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tegamini

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Che avete comprato al Black Friday?
Io niente.
Ho solo accumulato desideri e frustrazioni, come al solito.

Prima di procedere con gli aggeggi che ho amato questa settimana, ecco una piccola nota metodologica – che si è resa necessaria a questo giro e che potrebbe servire anche nelle prossime puntate di questa PRODIGIOSA rubrica. Tutto quello che avete visto nelle puntate precedenti è frutto di desideri purissimi, spontanei e non sollecitati. Ma mi sta capitando, ormai spesso, di essere contattata per inserire questo o quel prodotto nei post di Weekly Wishlist. Non è successo, fino a questo momento, che mi garbasse davvero qualcosa di quello che mi veniva segnalato e, dunque, ho declinato con grazia. Di recente, però, sono stata più fortunata e ho effettivamente trovato roba sensata e coccosa, che poteva benissimo far parte di una Weekly Wishlist. Dato che non si tratta di “ritrovamenti autonomi” ma di una reazione positiva a uno stimolo proveniente da altre entità, i prodotti che approdano in Wishlist in questo modo verranno serenamente segnalati con un sobrio * accanto al nome del brand. E ogni Wishlist che conterrà uno o più prodotti di questo tipo finirà anche nella categoria “Collaborazioni”. Perché è una forma di pubblicità. E niente, va detto. Senza problemi.
Perdonatemi per il mammozzone burocratico, ma faccio del mio meglio per essere una pia donna e mantenere un rapporto di mutua comprensione e rispetto nei confronti di chi investe il proprio tempo per venire a leggere cosa scrivo.

Procediamo?
Forza e coraggio!

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Tra i numerosi accidenti che hanno funestato le mie ambizioni per il Black Friday c’è sicuramente anche questa nuova e GESTIBILISSIMA passione per la roba fatta di seta al 100%. E che sarà mai. Ma prenditelo un foulard di Silken Favours, capirai! E invece no. Bisogna procedere con cautela, perché le stampe pazze sono troppe e ci si mette un attimo a sviluppare una dipendenza. Silken Favours è un marchio londinese che produce anche cuscini clamorosi e abbigliamento stravagante, privilegiando i motivi complicati e gli animalini adorabili. Ci sono sciarpe tempestate di corgi reali, gattini, colibrì, ghepardi o ogni genere di creatura che l’onnipotente ha mandato in terra. In pratica sono riusciti a sintetizzare in camicioni e foulard tutto quello che adoro, premurandosi anche di pensare a un’eccezionale composizione tessile.
La sofferenza è grande.
VOGLIO DIRE, SONO CONIGLIETTI.

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Non so dove voglio andare d’inverno con dei fiori in testa – presto, che qualcuno mi porti su una spiaggia tropicale – ma nulla può impedirmi di voler bene alle coroncine di Mon Lisa. Sono fatte a mano, si annodano civilmente sulla nuca (o dove siete più comode) e possono finirci sopra gli aggeggi più disparati. Pon-pon compresi – perché fa freddo, ovviamente. E nulla scalda il cranio come una fila di pon-pon, si sa.

Un post condiviso da Mon Lisa (@monlisaofficial) in data:

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Ma torniamo per un attimo al pragmatismo. Pensiamo alle vestaglie. La vestaglia, come chiunque abbia avuto la pazienza di sciropparsi una mia giornata su Stories o su Snapchat sa bene, è in assoluto il capo d’abbigliamento che utilizzo con più frequenza – e con più amore. Ne ho solo due e finiscono forsennatamente in lavatrice a turno, perché non posso assolutamente affrontare l’inverno senza infagottarmici dentro e trovarmele entrambe da lavare sarebbe inaccettabile. Per limitare l’ansia, dunque, ho deciso di ampliare il parco vestaglie, lavorando sull’esperienza accumulata per trovare un modello a) pratico, b) poffoso, c) con le maniche non troppo largone (perché non posso continuare a travolgere roba e devo potermele tirare su senza troppi sbattimenti quando lavo culetti o riempio la lavastoviglie, d) calda come un piumone ma non voluminosa come un piumone, e) collo-friendly, perché sono vecchia e mi ci avvolgo fino al naso e amo sotterrarmi nella morbidezza fino agli zigomi VA BENE, d) dotata di tasche dove inserire bavaglini, biscotti, telefoni, calzini numero 21 che trovo in giro per casa, fazzoletti, ROBA CHE SERVE. Ebbene, frugando sul sito di Cotonella* ho trovato la terza vestaglia. Ha tutto. Potrebbe funzionare. È lei. Ha pure un gioioso motivo natalizio e le tasche a forma di CUORINI. Dobbiamo incontrarci, vestaglia. Cingimi! RALLEGRIAMO INSIEME IL FOCOLARE DOMESTICO.

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Ce l’hanno tutte. Ma la voglio comunque.

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La storia è semplice. Un coniglietto torna a casa con la sua mamma a sera tarda. La mamma lo porta in braccio, mentre lui sonnecchia e osserva quello che succede intorno a loro. I movimenti della città. Gli altri. Le luci. Le piccole azioni che accompagnano una giornata che finisce. Perché la domanda che dobbiamo farci, quando andiamo a dormire, è sempre la stessa: che cosa significa sentirsi davvero a casa, al sicuro? Com’è sentirsi amati?
Il libro si chiama The Way Home in the Night ed è scritto/disegnato da Akiko Miyakoshi. E io ho pianto solo a leggere la sinossi.

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Una lampada a forma di diplodoco. A chi non serve, dopotutto?

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L’ultimo oggetto del desiderio di questa settimana è qualcosa di glorioso. TheFabLab, in un momento di indubbio genio, ha deciso di sfornare degli umarell da scrivania. Per chi non vivesse a Milano o non avesse mai sentito questo termine, gli umarell sono i vecchi che guardano i cantieri. Quelli che si posizionano davanti a un qualsiasi scavo/ponteggio/transenna/opera urbanistica in fase di realizzazione e osservano i lavori in corso con le mani dietro la schiena, pronti a dispensare suggerimenti utili agli esasperatissimi operai. Ebbene, da oggi potrete piazzarvi un umarell sulla scrivania e avere anche voi un anziano – progettato e stampato in 3D – che vi fissa mentre lavorate. Sono in visibilio. E sono certissima che la mia produttività ne gioverebbe.

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Nell’impossibilità di trovare qualcosa che possa competere con l’umarell, direi di chiuderla qui. Alla prossima Weekly Wishlist e felici desideri a tutti! :3

(Preparatevi a un massiccio tornado di foto eterogenee, euforie, videini riassuntivi, difficoltà d’abbigliamento e strane capigliature. Pronti? In carrozza!).

*

Agatha Christie era una signora portentosa. Autrice di un’ottantina di romanzi – fra i più amati e venduti di sempre – e viaggiatrice instancabile – in un’epoca in cui le signore che andavano a spasso da sole venivano osservate con un certo sospetto, soprattutto se erano felicemente divorziate -, ha intrigato e incuriosito milioni di lettori e spettatori che, negli anni, si sono goduti le sue storie anche a teatro, al cinema e in tv.

One must do things by oneself sometimes…Either I cling to everything that’s safe and that I know, or else I develop more initiative, do things on my own.

Durante la Prima Guerra Mondiale lavorò come infermiera – faccenda che le permise di imparare nozioni disparatissime sui veleni – ed esordì nel 1919 con Poirot a Styles Court. Nel 1925 sparì misteriosamente da casa per vendicarsi in maniera FAVOLOSA del marito che la cornificava e nel 1928 partì per conto suo a bordo dell’Orient Express, girando in lungo e in largo l’impero britannico con la sua fidatissima macchina da scrivere. I viaggi di Agatha sull’Orient Express sono stati parecchi e ciascuno l’ha aiutata a raccogliere pezzettini di varia ispirazione per scrivere il suo giallo (forse) più celebre, pubblicato nella sua interezza nel 1934 dopo essere uscito a puntate l’anno prima sul Saturday Evening Post.

All my life I had wanted to go on the Orient Express. When I had travelled to France or Spain or Italy, the Orient Express had often been standing at Calais and I had longed to climb up into it.

A parte gli EVVIVA che Agatha Christie mi ispira, le sono anche molto debitrice – un po’ come lo sono tutti i suoi discendenti, che la signora Christie continua egregiamente a mantenere. Senza di lei, infatti, non sarei mai finita a Londra a mangiare tartine sull’Orient Express e, con ogni probabilità, nemmeno mi sarei ritrovata a zampettare su un red carpet per la prima di un film in cui Kenneth Branagh sfoggia dei baffi a dir poco maestosi.

Ma andiamo con ordine, che qua l’entusiasmo potrebbe travolgerci come una tempesta di neve nella località turca di Çerkezköy.

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Assassinio sull’Orient Express è appena diventato un film – il secondo LUNGOMETRAGGIO tratto dal romanzo, dopo quello del 1974 diretto da Sidney Lumet – con un cast vastamente stellare e un gran tifo da parte della Agatha Christie Foundation – che gestisce con puntiglio l’eredità letteraria di della scrittrice, assicurandosi che ogni trasposizione delle sue opere sia molto bella e rispettosa del materiale originale. Il film uscirà in Italia il 30 novembre, mentre il libro è già reperibilissimo ed è stato puntualmente ristampato da Mondadori.

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Per l’arrivo del film nelle sale, la 20th Century Fox ha ben deciso di caricare un gruppo di bookblogger europee (sconfinatamente più celebri di me) su un vero Orient Express parcheggiato alla stazione di St Pancras. Non è il treno che è stato utilizzato per le riprese – Kenneth Branagh ha insistito per farsene fabbricare uno come diceva lui, con una resa scenica RAGGUARDEVOLE -, ma se come me vi siete dilettati per svariati anni col pendolarismo potrete facilmente comprendere lo stupore che un susseguirsi di vagoni con poltrone vellutate (GIREVOLI) e lampadari di cristallo è in grado di generare. Mai avrei pensato di prendere un aereo per andare a vedere un treno, ma si è poi scoperto che ho fatto benissimo.

Dopo aver ingurgitato l’equivalente del mio peso in champagne – senza comunque perdere la dignità, anche se ci ho mangiato insieme solo una tartina al salmone di rara precisione geometrica – e aver ammirato con una certa soggezione la macchina da scrivere da viaggio che Agatha Christie utilizzava quando andava in giro per il mondo – macchina da scrivere presidiata da un affabile energumeno che ci ha giustamente vietato di toccarla e/o di rovinarla sbavandoci sopra come dei labrador -, abbiamo fatto amicizia con James Prichard, bisnipote dell’illustrissima autrice e presidente/CEO dell’Agatha Christie Foundation. Che lavoro fa? Questo.

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Con il signor Prichard abbiamo discusso di baffi e della caratterizzazione di Poirot – che in questo film vince anche una sorta di backstory e una presentazione quasi da supereroe -, di quanto sarebbe bello vedere Meryl Streep che interpreta Miss Marple e del lavoro che serve per rendere interessante e “cinematografico” un romanzo che si svolge principalmente su un treno popolato di gente che dialoga, si arrovella e pensa, senza roba che esplode all’improvviso.

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James Prichard ci ha anche comunicato la sua immensa felicità per un ritorno al cinema così sontuoso per Agatha Christie, ma anche un po’ di rammarico per il destino della bisnonna. Perché il giallo è un genere quasi sempre considerato “inferiore” rispetto alla Grande Letteratura, ma quando uno scrittore è sostenuto dall’acume, dall’inventiva e dall’inesauribile ingegno di un’Agatha Christie, sarebbe molto liberatorio poter fare a meno delle categorizzazioni o della condiscendenza che, troppo spesso, accompagnava e accompagna le donne che scrivono. Insomma, Agatha Christie si merita di più. E un film così “potente” è un’occasione grandiosa per avvicinare nuovi lettori a un’eredità letteraria che merita di essere approfondita. 

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Dopo aver declinato il quattordicesimo bicchiere di vino (scandalizzando il cameriere), mi sono goduta l’albergo per ben un’ora e ventitré minuti. E ho pure scoperto di avere 75 £ “caricati” sulla camera (GRAZIE, 20th CENTURY FOX, QUESTA È SIGNORILITÀ) e pure un certo appetito. Mi devo cambiare-truccare-pettinare per non fare una figura eccessivamente imbarazzante su un red carpet, santo il cielo, ma HO FAME. Abbandonandomi a uno dei sogni più fastosi mai elaborati durante la mia vita adulta, dunque, ho chiamato il servizio in camera. E visto che i miei entusiasmi sono solitamente paragonabili a quelli di una bambina di quarta elementare, anche l’ordinazione è stata conforme alla mia età interiore. Ti hanno messo al Mayfair Hotel – che è tipo il Gesù degli alberghi di Londra – e tu chiami il servizio in camera perché vuoi un fish & chips. Che leggiadria. 

Quando per la prima volta nella vita hai la facoltà di avvalerti del servizio in camera ma resti un’ignorante. Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Dopo essermi doverosamente alimentata, ho fatto del mio meglio per prepararmi. Sono dovuta salire in ginocchio sul piano del lavandino perché lo specchio era troppo lontano e non ci vedevo a truccarmi. Ho anche pensato “ecco, adesso cadi, sbatti la testa sul marmo di Carrara e muori”, ma me la sono cavata senza riportare contusioni. Ero abbastanza in ansia per l’abbigliamento perché A) Faceva un gelo porco, B) Di solito sto a casa in vestaglia e non ho idea di come ci si debba presentare su un red carpet quando non fai l’attrice ma nemmeno vuoi sembrare la Piccola Fiammiferaia della Val Padana. L’ho risolta avvalendomi delle seguenti componenti:

– Vestito di Guess da ancella delle Olimpiadi dell’oscurità comprato in 9 minuti quando ormai avevo perso le speranze. Costava 129 euro ma mi hanno fatto il 25% di sconto perché quando fai la tessera di Guess ti accolgono con un -25% di default sul primo acquisto. Mi sono sentita incredibilmente intelligente e ho sperato con tutte le mie forze che la gente finisse per pensare che era il vestito più inestimabile del mondo.
– Giacca di Blumarine in vellutino nero che mi ha comprato MADRE al primo anno di università perché dovevo andare al compleanno di una mia amica ricca che ci aveva invitate in Costa Azzurra. Una giacca che ha dieci anni ma il velluto è tornato di moda quindi CIAO, sono una principessa russa e non butto via niente.
– Jimmy Choo glitterate che mi sono messa al mio matrimonio e poi mai più. Mi si erano spellati i tacchi nel prato ma, se andate in Rinascente e spiegate il problema, Jimmy Choo vi ordina un altro paio di tacchi e poi vi manda dal suo scarparo di fiducia che ve li cambia. Ecco, io ho fatto tutte queste manovre nell’autunno del 2014, convinta che sarebbero stati sforzi inutili, ma invece no, un posto dove andare in giro con le Jimmy Choo l’ho trovato di nuovo. Ora le rimetto nella scatola – in attesa di ritirare il Nobel per la Letteratura che un giorno vincerò.
– Pochette da sera con fiocco di vernice che si comprò MADRE negli anni Settanta nella speranza che mio padre la portasse a ballare. La uso da quando a ballare ho cominciato ad andarci io visto che era nuova.
– Collana di Trifari del secolo scorso che ho trovato da una signora che vendeva gioielli vintage in un vicolo di Ortigia e che mi risolve con grazia qualsiasi AUTFIT che abbia una qualche tendenza al dorato.

Poi niente, ho visto passare Penélope Cruz e mi sono ricordata che sono di Piacenza. E che non sono capace di pettinarmi.

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Uno non lo direbbe, ma i red carpet sono cruentissimi. Anche se stai alla Royal Albert Hall. Da una parte ci sono quelli che hanno il biglietto (più o meno regalato) per assistere alla prima del film. E transitano su una loro corsia mentre dei tizi enormi e furibondi li incitano continuamente a spicciarsi e a non fermarsi per fare foto da mettere su Instagram. E con “li incitano” dovete immaginarvi dei pastori sardi che gridano cose irripetibili alle loro pecore per incanalarle verso l’ovile, solo che le pecore si sono impegnate per vestirsi bene e hanno lo smartphone. Dal lato opposto c’è un’altra corsia, riservata agli attori e alla gente importante che deve parlare con tantissimi giornalisti, ordinatamente confinati dietro a una transenna. Simmetricamente al transennone dei giornalisti ce n’è un altro, dietro al quale è relegata la gente che vuole bene a Johnny Depp e vuole vederlo e/o sventolargli in faccia dei grandi cartelli con scritto JOHNNY MARRY ME.  

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Noi avevamo un pass molto grosso che diceva SOCIAL e ci hanno messe in una specie di arena circolare in mezzo alle due corsie, ai piedi di un palco dove a intervalli di dieci minuti salivano svariati fenomeni del cinema mondiale, reduci da una lenta transumanza – irta di domande e convenevoli – lungo la transenna dei giornalisti.
Non credo di essermi mai trovata in una posizione così bizzarra.
Io, con Judi Dench a tre gradini di distanza. Ero così felice che mi sono anche dimenticata di vergognarmi per quest’immane fortuna. Si sono materializzati Willem Dafoe (è la coccosità in persona), Daisy Ridley (CHE LA FORZA SIA CON TE, CUORINA), Josh Gad, Johnny Depp (che benissimo non stava), Kenneth Branagh (che è talentuoso… ma pure un gran bell’uomo – mi sia concesso dirlo), Santa Rosalia, Optimus Prime e pure la Madonnina di Civitavecchia. Sono tristissima perché Michelle Pfeiffer è arrivata prima di noi e non sono riuscita a volerle bene anche da vicino, ma tutto sommato va bene così – che diamine dovrei dire a Michelle Pfeiffer. Come ci si approccia a Michelle Pfeiffer. Nemmeno Batman l’aveva capito, figuratevi io.

Comunque.

Visto che dubito di aver spiegato in maniera comprensibile tutto quello che è capitato, ho messo insieme un po’ di clippine delle Instagram Stories che ho concitatamente prodotto durante la giornata/serata e le ho piazzate qui: 

Ma il film com’è, alla fin fine?
Ma lo devo vedere?
Ma se non ho letto il libro?
Il film è pensato per presentare al grande pubblico – anche quello completamente ignaro dell’esistenza di Hercule Poirot nel panorama letterario dell’universo – il mondo di Agatha Christie. È sontuoso e visivamente bellissimo, e Kenneth Branagh fa del suo meglio per non tenervi inchiodati sul treno troppo a lungo, anche se il ritmo non è sempre scoppiettante – ogni indagine ha dei tempi tecnici, alla fin fine. È stupendo vedere così tanti attori di talento che lavorano insieme a un progetto così complesso, così come è apprezzabilissima la cura maniacale per i dettagli e per i dialoghi. Ma così, tanto per dirvela in due parole. Io, in tutta onestà, al cinema ci andrei anche solo per vedermi due ore di baffi giganti.

Grazie a Mondadori, 20th Century Fox e alla Agatha Christie Foundation per avermi invitata a girellare per Londra in compagnia di Agatha Christie – riuscendo nella difficile impresa di farmi rivalutare il trasporto su rotaia. E grazie anche al cuoco del Mayfair Hotel che alle 23.40 mi ha preparato un club sandwich col pollo, il bacon croccante e l’uovo fritto.

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Che dire… rifacciamolo presto.
Magari per il prossimo caso di Poirot.
:3

La domanda COME VA è solo all’apparenza un quesito di semplice gestione. Perché a un COME VA, di solito, non è dato rispondere in maniera troppo particolareggiata. Magari ci sono delle cose che vanno bene, ma anche cose che vanno male o cose che potrebbero andare peggio/meglio, ma non puoi metterti lì a fare l’elenco.
Quel che serve, per rispondere al COME VA, è una specie di calcolo karmico che sommi e sottragga le diverse forze in gioco, per arrivare a una valutazione complessiva che possa vagamente offrire all’interlocutore un’impressione generale del corso della tua recente esistenza. Quando risolvi l’equazione e arrivi a una risposta accettabile, poi, te la puoi riciclare finché i fattori non mutano in maniera drastica, costringendoti a un ricalcolo.
MADRE, per esempio, rispondeva costantemente ai COME VA con un incoraggiante RESISTO, che mi metteva automaticamente in imbarazzo, visto che denunciava velatamente una difficoltà di fondo di cui sospettavo di essere in qualche modo responsabile. Comunque.  Mi sono resa conto che la mia risposta quasi standard al COME VA è diventata BENE… MI STO ASSESTANDO. E lo dico agitando un po’ le mani per aria, come se stessi palpeggiando una specie di nuvola invisibile. Non ho idea dell’impressione che una risposta del genere possa suscitare, ma è la pura verità… ormai da un annetto.

Non sono mai stata una particolare fan della routine o dell’organizzazione maniacale. C’è chi per sentirsi in pace deve pianificarsi tutti i weekend da qui al 2023 o chi scrive su un bel quaderno pieno di washi-tape i suoi obiettivi a medio, lungo e lunghissimo termine. Io, anche prima di riprodurmi, avevo serie difficoltà a fare la spesa per più di un pasto alla volta.
Che diamine mangeremo domani?
Encefalogramma piatto davanti al banco dei latticini.
Così.
Che vuoi pianificare, con uno schema cognitivo del genere? Poco, ecco che cosa pianifichi. Un po’ perché, per indole, non hai super voglia di sforzarti, ma anche un po’ perché, tutto sommato, sei in grado di gestire l’imponderabile. Operi in un contesto dove esistono dei margini di manovra. Dove ti puoi permettere di pensare domani alla cena di domani. O di prenotare un viaggio la settimana prima di partire – se hai i soldi. Perché reagisci rapidamente, cambi quando serve e, non essendo una persona particolarmente strutturata, non ti agiti quando capitano cose in maniera repentina. O non ci metti molto a decidere e a passare all’azione. Ti arrangi. Ne esci comunque vincitrice.

È un vantaggio, rispetto all’estrema pianificazione?
Non ne ho idea.
E poco ce ne frega, visto che non è una gara e non si vince niente.

Quello che sto cercando di dire – forse – è che l’arte dell’improvvisazione è un po’ una scelta, ma è anche una specie di lusso. Decidere di “pensarci dopo” è una forma di libertà. E si va ad appollaiare in cima a una base di relazioni, impegni e situazioni già assodate che sei ormai capace di amministrare in automatico. È una sorta di cuscinetto che ti puoi gestire come ti pare per assecondare sghiribizzi o momenti di culo pesante. E ai COME VA finisci per rispondere in maniera molto avventurosa e spumeggiante. Ti viene da parlare proprio di quegli sghiribizzi lì e delle trovate dell’ultimo minuto, perché ti sembra che la parte più “viva” di quello che ti capita sia quella che hai previsto di meno, quella che si innesta sulla tua base di certezze più solide e costanti.

Ma che succede quando cerchi di far appollaiare il lusso della disorganizzazione parziale su una base fluida?
Ciao.

Ho un bambino che cambia tutti i giorni. Che fa cose nuove continuamente e che sviluppa abitudini inedite ogni venti minuti. È un genere di imprevedibilità diversa, ma imprevedibilità rimane. Ed è una mia responsabilità. Posso contare su alcuni punti fermi e imporre un certo ritmo, ma ora si improvvisa per gestire progressi visibili e minuscoli traguardi. E non puoi più permetterti di rimandare il rimandabile, perché in quello spazio di sereno tentennamento ci finirà sicuramente qualcosa di mai visto che dovrai risolvere. Non c’è nulla di meno statico di un infante. Perché crescere non ha nulla a che vedere col rimanere fermi o col creare rassicuranti cuscinetti in cui la realtà si comporta più o meno come ce l’aspettiamo, lasciandoci dell’altro spazio per indovinare soluzioni estrose a problemi che possiamo comodamente rimandare. Succede tutto contemporaneamente e tutto diventa un grande esperimento di adattamento perenne.

Ci si annoia? Direi di no.
Ci si ricalibra? Per forza.
C’è fascino? Molto.
C’è affanno? Anche.

Perché ti senti sempre un passo indietro. Non puoi abituarti a niente. E ogni tua dote d’improvvisazione finisce per confluire nella gestione di un cervellino che scopre pezzettini di mondo. O di cosciotti che sostengono rapidissime deambulazioni. Appena un meccanismo potrebbe vagamente configurarsi come routine, cambia tutto.
Bene, siamo finalmente riusciti a padroneggiare le pappotte. Ma cinque minuti dopo le pappotte ci fanno schifo e vogliamo le penne col ragù. Ci siamo stabilizzati sulle penne col ragù? Fantastico, ora voglio gestirmi la forchetta da solo. Mi auguro che presto decida anche di cucinarsele in autonomia, le benedette penne al ragù, ma – per ora – io lo rincorro. Mi stanco, mi stupisco, lavoro col computer in bilico su un ginocchio mentre supervisiono la costruzione di ambiziose torri di cubi gommosi. Lo accompagno e avanzo insieme a lui, perché non posso sapere cosa troverà domani e non posso governarlo. Ma posso cambiare quando ce n’è bisogno, perché mi ricordo come si faceva – per cose molto più stupide e molto meno importanti.
Cambio.
E mi assesto.
COME VA.
Bene, grazie, mi sto assestando.
Sempre.
E speriamo che basti.

Non ho idea di cosa regalerò alla gente che amo e non so nemmeno se farò l’albero di Natale – in questa casa abitano un bambino di un anno e un gatto di sette chili, la vedo grigia -, ma sono assai intenzionata ad industriarmi per i vostri futuri acquisti festivi. Perché si pensa che regalare un libro sia una roba facile, ma non è vero niente. Visto che donare un romanzo o un’ambiziosa opera di narrativa è molto complicato, ho deciso di cominciare con una lista di libri dall’aspetto avvincente e dal pregevole contenuto. C’è un po’ di tutto, tematicamente parlando, e l’idea è quella di farvi trovare qualcosa di adatto ai gusti più disparati ma anche di farvi fare una bellissima figura. Perché nessuno vuole essere quello che, ogni santo anno, distribuisce calzini ai propri congiunti. Smettetela con queste calze, donate un libro fantasmagorico, bizzarro e super interessante!

Cominciamo?
Cominciamo.

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Lettering creativo (ma non solo)

La mia calligrafia è un susseguirsi di bruchi (giuro, in pratica scrivo tutte le lettere uguali e non si capisce niente) e sono pure mancina, il che non può essere che un’aggravante. Tra le numerose ambizioni che albergano nel mio cuore, dunque, c’è anche quella di migliorare quest’incresciosa situazione. Ebbene, ho scoperto che esiste un tenerissimo manuale di lettering – con tanto di esercizi – che dovrebbe sospingermi verso un’esistenza costellata di quaderni pieni di svolazzi armoniosissimi.

Per chi?
Fan del bullet-journal (e dei diari in generale), autori di bellissimi bigliettini di auguri, principi e principesse, ambiziosi estimatori dell’home-decor-fai-da-te.

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Atlas Obscura
Guida alle meraviglie nascoste del mondo

L’Atlas Obscura è la vita. E basta. È una guida-wunderkammer, divisa per continenti, ai posti più bizzarri del mondo, alle stramberie geografiche più estreme e alle usanze più insolite di popoli di ogni genere. Troverete catacombe, costruzioni abbandonate, bar senza senso, sagre dimenticate, musei assurdi, manifestazioni naturali rarissime e angoli pressoché inesplorati. Ogni meta è abbondantemente illustrata e raccontata con il gusto autentico della scoperta.

Per chi?
Viaggiatori incalliti, amici che disprezzano i villaggi turistici, matti, curiosi e sognatori.

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Errico Buonanno e Luca Mastrantonio
Notti magiche – Atlante sentimentale degli anni Novanta

 Una raccolta di nostalgie e ricordi degli anni Novanta, corredata da una gran quantità di immagini che vi faranno tornare in mente i poster che tenevate in camera alle medie. Da Lady Diana ai Backstreet Boys, dalla Smemoranda a Non è la Rai, un viaggio televisivo, musicale e “sociologico/consumistico” nel decennio che ha segnato – nel bene e nel male – il nostro immaginario.

Per chi?
Amici nati negli anni Ottanta che, presto o tardi, hanno irrimediabilmente posseduto un Tamagochi. E non l’hanno mai dimenticato.

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J. K. Rowling, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban
Con le illustrazioni di Jim Kay

Jim Kay sta alacremente proseguendo nelle gigantesche operazioni di illustrazione dell’intera saga di Harry Potter e, quest’anno, siamo arrivati al terzo volume. È cromaticamente un po’ più cupo dei precedenti (il che non mi pare strano, devo dire), ma suscita altrettanta meraviglia.

Per chi?
Per chi è cresciuto con questi libri e si merita un’edizione bellissima da sbandierare a destra e a sinistra. E anche per i maghi del domani.

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La mini-collana Piccole donne, grandi sogni
di Maria Isabel Sánchez Vergara

Una serie coccosamente illustrata per raccontare, in poche pagine, le vicende biografiche di alcune donne particolarmente degne d’ammirazione. I primi quattro librini sono dedicati ad Agatha Christie, Coco Chanel, Frida Kahlo (lo so, lo so, Frida è ovunque – portate pazienza) e Amelia Earhart.

Per chi?
Bambine (e signore) ribelli che si sono già lette le favole della buonanotte, donne che – com’è doveroso – fanno il tifo per le altre donne.

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Edward Sorel, I diari bollenti di Mary Astor

Amici, quando un libro Adelphi ha una copertina così vuol dire che dev’essere capitato qualcosa di rivoluzionario. Vi rimando all’esaurientissimo articolo di Rivista Studio per approfondire ogni pagina del libro, ma qui sarò breve. Edward Sorel – celeberrimo disegnatore e grafico americano – ricostruisce e illustra una storia vera, quella del controverso processo “a luci rosse” di Mary Astor, trascinata in tribunale dal marito cornuto per la custodia della figlia. Le rivelazioni della Astor, attrice non di primissimo piano ma adorata dall’autore per una vita intera, fecero tremare l’intero establishment hollywoodiano di metà anni ’30. I suoi diari, insieme a una montagna di articoli scandalistici dell’epoca, sono serviti a Sorel per ripercorrere e riversare in queste pagine la sua turbolenta e labirintica vicenda, riportando al contempo alla ribalta un mondo luccicantissimo… che non c’è più.

Per chi?
Gente che a casa ha un bel mobile-bar, gente che non legge Gente, gente che non si rassegna a imboccare il viale del tramonto, gente che ama il cinema – con un po’ di nostalgia.

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Simon Stålenhag, Loop

Per spiegarla sinteticamente, dovrei dire che Loop è una distopia scandinava pittorico-narrativa, post-bellica e anche un po’ nuclearizzata. Visto che non sarebbe chiarissimo, temo sia meglio espandere un po’ il concetto. Il libro racconta un mondo parallelo, quello di una piccola cittadina svedese al confine con il più grande acceleratore di particelle mai costruito al mondo. Il progetto Loop, attivo tra il 1954 e il 1969, ha lasciato alle sue spalle un paesaggio bizzarro e surreale: robot abbandonati che si aggirano nella neve, enormi impianti industriali dall’aria assai cinematografica, boschi pieni di dinosauri, relitti arrugginiti. A raccontarci quel che rimane del Loop, vent’anni dopo, saranno dei ragazzi cresciuti all’ombra di questo sconfinato cimitero industriale, tra scienza e immaginazione.
Illustrazioni favolose e struggenti. Livello massimo di allucinazione collettiva.

Per chi?
Orfani di Asimov, lettori di fantascienza ormai annoiati dalla fantascienza, ingegneri, meccanici, costruttori di intelligenze artificiali.

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The Legend of Zelda. L’arte di una leggenda

Un librone grossissimo, illustratissimo e completissimo su Zelda. È una sorta di enciclopedia ufficiale – con tanto di bolla papale della Nintendo – sul mondo di Zelda e sulla creazione di personaggi, meccaniche e ambientazioni. Visto che uno dei temi principali è anche “the art of”, troverete anche una vagonata di immagini, studi e meraviglie visuali che hanno contribuito a farvi invasare con Zelda.

Per chi?
Amiche e amici videoludici, nostalgici, splendidi geek e aspiranti game-designer.

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H. P. Lovecraft, Il Necronomicon
(a cura di Giuseppe Lippi)

Siamo abituati a dare in escandescenze per la bellezza delle edizioni estere di una determinata opera, ma capita raramente che un’edizione italiana ci sconvolga in maniera particolare. Ecco, adesso c’è un Necronomicon INCREDIBILE anche per noi, curato e assemblato da Giuseppe Lippi, che è un po’ il gran sacerdote di Lovecraft nel nostro paese.

Per chi?
Per i più coraggiosi estimatori della letteratura fantastica – il Necronomicon, dopotutto, è il libro che conduce il lettore alla pazzia – e per gli adoratori di Cthulhu (anche se per evocarlo davvero conviene orientarsi su questo).

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Mamma, mi racconti la tua storia?

Non credo che MADRE sia il tipo, ma magari la vostra mamma sì. Se avete una genitrice predisposta, un’idea del genere potrebbe scatenare cose assai belle. Come funziona. Il libro è una sorta di diario pieno di domande a cui la vostra mamma dovrà rispondere, più spazi in cui appiccicare fotografie e importanti pezzetti di carta. Le domande sono raggruppate in quattro macro-sezioni (“Quando eri piccola e sei diventata grande”, “Quando ti sei innamorata e sei diventata mamma”, “Il tempo libero e le cose che ami” e “Chi sei diventata”) che, nel loro complesso, hanno lo scopo di restituire un ritratto dell’essere umano che conoscete come mamma ma che, nel passato più o meno recente, ha amato, dimenticato, gioito o superato difficoltà. Ha vissuto, insomma. E magari ha voglia di prendersi un po’ di tempo per riordinare i ricordi, facendosi dare una mano da questo libro. Per affidarveli e regalarveli FOREVER.
Se la cosa vi garba, c’è anche una versione per sorelle e per amiche.

Per chi?
Ma per la vostra mamma, ovvio!

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The Art and Soul of Blade Runner 2049

Il nuovo Blade Runner mi è piaciuto molto. Non riesco ancora bene a capire se sia capitato perché è effettivamente un gran film o perché sono semplicemente rimasta ipnotizzata. Comunque sia, una cosa è chiara: Blade Runner di Villeneuve è una felicità per gli occhi – e mi immagino che debba esserlo anche un art-book dedicato al film. Li adoro, gli art-book dei film. Li desidero sempre ma poi non me li compro mai. Dobbiamo invertire questa stupida tendenza. Prima del 2049, magari.

Per chi?
Minimalisti, estimatori della fantascienza, groupie di Ryan Gosling, amici delle macchine volanti, fidanzate olografiche.

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Ti saluta STOCAZZO!

Dei primi due pregevoli volumi di questa STRABILIANTE serie di coloring-book avevo già parlato qui, ma ora è d’obbligo tornare sull’argomento per segnalare due gloriose nuove uscite: Enlarge your pencil! (40 categorie porno da colorare) e il beneamato Ti saluta STOCAZZO!, con 40 nuove parolacce e ingiurie su cui sfogare tutta la vostra ira repressa.

Per chi?
Amici di birrette, collezioniste di pennarelli assetate di vendetta, fan di Calciatori Brutti, compagni e compagne di banco.

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Petunia Ollister, Colazioni d’autore

Petunia Ollister è un’istituzione dell’Instagram librario e la sua rubrica #bookbreakfast appare ogni settimana anche su Robinson di Repubblica. Poco tempo fa è uscito il suo libro, che raccoglie le sue colazioni letterarie più belle, accompagnate da ricette e citazioni. Fa venire molta fame. E anche molta voglia di leggere.
P.S. La copertina diventa una tovaglietta.

Per chi?
Social fotografi in cerca di spunti per leggere qualcosa di nuovo, aspiranti pasticcere, bibliofili che si portano i libri anche a tavola.

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Detlef Bluhm, I gatti e le loro donne

Cinquanta quadri che contengono almeno un gatto e una donna, accompagnati da un fascinoso mini-excursus artistico che contestualizza l’opera e il ruolo dei felini ritratti. La selezione dei dipinti è super trasversale, quindi troverete epoche e correnti artistiche diversissime – ma comunque assai miagolanti.

Per chi?
Gattare e gattari, assidui frequentatori di mostre, gente che tenta invano di dipingere il proprio gatto e che ama i saggi artistici dal taglio originale.

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 Every Child Is My Child. Storie vere e magiche di piccola, grande felicità

Una raccolta di favole, scritte da una quarantina di personaggi molto amati della televisione, della musica, della cultura e dello spettacolo italiano e illustrate da altrettanti artisti, per aiutare concretamente i bambini siriani. Tutti i proventi del libro verranno devoluti a favore della costruzione di una scuola al confine con la Turchia, là dove di storie positive e racconti pieni di gioia c’è parecchio bisogno. Perché i più piccoli hanno già sofferto abbastanza. Ed è ora di cambiare le cose.

Per chi?
Per chi ha bimbi che necessitano di una storia della buonanotte e per chi crede che il futuro dei più piccoli sia anche una nostra responsabilità.

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Dolci americani

Non immaginatevi uno di quei libroni da cucina super patinati con la copertina rigida e intenti più “espositivi” che pratici, perché questa raccolta di ricette somiglia di più a una rivista… e punta all’utilità, anche se credo contenga le foto più belle che io abbia mai visto scattare a un pezzo di torta. Ci sono tutti i grandi classici della pasticceria americana – cheesecake, donut, pancake, tortazze di mele e compagnia danzante – spiegate in maniera agile ed efficace.

Per chi?
Gente che vive da California Bakery, fan di unicorni e arcobaleni, potenziali concorrenti di Bake Off Italia (ma anche pasticceri del tutto inetti), frequentatori dell’hashtag #foodporn.

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Paleoart

Di questo libro avevo già parlato nella mia lunghissima wishlist Taschen, ma non posso esimermi dal piazzarlo anche qui. Un po’ perché in una lista di tomoni arroganti non può mancare un titolo Taschen e un po’ perché trovarmelo sotto l’albero mi farebbe di certo versare copiose lacrime. Comunque, Paleoart è un viaggio visivo nella rappresentazione artistico-scientifica della preistoria. È pieno di dinosauri incredibili e di paesaggi vecchi di milioni di anni – così come siamo riusciti ad immaginarli e a farli rivivere sulla carta.

Per chi?
Addestratori di velociraptor, registi di kolossal, aspiranti paleontologi, paesaggisti, Chris Pratt.

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Elena Ferrante, L’amica geniale

Il Natale è una calamita per i cofanetti e le edizioni rilegate, abbellite e rimpolpate. E quest’anno tocca alla quadrilogia dell’Amica geniale. Non c’è molto altro da aggiungere, a parte NINO SARRATORE MERDA.

Per chi?
Gente in cerca di un bel polpettone da leggere, ragazze che pensano di avere un fidanzato che fa schifo (così si consolano), futuri telespettatori che vogliono arrivare preparati alla serie, cofanettari incalliti.

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Abbiamo finito? Direi di sì.
Felice shopping festivo. E ricordate: regalate i libri splendidoni, che sono anche facili da impacchettare.

Per ulteriori ispirazioni, date un occhio all’archivio dei #LibriniTegamini o alla nutritissima categoria Libri.

Perbacco, sono stata travolta da innumerevoli eventi. Sono andata in gita in località piuttosto incredibili, sono finita a Londra a vedere la prima di un film – ma così, a sorpresa – e ho circa 97 post da sfornare con una certa rapidità. Ma inizierò da quello meno rilevante, tanto per non darla vinta all’efficienza che dovrebbe invece governare l’esistenza di un essere umano adulto e razionale.
Che cosa vale la pena desiderare, di questi tempi?
Scopriamolo istantaneamente!

Il 50% circa delle interazioni suscitate dalle mie magistrali Instagram Stories consiste in domande sui rossetti – a me, nota icona beauty. Come ormai anche i sassi sanno, però, sono una devotissima estimatrice delle tinte labbra di Kat Von D. Ho un rosso “classico”, un rosso più scuro da pseudo-panterona e un NIUD che ha suscitato entusiasmi quasi sconfinati. E io, che pensavo che i NIUD fossero una roba inutile. Che stolta!
Comunque, il mio NIUD da giorno è il Lolita II… e ho recentemente scoperto che la Kat ha anche lanciato un cofanetto speciale dedicato alla gamma Lolita. Ci sono le due tinte – la mia è quella un po’ più terracotta, ma c’è anche il Lolita base che vira al rosino -, le matite labbra, l’ombretto e il rossetto “originale”. Costa 104 bombe ma mi pare la vita. E, cosa ancor più importante, è roba CHE MI STA BENE. Gridiamo al miracolo e rompiamo i porcellini.
P.S. – Sì, le tinte labbra seccano leggermente. Quelle di Kat Von D molto meno delle altre, ma sono comunque tinte. Se voi però vi mettete questo (un po’ prima) il bene trionferà.

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La cerniera del mio zaino con gli unicorni si è sfondata. E, in qualità di libera professionista che può teoricamente andare a lavorare dove e come le pare, avrei bisogno di uno zaino capiente, resistente e carino dove cacciare il computer e i materiali di sopravvivenza quotidiana. Il folle progetto prevede anche la riesumazione della bicicletta bellissima che Amore del Cuore mi ha donato un paio di estati fa e che ho usato pochissimo perché A) temevo che me la ciccassero e B) ad un certo punto ero gravida e non mi sembrava il caso di andare velocissimo sul pavé. Ora non so bene dov’è che voglio andare in inverno con una bicicletta e un computer nello zaino, ma mi è venuta lo stesso questa fissa insensata. Credo solo per giustificare la necessità di un nuovo zaino, ma non vorrei azzardare spiegazioni eccessivamente realistiche. Comunque, Pijama è un brand che conosco già da qualche anno e che sforna regolarmente borse e custodie per device di ogni genere. Usano un neoprene resistente più o meno come il kevlar e lo stampano in mille fantasie pazze, il che per me va BENISSIMO. Ora c’è una nuova linea – la Metron – con un nylon studiato appositamente e un po’ di sano minimalismo super funzionale. Ciao, zaino Metron a zig-zag, mi stai molto simpatico. Sono certa che potremmo diventare grandi amici.

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Mi emoziono relativamente poco per gli addobbi di Natale. Ma quest’anno vorrei un Ugly Christmas Sweater come si deve. E mi sto industriando per tempo. Sono molto indecisa tra quello di Stranger Things e quello di quel rompicoglioni di Kylo Ren. Sono entrambi orripilanti e li adoro come non mai.

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I libri che mappano scientificamente l’irreale e il fantastico mi affascinano sempre un sacco. È uscito per Utet un nuovo oggetto bizzarro che credo sarebbe saggio consultare, il Dizionario dei luoghi letterari immaginari  di Anna Ferrari. Il prezioso tomo cataloga e raccoglie i luoghi mitologico-inesistenti più celebri della tradizione occidentale, compilando un’avventurosa carrellata fra generi, epoche e opere diverse. Mi sto già emozionando.

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Com’era il cielo quando avete incontrato il vostro personalissimo Amore del Cuore? O quando avete preso una decisione di cui andate particolarmente fieri? E com’era, anche, in una giornata di rara e irripetibile felicità? The Night Sky permette di scegliere una data significativa della vostra esistenza e di trasformarla in una mappa stellare – riproducendo il cielo che si vedeva in quel posto e in quel preciso momento. La mappa si potrà poi personalizzare e stampare, per appendervela in casa nella commozione generale. Ma non è tutto molto tenero? Mi viene quasi un po’ da piangere. Il cielo di Minicuore! Il cielo delle Matrimoniadi! Sto proprio diventando una vecchia signora sentimentale.

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Cuori a profusione, per il momento.
Vado a scrivere la roba che avrei dovuto scrivere più o meno ieri, invece di cercare maglioni natalizi ripugnanti con sopra i demogorgoni e dei ragazzini in bicicletta. Ah, devo pure consegnare un libro entro il 10.
Andrà proprio tutto bene.

Sono piacentina e prendo gli affettati molto seriamente.
La coppa è un prodigio che abbiamo donato al mondo.
La coppa è importante.
I salumi sono importanti.
E il tagliere di affettati non è una roba che si prende quando non ci si decide sull’antipasto. È brutto, sminuire il tagliere di salumi. È scortese. Il tagliere non dovrebbe essere il piano B. Il tagliere ha una dignità e una sua armonia.
LODE E GLORIA AI TAGLIERI.

Ma non facciamoci risucchiare immediatamente dall’irrazionalità.

Dalle mie parti, di solito, dopo innumerevoli affettati di rara bontà si passa ai tortelli. O agli anolini. O ai DELICATISSIMI pisarei e faśö. I salumi, insomma, sono una preziosa introduzione, ma si fermano un po’ lì – se vai a mangiare fuori, soprattutto… perché a casa mia ci sparavamo etti di salame come secondo, ma siamo un caso un po’ preoccupante, temo. Comunque, dall’alto della la mia assoluta e ormai trentennale EXPERTISE salumieristica e del mio generale entusiasmo per il mangiare fuori, la settimana scorsa ho felicemente accettato l’invito dei baldanzosi ideatori/gestori/affettatori di Salumi Solari e sono andata a godermi una cena quasi esclusivamente a base di estrosissimi taglieri e sceltissimi bicchieri di vino.

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Fotina cortesemente concessa da Sapori Solari (per rendere doverosamente giustizia all’affettato).

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Il locale ha aperto due anni fa, vicino alla fermata della metro di Bande Nere, e l’idea è assai interessante. Un menu costruito su qualsiasi cosa possa dirsi affettabile – dai salumi alle bresaole, passando per i carpacci di pesce e i formaggi – e accompagnato da verdurine, cicchetti fantasiosi e pane da sgranocchiare.
Il tagliere arriva in compagnia di uno dei giovanissimi proprietari – cinque virgulti super competenti che non hanno ancora compiuto trent’anni – che si piazza lì a raccontarti con pazienza e una visibile passione quello che stai per mangiare. Ho scoperto la porchetta di tonno, gloriose ricottine di bufala, salami di mulo, tartare sceltissime di Fassona piemontese e più o meno ottantasei tecniche diverse di stagionatura dei latticini. Il tutto, però, raccontato un po’ come avrebbe fatto Gassman.

I taglieri vengono gioiosamente assemblati dietro al banco – che è in sala dove siete anche voi – utilizzando prodotti selezionatissimi che arrivano dagli angoli più disparati d’Italia. Vengono privilegiati i piccoli produttori, l’artigianalità e, oltre alla discriminante decisiva della prelibatezza, c’è anche un po’ quella della “storia” di una particolare tradizione gastronomica regionale o territoriale. Ho mangiato cose mai sentite e mai provate e mi è spiaciuto parecchio non averlo fatto prima, sarei stata molto più contenta.

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I carpacci di pesce. Le foto saranno un po’ poco PROFESSIONAL, ve lo dico, perché avevamo voglia di mangiare tutto e ciao.
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Affettare! Affettare!

Insomma, è un posto dove poter scoprire eccellenze vere e mangiare (perché sì, sono taglieri, ma si mangia) scoprendo prodotti unici. Potrete affidarvi ai ragazzi per la composizione del tagliere e l’abbinamento del vino o anche farvi consigliare qualcosa “su misura”. Se poi c’è una BRESAOLINA – termine che mi ha mandato in visibilio quando Gassman ha introdotto il tagliere dedicato, con grande costernazione di tutti i miei pazienti commensali – dicevamo, se c’è una bresaolina che vi piace particolarmente, prima di tornarvene a casa con la pancia piena e il cuore soddisfatto avrete anche la possibilità di farvene affettare un po’.
Che cos’ho scordato?
I dolci. Ci sono anche i dolci. Torte fatte in casa con proposte fisse (vi consiglio la cheesecake con la ricotta di bufala, è commovente) e invenzioni diverse a seconda del giorno.

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E basta, ho finito. Qui trovate tutte le informazioni, il menu, un po’ di filosofia e delle foto molto più belle delle mie.
Andateci, se vi capita. Si sta bene. 
Potere agli affettati! E grazie a Sapori Solari per la serata.

Allora, ho saltato una settimana perché avevo una traduzione da consegnare… ma ora nulla può più separarci dallo shopping aspirazionale.
In alto i danari – che non possediamo!

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Il freddone sta per assalirci, me lo sento – anche se non sono Ned Stark. E il mio guardaroba invernale è composto per il 94% da maglioni neri che, nonostante una lunga militanza nel mio armadio, persino io stento a distinguere. Basta, non se ne può più. Quest’anno affronterò la morse del gelo tramutandomi in una specie di gigantesca montagna di zucchero filato. Mi comprerò roba allegra, indumenti fendinebbia e giuggiolonerie totali. Tipo i maglioni poffosi e morbidoni di Wonderpull: mohair, seta e parecchia gioia.

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Grazie alla sempre preziosa Clara, punto di riferimento luminosissimo nel mondo delle crafter più o meno nostrane, ho scoperto i Ritratti Stoffosi di Angelina, che vive a Palermo e assembla – tra le altre cose – mirabili riproduzioni tridimensionali e sofficissime di persone, bestie, famiglie e nonne con le perle. I Ritratti Stoffosi sono strambi, tenerissimi, realizzati ovviamente su commissione e, da quel che ho potuto vedere, anche molto azzeccati. Nel mio, ovviamente, ci vorrei pure Ottone. Con tutto il pelo che perde potrei addirittura fornire della materia prima, ma proprio in nome del realismo più spinto… o forse no. Anzi, meglio di no. Sono certa che Angelina se la caverebbe fantasticamente anche senza.

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Cosa sono i milioni… quando in cambio ti danno le scarpe.
Nonostante stiano sopraggiungendo ere climatiche più consone allo stivalone imbottito, là fuori c’è comunque della grazia che sopravvive. Ho scoperto le Polly Plume per merito di Elena – che ne sfoggia una collezione invidiabile – e ho deciso che le amo tutte. Le mie preferite sono le Bonnie Bow, le ballerine con il fiocco gigante. Sto constatando con trasporto che il glitter sopravviverà anche nell’autunno-inverno, ma in fatto di materiali e pattern non possiamo lamentarci. Ci sono i vellutini pastellosi, la lana pelosina, la vernice e anche il tartan. Amerei accoglierne un nutrito manipolo nella mia tragica scarpiera – perché ai cento maglioni neri si abbinano altrettanti biker di equivalente cupezza e assoluta uniformità morfologica. Due balle, insomma.

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Scott Campbell è un illustratore assai magico. Ho adorato i suoi Great Showdowns (tanto per citare la semplice punta dell’iceberg) e mi piacerebbe approfondire meglio anche quello che scarabocchia sui post-it durante una telefonata particolarmente noiosa. Vista però la mia fissazione ormai millenaria per la cancelleria e per il quadername assortito, vorrei anche il taccuino con i suoi mostrini musicanti della foresta – l’ennesimo taccuino bellissimo su cui non scriverei mai niente perché se no si rovina. E sarebbe un vero peccato.

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Ricamate dei gattini sui vostri taschini.
Così, senza una ragione precisa.

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Gemma Correll è un genio. Non condivido la sua dilagante passione per i carlini – cani che mi mettono un’ansia senza pari, visto che non sembrano pienamente in grado di respirare -, ma non è un gravissimo problema. Nel suo shop c’è più o meno qualsiasi cosa, ma mi sono recentemente appassionata ai cuscini vagamente self-helpistici, specialmente alla graffetta di Office che vuole darti una mano o a quello coi reggiseni che ti supportano energicamente. Anche in senso lato.

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Dunque, ho scoperto dell’esistenza delle Baby Box da una ragazza meravigliosa che seguo su Snapchat – @lavladina, andate e amatela – e che vive in Olanda. In Olanda, come in numerosi altri paesi più o meno scandinavi, lo stato recapita al domicilio delle future mamme uno scatolone pieno zeppo di roba che potrà servire al bambino o alla bambina nelle prime settimane di permanenza sul nostro pianeta. Una specie di scialuppa di salvataggio con l’occorrente di base per rispondere alle esigenze primarie della prole, pensata per dare una mano ai genitori e garantire una serena transizione delle creature dal grembo materno al mondo esterno.
Dai, ma che bello, ho subito pensato.
Che saggezza, che trovata funzionale.
Ascoltando la mia amica, poi, mi sono resa conto che riprodursi in Olanda non è sempre un susseguirsi di meraviglia, regali e pace, ma la faccenda della Baby Box mi aveva impressionato molto. Mi sono rivista al nono mese di gravidanza, mentre scrivevo su Google roba tipo “neonato cosa serve all’inizio” e buttavo aggeggi a caso in sedici diversi carrelli virtuali, in preda all’angoscia che solo il sospetto di non essere all’altezza può regalarti.
Qualche tempo fa, però, Mukako mi ha gioiosamente proposto di fare un giro dalle loro parti per collaudare lo store e dare un’occhiata alla loro “riedizione” della Baby Box – ispirata alla versione originale inventata in Finlandia nell’ormai lontano 1938 e sopravvissuta con crescente successo fino ai giorni nostri. Cesare ormai è cresciutissimo per una Baby Box ma, grazie alla GRANDIOSA esperienza accumulata sul campo, sono decisamente nelle condizioni di valutarne una. E ho pure un’amica che aspetta, mi metto avanti coi doni – invidiandola pure un po’. In questo caso, infatti, non posso fare a meno di prorompere in un PERBACCO MI AVREBBE FATTO COMODO PERCHÉ NESSUNO ME L’HA REGALATA QUAND’ERA IL MOMENTO.
Mukako propone diverse Baby Box – tutte assemblate con la benedizione e il supporto dell’associazione Semi per la SIDS -, più o meno accessoriate. Io ho scelto la versione base – perché ad aggiungere siamo bravi tutti, è la sintesi che è complicata – e, frugandoci dentro, mi ci sono ritrovata parecchio. Vi rimando all’elenco puntualissimo degli articoli ma, per cominciare, direi che c’è praticamente tutto: pannolini, salviettine, pasta lenitiva, bagnoschiumino, body, canottiere, bavaglini per allattamento e dentizione, massaggiagengive, succhietti, un carillon. Tutta roba che ho usato, che mi sarebbe servita e che penso potrebbe servire a chiunque.

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Baby Box a parte, Mukako è un bel posto. Lo store è diviso in tre macro-sezioni: prima infanzia – categoria che contiene all’incirca tutto lo scibile umano, dai passeggini alle lucette musicali per sconfiggere il terrore dell’oscurità, dai pannolini ai piattini per la pappa -, giocattoli – ripartiti per età e per categorie “funzionali”, tipo balocchi per lo sviluppo motorio, per quello cognitivo e per il gioco simbolico – e bellezza – sia per la mamma che per la cura degli infanti. Lo shop promette consegne in 24 ore… e non mente.
Che cosa ho scelto? Indumentini.
Perché non so come funzioni negli altri nidi, ma nel nostro partono maglie e pantaloncini come ridere. Sì, mamma, l’abbiamo cambiato perché una briciola di pane gli è accidentalmente precipitata addosso. Ah, mamma, l’abbiamo cambiato perché si era rovesciato una goccia d’acqua su una manica. Meglio così, ci mancherebbe, ma è da un mese che vivo nel terrore di esaurire le scorte d’abbigliamento. E non è una fobia campata per aria, ho solidissimi dati empirici: quando lo vado a prendere, molto semplicemente, non lo ritrovo mai vestito com’era alle nove del mattino. Mai. E devo continuamente rifornire l’asilo di roba pulita, etichettata e ben piegata. Quindi niente, sento il bisogno di prendergli dei vestiti ogni dieci minuti. E quelli di Mukako sono assai carini. Dove ci sono dinosauri c’è il bene, si sa.

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Vado ad applicare pratiche etichettine adesive sulle adorabili magliette nuove di Cesare – visto che oggi è stato rispedito a casa per defecazione troppo esuberante con una valigia di roba da lavare – e faccio spazio nell’armadio per la Baby Box in attesa del lieto evento. Sarà un regalo un po’ spoilerato, è vero. Quando ti nasce un figlio, però, di sorprese ne arrivano già in abbondanza. E un dono rassicurante ci vuole, almeno per cominciare.
🙂

Tutte le volte che un nuovo serial-killer sconvolge il sereno tran tran della provincia italiana, la prima cosa che Studio Aperto sente la necessità di specificare è che l’assassino in questione era un solitario.

Salutava sempre, ma era uno che si faceva i fatti suoi.
No, non lo conoscevamo bene, non dava confidenza.
Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma chi può dirlo… non era tanto di compagnia.

Ma mica è solo Studio Aperto. La solitudine è quasi sempre motivo di sospetto o di inquietudine, ha quasi immancabilmente un’accezione negativa, almeno in parte.
Uno magari non si presenta con una teglia di lasagne alla porta di ogni condomino quando decide di traslocare in un palazzo nuovo, o non sta venti minuti a chiacchierare col portinaio ogni mattina, o non t’attacca bottone mentre butti la spazzatura… e allora è un solitario. Uno un po’ strano, pure.
Chissà.
Non è detto, però, che tutti i solitari siano dei potenziali maniaci omicidi. O degli stronzi che non hanno voglia di ricambiare le nostre esuberanti profferte di amicizia. C’è chi è propenso ad esternare con più semplicità i suoi sentimenti e chi, semplicemente, non ha troppa voglia di stazionare per ore sullo zerbino della signora Piera a farsi raccontare quotidianamente cosa c’era di buono al mercato.
Chi ha torto?
Chi ha ragione?
Nessuno. La gente funziona come vuole, per fortuna.

Sia nei rapporti interpersonali che nelle numerose opere di finzione cinematografico-letterarie in cui possiamo imbatterci, poi, quando qualcuno confessa di sentirsi solo si verifica sempre un certo cataclisma. Il “mi sento solo” è una specie di punto di svolta, o una giustificazione per tutti i comportamenti bizzarri ed estremi che abbiamo potuto osservare in passato. E il grido d’aiuto, per noi che guardiamo o per noi che ci troviamo davanti un amico che ce lo dice, è una sorta di schiaffo. È quasi peggio che sentirsi dire “sono triste”. Perché un “mi sento solo” ti consegna quasi una responsabilità – siamo qui insieme, ci conosciamo… e quindi anche tu hai contribuito, con la tua assenza o la tua noncuranza nei miei confronti, a questa situazione di solitudine che mi sta facendo patire.

Lasciando però perdere le solitudini “estreme” – quelle che ci scegliamo da soli (vedi eremo sui monti) o quelle che, in qualche modo, il resto del mondo ci impone – e rinunciando in partenza a tracciare una soglia di accettabilità della solitudine – perché che ne so, insomma, di qual è il grado di tolleranza altrui? – credo che una specie di “solitudine di fondo” non possa non esistere. Forse non è neanche una solitudine, è più una condizione che non possiamo scacciare perché ci appartiene e connota la nostra esistenza come esseri singoli – per quanto sociali.
È più un rimanere da soli con noi stessi – che sembra facile, visto che siamo le persone che conosciamo da più tempo, ma mica va sempre tutto bene.

Quanto ci vuole per imparare a sopportarsi? Un bel po’, forse.
Il procedimento è piacevole? Ma figuriamoci.
Sarà un successo assicurato? Macché.

Esempio concreto, che poi va a finire da qualche parte – prometto.

Quand’ero più piccola ero molto pessimista. Una specie di Giacomo Leopardi, ma senza nessun particolare talento letterario o guai fisici eccessivamente invalidanti, a parte un culo grosso come un camper – che non ero assolutamente pronta ad accettare e ancor meno sapevo amministrare. Comunque, le mie compagne di scuola trovavano assolutamente indispensabile avere SEMPRE un fidanzato. Ma anche se stavano con uno che le trattava di merda, per dire, loro dovevano per forza mollarlo solo quando erano certe di poter passare al successivo senza prendere una fregatura. Perché avere il fidanzato era comunque meglio.
Io ammiravo la loro abnegazione e, nonostante qualche ragazzo ce l’avessi avuto anch’io, mi sembrava comunque assurdo che non condividessero la mia tetrissima visione dell’universo: siamo soli, siamo tutti soli, la situazione standard è essere da soli, non avere il fidanzato. Il fidanzato è una specie di bonus, una parentesi temporale di lunghezza indefinita che si innesta come condizione “speciale” sulla normalità dell’essere soli.

Che allegria, eh?
Una gioia che neanche il Titanic che affonda.
Un raggio di sole in un mattino di maggio.
Secchielli di pulcini.

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Col passare del tempo mi sono un po’ ripigliata. E il “SIAMO SOLI SIAMO TUTTI SOLI” si è evoluto in qualcosa di meno drastico.
Continuo comunque a pensare che gli amori veri, le cose strabiliantissime della vita e i legami che ci cambiano per sempre siano roba distribuita tipo zucchero a velo sulla superficie del pianeta e che se ti va bene una spolverata te la prendi pure tu – ma non è detto che succeda e non è detto che ciascuno di noi finirà spolverato dalla gioia – ma, crescendo, mi è sembrato di aver ricevuto più spolverate nei momenti in cui me la sapevo cavare meglio anche per conto mio.
Quand’ero contenta ed ero capace di tollerarmi un po’ di più.
Quando facevo le cose pensando che l’importante era che funzionassero per me.
Quando non dovevo dimostrare niente perché per me era sufficiente così.
Le cose “giuste” succedevano quand’ero in pace. Quand’ero felice da sola, più o meno.

Potrebbe sembrare una strategia di abbassamento delle aspettative nei confronti dell’universo allo scopo di rimanerci meno male e di gestire le delusioni con un “massì, in fondo mica ci credevo davvero” – anche detto Teorema della Volpe e dell’Uva -, ma rimango convinta che la felicità non sia una responsabilità che possiamo appioppare a qualcun altro. Gli altri possono renderci più felici, possono farci scoprire modi diversi di essere felici, ma non sta a loro sobbarcarsi tutto il lavoro. Non è una faccenda delegabile, le fondamenta sono affar nostro.
È un po’ come mettersi a gridare “Nessuno mi capisce!”, quando non capisci neanche tu cos’è di preciso che gli altri dovrebbero capire.
E il capirsi, secondo me, è anche una questione di solitudine. Non esclusivamente – perché è anche grazie agli altri esseri umani che riusciamo a inquadrarci un po’ meglio e a vedere che ci succede quando ci accadono le cose più disparate -, ma molto di quello che impariamo deriva da come digeriamo quello che ci capita. Da quello che ci viene in mente quando ripensiamo a una scelta, a una sfiga, a un momento felice. Da come un problema o una soluzione diventa parte di noi. Perché, nonostante il sostegno che possiamo ricevere dagli altri se proprio siamo già stati molto fortunati o bravi a tenerci strette le persone che ci migliorano l’esistenza, la testa che appoggiamo sul cuscino, quando finisce la giornata, è comunque la nostra, indipendentemente da chi abbiamo di fianco – sempre che di fianco ci sia qualcuno. E i pensieri che ronzano quando chiudiamo gli occhi non sono gestibili da nessun altro. Sono nostri, siamo noi che ce la dobbiamo sbrigare.
Da soli.
E più siamo abituati a gestirci, a conoscerci, a non farci troppo schifo, a starci un po’ simpatici, a chiarire i nostri limiti, ad autocensurarci quando serve, a darci occasionalmente degli imbecilli e a riconoscerci dei meriti quando ci vuole, ecco, più siamo capaci di gestire questa roba – che è lo stare in compagnia di noi stessi, una forma inevitabile di solitudine – meglio ce la caveremo, credo.
E non è che non avremo mai più bisogno degli altri, ma ne avremo bisogno perché ci fanno più felici, non perché aspettiamo che ci definiscano o che ci mettano in mano una bussola per capire da che parte dobbiamo andare. Perché non è a loro che spetta deciderlo. Non sono loro che devono dirci come funzioniamo o come possiamo funzionare meglio.

E dopo tutto questo lavoraccio infame riceveremo necessariamente la nostra spolverata?
Non è detto, per niente.
Ma, anche se da soli e privi di zucchero a velo, rimarremo comunque in compagnia di qualcuno che abbiamo imparato – più o meno faticosamente – ad apprezzare. E non è una conquista da poco.

Una delle mie più longeve fissazioni è Cléo Ferin Mercury. Torno periodicamente sul sito per sincerarmi che la meraviglia sia ancora tutta lì e per scoprire quali nuovi animalini sono stati aggiunti alla collezione. Il brand è specializzato, infatti, in sciarpe di seta (e/o altri materiali altrettanto meritevoli) a forma di bestiole… con tanto di zampine e codine. La mia più recente passione è il giaguaro albino. Ma amo molto anche le maglie in seta e cotone con le maniche piene di felini. Per chi odia i gatti, comunque, ci sono cerbiatti, lupi, panda, roditori, bassotti e un intero serraglio.

small+jaguar+with+pink+snow+silk+scarf

White+Cat+Blouse+In+Black+-+Cat+Print+Top+-+Womens+-+Cotton-Silk+(flat)

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Ma addentriamoci ancor di più nel tunnel zoologico! Minna Parikka fabbrica ormai da anni delle scarpe da ginnastica provviste di orecchie da coniglio e codino poffosino. Ce ne sono di centomila tipi – inclusi i mocassini e gli anfibi -, ma sono dell’idea che, se decidi di comprarti un paio di sneakers da coniglio, il minimo che puoi fare è sceglierle glitterate e puntare alla massima assurdità.

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Mi sto invasando con Italian Stories. È una sorta di mappa/catalogo di workshop artigianalissimi, contro il logorio della vita moderna. Si può scegliere l’area geografica da raggiungere e il materiale con cui lavorare (vetro, ceramica, oro, lana e che ne so, CARAMELLE GOMMOSE)… e sfogliare le esperienze prenotabili in un sacco di laboratori artistici e artigiani. C’è di tutto. Crea il tuo timbro personalizzato! Crea un piccolo arazzo! Scolpisci una polena per il tuo vascello fantasma! La vita, veramente. I laboratori sono più o meno avventurosi, potrete fare il burro in malga o imparare la serigrafia in contesti urbanissimi. Dipende un po’ da voi. Io inizierei con il giro alla fattoria degli alpaca e il mini-corso sulla tintura della lana di queste bestie prodigiose che amo ormai da tempo immemore. Anche se l’ideale, devo dirlo, sarebbe imparare una cosa nuova tutte le settimane. Ci attrezzeremo.

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Ho scoperto che Soviet Visuals ha anche un negozio e ora voglio tutte le magliette del programma spaziale russo. Questa è quella dello Sputnik.

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Non so cosa facciate voi, ma io mi strucco con l’acqua micellare. Ieri ho fatto un giro all’eventone di Sephora per la presentazione delle novità natalizie – già, sono molto efficienti – e ho scoperto che FaceD ha inventato un’acqua micellare in spray. Il flacone è gigante – 200 ml – e l’acqua si spruzza direttamente in faccia. Rimuove anche le matitazze più nere e, in teoria, dovrebbe rendere più efficienti le operazioni, riducendo anche un po’ lo spreco – il dischettino di cotone non si berrà più i 3/4 del prodotto, per dire. C’è dentro anche un po’ di acido ialuronico, che male non fa mai.

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Minimum Fax, di questi tempi, sforna saggi molto interessanti. Il 12 ottobre esce La gente di Leonardo Bianchi, una specie di viaggio nel risentimento collettivo, un’indagine sull’indignazione e sulle sue derive – quasi sempre grottesche e completamente disgiunte da un qualsiasi principio di realtà. Una riflessione sulla rabbia perenne e sull’incapacità ormai conclamata di indirizzarla in maniera costruttiva.

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