un cane che, quando se lo merita, possa dirgli BRAVO, COCCONE, ANDRÀ TUTTO BENE. E a questo punto, credo, potrebbe succedere di tutto.  Gli equilibri della Forza sono diventati molto più fluidi e “grigi” rispetto a quello che conoscevamo. Rey e Kylo Ren sono dei personaggi in movimento che sono in qualche modo riusciti a demolire quello che c’era prima – certo, è maestro Yoda che brucia il tempio Jedi, ma senza la visita di Rey dubito che Luke avrebbe abbandonato la sua routine di pesca e mungitura di quelle immonde vacche-tricheco. Sono senza maestri, hanno potenzialità piuttosto devastanti e delle discrete rogne di famiglia. Dobbiamo credere a Kylo Ren, quando dice a Rey che i suoi genitori non sono nessuno? E che ne so. Kylo Ren di balle ne racconta, ogni tanto, ma la faccenda della caverna potrebbe dargli ragione, così come la propensione di Star Wars in generale a far emergere eroi e paladini dai posti più anonimi. Lo scopriremo solo perseverando, credo.

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Insomma, Gli ultimi Jedi è un film a tratti fastidiosissimo – e manco ci hanno dato la soddisfazione di vedere Chewie che divora un porg di fronte agli altri intollerabili esponenti della specie -, mal costruito, punteggiato di momenti WTF, troppo disomogeneo nel tono e nella distribuzione dei “pesi” delle molteplici (forse troppe) vicende che prova a raccontare e a sprazzi sceneggiato dal trio di fenomeni degli Occhi del Cuore, ma a fare faticosamente capolino c’è anche del buono. Continuo a non capire questa necessità di “alleggerire” l’atmosfera buttandola sulla comicità – cioè, è già un film di Star Wars, di quanta altra leggerezza abbiamo bisogno? Mica stiamo andando a vedere un dramma polacco popolato da tossicodipendente orfani, indigenti e storpi che vivono ai margini di una discarica di scorie radioattive – e spero con veemenza che nel prossimo episodio questi super sbilanciamenti e svarioni ci abbandonino definitivamente, ma continuo a crederci. Ci voglio credere, proprio. Star Wars ci tiene prigionieri generando una specie di sindrome di Stoccolma? È possibile. Ma nemmeno questa volta posso dire “no, basta. Io Star Wars non lo voglio più vedere”… anche se la mia faccia, ricordiamolo, è un po’ sempre questa.

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Altre cose belle A CASO che mi sono venute in mente solo ora.
– l’unica gag che mi ha fatto ridere è quella del ferro da stiro.
– la spada di Kylo Ren continua ad essere in cima alla lista dei regali di Natale che mi piacerebbe ricevere. E mi sono accorta che gli somiglia, anche. Cioè, i Jedi in pace col mondo o i Sith nel pieno controllo della situazione hanno spade molto lineari, “pulite”. Kylo Ren ha una spada gigantesca, sborona, fracassona – fa un baccano infernale, fateci caso -, tutta frastagliata e guizzante. Dai, sono identici. Chissà se le ha dato un nome.
– Laura Dern, ti voglio bene.
– Generale Organa, abbiamo bisogno di sapere dove hai comprato la cappa con il colletto svettante. Anche noi vogliamo metterci di vedetta su una spianata di sale con un bavero imponente a riparare il nostri delicati lineamenti.

 

Sono una vivacissima immortalatrice di ricordi ma anche una pessima catalogatrice. Sono in grado di generare una quantità imbarazzante di fotografie e filmati – e posso anche accumulare chili di memorabilia di ogni forma, dimensione e colore – ma poi non ci combino quasi niente. Interi viaggi sono rimasti intrappolati nelle macchine fotografiche e nei DEVAIS più disparati. E innumerevoli ricorrenze sono ancora saldamente custodite in telefoni più o meno antichi. In generale, sono la classica persona che fa le foto e poi non le stampa. E le lascia lì a marcire. Con la nascita del Cuorino mi ero ripromessa di invertire quest’odiosa tendenza ma, per il momento, arranco ancora. Ha un anno e due mesi, ormai. Credo di avergli scattato circa sedici miliardi di fotografie. Quante ne ho stampate? Una frazione infinitesimale. Ed è ridicolo… perché sono anche una sentimentalona. E li vorrei, gli album.
MA ALLORA PERCHÉ NON TI SCANTI, TEGAMINI. PERCHÉ RIFUGGI I FOTOALBUM. LA STAMPA FOTO, CHE TI HA MAI FATTO DI MALE.
Niente, mi ha fatto. È che sono pigra. E che producendo così tanto materiale faccio fatica a selezionare, perché sono pure pignola.
Per cercare di invertire questo disdicevole andazzo, ad un certo punto ho anche deciso di buttarla sulla professionalità. Quando Minicuore aveva circa sei mesi – in aprile – abbiamo organizzato uno shooting di famiglia. Ma una roba da persone normali, però. Niente bambini nudi avvolti in nastri e foglie di cavolo, niente gomitoli di lana, backdrop bianchi e padri a torso nudo che cingono virilmente le proprie compagne in una nuvola di fumo rosa. Abbiamo chiamato una delle fotografe che ci ha sopportato al matrimonio e le abbiamo chiesto di venire a farci delle foto a casa. Certo, non mi sono presentata in vestaglia di ciniglia, ma neanche sembravamo usciti da una specie di carrozzone confettoso di romanticismo artificiale. Le foto sono venute molto bene. Cesare è adorabile – e quasi sempre attonito – e noi siamo noi, senza troppe sovrastrutture.
Bene, che fare dunque di questi bellissimi ricordi?
Dando prova di un tempismo assai provvidenziale e in occasione del suo solido sbarco in Italia, Cewe ha deciso di scrivermi per propormi un collaudo – strappandomi all’inerzia in cui già stavo sprofondando. Che gioia, un’azienda blasonatissima e leaderissima in Europa che produce fotolibri e fotoregali (si chiamano così) vuole collaborare con me, MA STAMPIAMO IL FOTOLIBRO DELLO SHOOTING PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. Fai tutto online, ti arriva a casa, scegli il formato, la carta e ciao. Diciamo basta allo strapotere dell’intangibilità!

Ma facciamo i seri, per un attimo. Il mondo di Cewe è decisamente vasto. Oltre alla stampa fotografica e alla possibilità di creare un fotolibro professionale, il sito è pieno zeppo di idee regalo e oggettistica  da personalizzare con le proprie immagini. La procedura per assemblare il proprio fotolibro abbonda di opzioni, layout e scrittine aggiungibili. Si può fare online o scaricando un mini-software – cosa che, in generale, capita per tutti quanti i prodotti sui quali è possibile appiccicare i vostri imperdibili scatti, mica solo per gli album foto – e non è nulla di particolarmente complicato, anzi.

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Vale la pena fornirvi un ingrandimento su Ottone von Zoolander e del suo PALESE ENTUSIASMO per lo shooting di famiglia. Scegliere quest’eloquente immagine per la copertina è diventato all’improvviso fondamentale. Riderò per l’eternità.

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Io ho deciso di sfornare due oggetti: il fotolibro della famigliola felice e un’imprevedibile palla con la neve – perché se devi esprimere delle opinioni su Cewe devi poterlo fare anche valutando il potenziale dadaista dell’oggettistica a disposizione. Quindi sì, ho fatto anche una palla con la neve. E ci ho messo dentro una foto di Ottone.
UNA PALLA CON LA NEVE CON DENTRO OTTONE.
La vita è meravigliosa.

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Comunque, com’è andata?
Il fotolibro è bello. Non ho scelto la carta supertoppissima perché volevo vedere cosa succedeva a ordinare una cosa “normale”. Le nostre foto arrivavano da una fotografa vera, quindi il materiale di partenza era ottimo, ma la resa anche su una carta intermedia è decisamente approvata. I tempi di stampa e di consegna – includendo pure un oggetto pazzo – sono veloci e, dopo essermi documentata un po’ su quanto costano i fotolibri nel mondo, direi che il rapporto qualità/prezzo/rapidità è ragionevolissimo. Se non siete contenti c’è anche una garanzia “soddisfatti o rimborsati”, ma penso si tratti della funzionalità meno utilizzata di sempre.
E la palla?
La palla è tutto.
Voglio agitarla di continuo e andarci a vivere dentro.

Per chi volesse stampare qualcosa con Cewe – condividendo con me l’immensa sensazione di appagamento che solo la realizzazione di prodotti fotografici tangibili può regalarti -, ecco qua un po’ di codici sconto da utilizzare in allegria.

10CEWE17 – codice valido fino al 31 dicembre del 2017 e può essere applicato a qualunque acquisto senza alcun limite di spesa. Il suo valore è di 10 euro ed è utilizzabile per l’ordine di CFB, poster, foto, CEWE murals, Calendari, Cards, Gifts.

30CEWE17 – codice utilizzabile fino al 31 dicembre del 2017. Il suo valore è di 30 euro ed è valido solo per un ordine minimo di 150 euro e per l’acquisto di CFB, poster, foto e Cewe murals.

SHIPCEWE17 – codice promo valido fino al 31 dicembre che può essere utilizzato per una spesa minima di 30 euro e per l’acquisto di CFB. L’applicazione di questo codice consente di godere della spedizione gratuita.

Felice stampa e mille di questi fotolibri, dunque!

Dunque, come funziona il Natale. Il Natale è pieno di regali, panettoni, lucine, renne, elfi sottopagati che fanno gli straordinari, calendari dell’Avvento, addobbi, maglioni brutti che in realtà sono bellissimi, fiocchi di neve, “se non ci vediamo più ti faccio gli auguri”, alberi più o meno arroganti e sciarpone. E di mercatini. I mercatini natalizi sono FONDAMENTALI. Quando poi sono anche mercatini belli il trionfo è assoluto. Qualche giorno fa sono andata a fare un giro al mercatino natalizio organizzato dalle super bravissime di Cotton Friday e, visto che non ho trovato un banchetto dove non avrei lasciato volentieri parecchi soldi, ho deciso di mettere insieme un’agile carrellata delle espositrici. Perché magari avete ancora dei regali da fare o, in generale, condividete la mia fissazione per l’handmade super creativo e di qualità eccelsa.
Ecco qua chi c’era, dunque.
Divertitevi, fate amicizia, compilate wishlist, comprate cose e sprigionate entusiasmo. Se lo meritano.
E grazie a Petit Pois Rose, Juice For Breakfast, Nigutindor e Tamago Craft per avermi invitata a iperventilare insieme a loro. Conoscervi è stato stupendo.

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Momò & Cose

Riciclo creativo e intere cittadine fatte di casette minuscole e colorate. Monica è anche assai brava a inventare delle scatoline personalizzate – che somigliano un po’ a dei diorama (o diorami? Chi può dirlo) – per raccontare una storia o celebrare degnamente un vostro ricordo speciale.

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Gummy Illustrations

Elena è un’illustratrice di rara inventiva e versatilità. Per Natale ha deciso di donare al mondo una serie di animalini paffuti che vi aiuteranno ad addobbare l’albero – fornendovi anche numerosi messaggi motivazionali -, ma produce anche oggetti spettacolari con Luna Lovegood ed Eleven – più parecchi altri personaggi che non possiamo fare a meno di amare – e stampe fascinosissime.

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Babel

Ecco, io vorrei tutto e basta. Serigrafie anatomico-scientifiche in ogni angolo di casa. Cuscini con le nappine e occhioni spalancati. Ci sono quadri, aggeggi bizzarri, spille che ti dicono le cose e vari ornamenti che sembrano usciti da Penny Dreadful o dallo studio di uno scorticatore dotato di un eccellente senso estetico.

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Idee Country

Sabrina crea accessori tessili per piccoli e grandi. Ci sono i set da asilo – sacchettini super comodi per il cambio con asciugamanini coordinati -, le custodie imbottite per i vostri preziosi device, le borse, le pochette e gli astucci. La scelta delle stampe è molto coccosa e i materiali sono superbi.

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Fab for a Jellyfish

Una sartoria creativa fatta di pattern insoliti, tessuti scelti con cura e materiali ricercati che diventano camicine per bimbi, abiti per grandi e accessori per capelli. Insomma, cucire con creatività, usando stampe uniche e molto speciali, spesso scovate in viaggio o rinvenute in vasti giacimenti di tessili vintage. Il laboratorio organizza anche corsi di cucito, pittura, fotografia e teatro – sia per adulti che per piccoli.

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Ohioja

Ylenia aveva un registratore di cassa giocattolo, un muro con un tricheco dai baffoni di lana e una cassetta di verdure fatte all’uncinetto – tutte felicissime, tranne il limone… che i limoni sono tipi acidi, si sa. Stavo già impazzendo, ma poi ho visto delle fette di pizza e un bricco di Estathé e ho completamente perso il senno. La nobile arte della riproduzione uncinettistica di roba da mangiare e oggettini vari si chiama amigurumi. Ed è all’incirca la cosa più bella del mondo.

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Fotini di LauVmade

LauVmade

Accessori geometrico-grafici (sia per addobbare le persone che le case) stampati su legno e tagliati a mano. Ci sono orecchini, spilline e spillone (ma anche le coppie di spillette per il colletto della camicia), ciondoli e coaster per i vostri pretenziosi cocktail domestici. Sembrano minimal, ma se guardi bene ti accorgi che sono pieni di minuscole renne, galline e motivi fiabeschissimi.

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Fotini di MouMee 🙂

MouMee

Un intero zoo di creaturine e bestiole in pasta di amidi, modellate e dipinte a mano.

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La Nana

A livello di stampe, il giro al mercatino di Cotton Friday è stato una felicità vera. Dalla Nana ho visto maglie con maniche tempestate di tigri e tucani, pois di tulle e velluto, tessuto tecnico ricoperto di lecca lecca a forma di cuore e tantissime cose assai originali ma anche di taglio portabilissimo. EVVIVA – anche per i gattoni neri!

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Laura Cortinovis

 Laura è un’illustratrice e un’autrice di libri per bambini. Lavora ad acquerello ed è specializzata in fiabeschissime rappresentazioni della natura. Tutte le sue creature (immensamente tondeggianti e coccose) e le sue bellissime infiorescenze hanno dato vita a una gamma di oggetti di cartoleria di grande delicatezza e pastellosità.

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Fotini di Crazy Cat Café 🙂

Crazy Cat Café

Il fatto che io non ci sia ancora stata è gravissimo, ma anche Milano – come ogni metropoli che si rispetti – ha il suo cat café. Oltre a nutrirvi e abbeverarvi, il Crazy Cat Café ha inventato una linea di merchandising musical-gattoso (i felini immortalati sono quelli del locale) e vende anche una collezione di accessori miciosi per la casa (LE TAZZINE CON LE ORECCHIE) e per le vostre personalissime esigenze d’addobbo.

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Piutì by èvita

Erica è una fabbricatrice di pupazzi inconfondibili che possono anche trasformarsi in gioielli o oggetti di supporto quotidiano. Ci sono le sardine-braccialetto, i pesciolini da portare al collo, le balene da compagnia e i molari felici che vi custodiscono le chiavi del portone. Tutto è cucito, imbottito e dipinto a mano.

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Fotini di Frrink 🙂

Frrink

Stampe, incisioni e linocut da appendere nelle vostre fortunate case o da godervi sotto forma di lampada o di accessori su tela e tessuto. L’ordine, l’armonia, la pace.

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Fotini di Beads and Tricks 🙂

Beads and Tricks

Gioielli artigianali in metallo e pietre dure che sembrano usciti da un tesoro vichingo. Anche qui, se volete imparare a fabbricarvi un anello o un monile tutto vostro ci sono corsi e laboratori. E io amerei molto cimentarmi. Per poi partire alla conquista di un’isola remota.

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Leo Feliz

Vorrei essere una ragazza-minimal, ma la verità è che sono molto più incline a mettermi addosso centosei cose parecchio complicate. I gioielli di Leomi sono stupendi. Anima caraibica e nappine a profusione – create a mano a partire da innumerevoli matassine di cotone variopinto. Gli orecchini sono tutti unici e spesso sono un incontro tra materiali di diverse provenienze. Ci sono i bottoni vintage rivestiti di tessuto e le perline, ma anche spille bizzarre che hanno cambiato destinazione d’uso. Datemi un pareo e tanti saluti.

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Le Petit Rabbit

Cartoleria! CARTOLERIA COCCOSA! Giulia è una graphic designer che sforna ripetutamente cose di carta di mille tipi diversi – ci sono i quaderni, le agende, i biglietti d’auguri, i posterini e i kit da festa con piatti e bicchieri – ma anche articoli tessili di varia utilità. Ci sono le sacchine stampate con la coulisse, gli zainetti, le tote e anche i cilindroni di carta spessa dove riporre i giocattoli (o quel che vi pare). Tutti i suoi pattern sono adorabili e pastellosi e la scelta dei colori regalerebbe la serenità anche a un troll con l’orticaria.

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Bene. Direi che un rapido recap l’abbiamo fatto.
Vi lascio frugare pacificamente fra i profili e gli shop.
Wishlistate con calma.
O regalatevi subito qualcosa di fatto con il cuore.
:3

Minicuore ha esordito al nido a metà settembre, con una certa spavalderia. Pur contraendo malattie di ogni genere a intervalli regolari di dieci giorni, la convivenza con la micro-comunità di infanti della sua classe sta procedendo bene. Io, mio malgrado, sono stata inserita in una chat di mamme votata alla diffusione di regolari bollettini pediatrici e all’organizzazione di acquisti collettivi di adorabili scarpine di foggia zoomorfa. Per il momento ho imparato i nomi dei bambini, ma continuo ad avere qualche problema ad associarli alle rispettive genitrici, ma conto di farcela entro le vacanze estive. Morbi e madri a parte, il nido richiede una certa organizzazione. Siamo andati a presentarci alle educatrici, verso la fine di agosto, e siamo usciti dalla riunione con una lista di cose da portare e procedure da rispettare lunga come i rotoli del Mar Morto. Il lavoro più laborioso, da ripetersi a scadenza settimanale, è quello di organizzazione dei cambi. Perché i bavaglini si sbrodolano e le cacche possono sfuggire dai pannolini. Quindi te, tutti i lunedì, devi rigenerare il parco-indumenti del tuo erede, inserendo tutto in ordinatissime sacche e premurandoti di etichettare ogni capo di vestiario col nome della creatura, affinché Cesare non se ne vada in giro con le calzamaglie di Allegra.

La faccenda dell’etichettatura era un vago terrore che già sospettavo di dover fronteggiare. E, sin dal giorno della complicatissima compilazione della domanda per avere un posto in un nido vagamente normale del comune di Milano, ho giurato di non fare la fine di MADRE.
Dovete sapere, infatti, che in seconda media sono andata al campo estivo di tennis. E MADRE ha deciso che il modo più razionale per affrontare la faccenda dell’etichettatura dei miei vestiti era il seguente: comprare minuscole cifre in merceria – fino a comporre il numero “4107”, la matricola che mi era stata assegnata – e cucirle su ogni singolo vestito che mi sarebbe servito per quelle due settimane.
NO, GRAZIE. MA MANCO MORTA.
PIUTTOSTO PAGO UNA TATA INGLESE A DOMICILIO PER I PROSSIMI SEI ANNI.
CI SARANNO BEN STATE DELLE INNOVAZIONI NEL FLORIDO SETTORE DELL’ETICHETTATURA DI INDUMENTI PER BAMBINI.
E sì, ci sono state. Con mio grande sollievo.

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Ho chiesto qualche informazione a un po’ di mamme di Instagram che seguo con gioia e, visto che l’inizio del nido incombeva, ho deciso di fare un tentativo con Petit-Fernand, un sito specializzato nella stampa di etichette personalizzate di diversi tipi. Ci sono le etichette con nome termoadesive – che si attaccano ai vestiti con il ferro da stiro – e quelle adesive e basta – che vanno appiccicate, in un’inception di etichette, alle etichette degli indumentini. Quelle del colletto, per capirci. O, in alternativa, quelle con le indicazioni sulla composizione del tessuto e sul lavaggio. Visto che sono estremamente pigra e inetta, mi sono immediatamente orientata sulle etichette adesive, che promettevano di resistere in lavatrice fino a 60° (giro in asciugatrice compreso) e si potevano riempire di coccosità tipo piccoli dinosauri, sfondini pastello e font tondeggianti.
Ebbene, tre mesi dopo posso affermare con grande soddisfazione che le etichettine sono ancora tutte al loro posto. E di lavatrici ne faccio due a settimana – e pure con una certa irruenza.

Quand’ero lì lì per finire la prima mini-risma di etichette – le tengo nel cassettino del fasciatoio e le appiccico man mano sui vestiti che mi servono quando preparo la sacca per il lunedì. Ci vogliono tre secondi, non ci sono tempi tecnici di accensione di ferri da stiro e non esistono clausole vessatorie sull’utilizzo repentino, la vita – INSOMMA, quand’ero lì lì per finirle, Petit-Fernand mi ha scritto per chiedermi se volevo provare anche quelle per gli oggetti – perché vanno etichettati anche i biberon, che vi credete – e se mi andava di collaudare uno degli altri aggeggi personalizzabili dell’assortimento.
Visto che siamo in fase “impariamo a bere da recipienti diversi”, ho scelto la borraccia Petit-Fernand e ci ho istantaneamente schiaffato sopra un tirannosauro che va sullo skateboard nei pressi di Las Vegas. Così, perché gli va. Si possono scegliere 28 illustrazioni di sfondo e aggiungere una scrittina con il nome della vostra creatura – o quello che vi pare. Tutte le borracce sono in acciaio inox (completamente riciclabile) e mantengono i liquidi caldi per 12 ore o refrigeratissimi per una giornata intera. E L’ACQUA NON SI ROVESCIA. Sembrerà scontato, ma non lo è – credetemi.

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Visto che le etichette vanno via come il pane – non perché sia necessario sostituire quelle che si staccano, ma perché gli infanti crescono e le stagioni trascorrono – Petit-Fernand ha pensato anche di sfornare dei pacchettini-risparmio e dei kit per affrontare le situazioni di socialità più disparate. I mix sono molto convenienti, le etichette possono diventare vergognosamente carine – ci sono un sacco di possibili combinazioni ornamentali da creare – e, cosa ancor più importante, sono coriacee e superbamente comode. Insomma, un’ottima scoperta-semplifica-vita e una gradita conferma a questo secondo giro di collaudo.

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Se siete ridotte come MADRE e/o non avete ancora trovato una maniera sensata per sbrogliare l’annosa faccenda dell’identificazione dei capi d’abbigliamento della vostra prole, ecco qua un codice sconto che potete usare su Petit Fernand. Con tegamini17 avrete un -15% sulle etichette (per vestiti e oggetti) e sui pacchetti di etichette. Sarà valido dall’11 al 18 dicembre compreso. E spero possa tornarvi utile.

Che dire, felici operazioni di etichettatura a tutti. E… coraggio, supereremo brillantemente anche l’ennesima febbriciattola.