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tegamini

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Buongiorno, colleghini! Anche questa mattina sono riuscita a presentarmi in ufficio! Non sono particolarmente in orario, ma sono sicura che la giornata ci riserverà soddisfazioni incalcolabili. Sarà bellissimo ed emozionante. Impareremo tante cose e diventeremo dei professionisti ancora più straordinari!
Ecco.
Quando arrivo, sono così:

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Quando me ne vado, invece, sono così:

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Cioè, c’è una bella differenza.
Nel tentativo di razionalizzare quello che succede tra Hermione super-felice-di-vivere e la gelida salma putrescente di Cedric Diggory, ho provato a schematizzare il flusso di eventi che – tipicamente – sconvolge la mia serenità durante l’orario lavorativo.
Bene?
Bene.

Il primo caffè mi mette sempre di discreto umore. Anche se fa schifo. Arzilla come un mocio intriso di vodka-lemon, apro il computer e mi preparo a leggere le trentadue mail che, non si sa perché, i personaggi più disparati hanno deciso di mandarmi nel cuore della notte. È come se i miei clienti non dormissero mai, ma non importa. Perché io, a quell’ora del mattino, sono ancora una roccia. E nulla potrà scalfirmi.

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Visto che i miei clienti sono numerosi, bellicosissimi e anche un po’ allergici alla punteggiatura, capire che cosa vogliono – IMMEDIATAMENTE – da me è sempre piuttosto impervio. Uno può anche provare a decifrare una mail, ma se è scritta in urdu c’è poco da fare.

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Molto spesso, rendendomi conto della pochezza delle mie capacità esegetiche – di fronte all’enormità delle altrui esigenze -, chiedo aiuto ai miei Account Manager… complicandomi immediatamente l’esistenza – e gettando anche loro in un mortale guazzabuglio di perplessità.

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Per non scivolare immediatamente nello spleen più devastante, decido di cominciare da quello che posso sicuramente capire: il mio calendar.

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L’idea, in linea teorica, è di apparire dove la mia presenza è richiesta (possibilmente in orario, di buon umore e piena di idee rivoluzionarie). Sembra facile, ma non è vero niente. Verso le 15, infatti, dovrò materializzarmi in tre posti contemporaneamente.

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Decido che il calendar è ROTTO e che, se proprio non si potrà fare a meno di me, qualcuno si prenderà la briga di chiamarmi con un megafono.

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A questo punto, non mi resta che afferrare la lavagna formato A3 – dove appunto la lista delle cose da fare – e dedicarmi alla richiesta più urgente. Visto che è tutto importantissimo e che ho solo due mani, procedo in ordine casuale.

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In compenso, però, i grafici hanno finito la post-produzione su un trilione di foto. E sono fichissime.

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Mentre tento di mangiare una merendina, il Cliente Y chiede imperiosamente di organizzare una CALL per ALLINEARCI sui NEXT STEPS del progetto, facendo riferimento al piano d’azione condiviso via mail il giorno prima. E tu, da brava formichina, fissi la CALL… anche se il tuo consiglio professionale sarebbe un altro: leggi la mail. È tutto scritto lì.

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Per rimettermi in pace col mondo, decido di parlare un po’ con la mia community preferita. Ho una pagina di gente felice. Qualsiasi cosa accada, loro sono contenti. Posti un ratto imbalsamato? AMORE. Posti la Pietà di Michelangelo? AMORONE. Adorano tutto, rispondono con gioia a qualsiasi CALL-TO-ACTION, non scrivono parolacce e continuano a dirmi che sono Gianni Morandi. VI AMO ANCH’IO, MALEDIZIONE. VI AMO ANCH’IO!

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Otto minuti dopo, mi ritrovo al supermercato con un pezzo di carta in mano. Devo acquistare un vasetto di senape di Digione, due etti e mezzo di mortadella, sei vaschette di lamponi, un ananas, alcuni branzini, del pepe nero in grani, un termosifone, un vaso mostarda mantovana e una quantità imponderabile di chicchi di caffè. Visto che è roba da fotografare per un cliente FOOD, tutto quello che compro deve necessariamente essere di una bellezza sconvolgente. Passo quindici minuti ad esaminare ogni singola zucchina del supermercato. E mi sembrano tutte mostruose.

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Mentre torno in agenzia – trascinando sul pavimento dodici chili di derrate alimentari e oggetti assurdi (pardon, PROPS) -, l’OFFICE MANAGER mi informa che la fattura della spesa – insieme allo SPLIT dettagliato dei costi sostenuti – dovrà arrivare sulla sua scrivania entro fine giornata, pena la decurtazione dallo stipendio.

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Mi risiedo. Perché è arrivato il momento di rispondere ai messaggi privati dei “blogger” bisognosi di cibo. “CIAO, SONO GIRELLONI ANNAMARIA. SONO MAMMA, BLOGGER E APPASIONATA DI CUCINA. HO UNA PAGINA DI RECENZIONI SU CUI PUBBLICO I PRODOTTI DELLE MARCHE CHE ME LI MANDANO. SONO TANTO SEGUITA. HO 470 FAN. PER ME SAREBBE BELLISSIMO SCRIVERE DEL VOSTRO PRODOTTO, CHE A MIO FIGLIO PIACE TANTO E ANCHE A MIO MARITO SAVERIO. ANCHE PER VOI È UNA GRANDE OCASIONE DI FARVI CONOSCERE E COMPRARE DA TUTTI I MIEI FAN. NELLA SPERANZA DI INSTAURARE CON VOI UNA PROFICUA COLLABORAZIONE, PORGO DISTINTI SALUTI. PS. PER L’INVIO DEI PRODOTTI IL MIO INDIRIZZO È GIRELLONI ANNAMARIA, VIA DELLA POMPA 34, 20879 CAPOCOLLO DI SOPRA. SE NON CI SIAMO, CITOFONARE BETTY”.

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Passa una persona a caso e mi rifila centosei cose da scrivere. Prendo forsennatamente appunti su pezzi di carta molto stropicciati, sapendo benissimo che fra un quarto d’ora avrò comunque dimenticato tutti i dettagli importanti.

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Dobbiamo correre in CONFERENCE ROOM. C’è un TRAINING!

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Molto bene, molto bene. È stato spassoso. Ho anche appreso delle SKILL preziosissime. E c’erano delle gif adorabili! …ma che ore sono? L’UNA E MEZZA? Ma come diavolo è potuto succedere! È tardi! E i dodici piani editoriali che dovevo mandare in approvazione stamattina? E i testi pazzi per la piattaforma? E la bozza di lettera per i vincitori del CONTEST? E il CHECK sui REWORK del Cliente W?

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Mentre scendo a comprare tre focaccine dal panettiere – per ridurre il grado di incertezza e aletorietà della giornata, compro sempre le stesse maledette focaccine: focaccina con zucchine, focaccina con le olive verdi e focaccina con le olive impastate -, dicevamo… mentre scendo a comprare le SANTO DIO di focaccine, telefono a mia madre, nella speranza che invada la città e annienti chi ci vuole male.

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Mentre attendo che MADRE maledica chi se lo merita, torno a sedermi alla mia coccolosissima scrivania – presidiata da un gruppo di peluche incredibilmente incoraggianti – per ingurgitare le focaccette e, FINALMENTE, leggere quattro pagine di libro senza prendere in considerazione quello che sta accadendo nella mia casella di posta. O intorno a me. O nell’universo.

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Seppur lontana, MADRE riesce effettivamente a farmi del bene. Il Cliente W ci informa che la proposta editoriale va bene e che possiamo felicemente passare alla fase di realizzazione dei VISUAL. L’intero TEAM festeggia e si commuove.

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KEYNOTE SI È CHIUSO INASPETTATAMENTE.

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La CARD non è sponsorizzabile: il testo supera il limite del 20%.

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Ragazzi! È arrivato il cliente! Mi raccomando, non facciamo figure del cazzo!

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I clienti, non si perché, cambiano personalità a seconda di dove li metti. Mentre li accompagni in sala riunioni – o in qualsiasi momento che richieda la posizione eretta -, i clienti sono simpatici e affabili. Ma appena si siedono finisce tutto.

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Quando sono in riunione con un cliente, dunque, devo impegnarmi molto. Faccio sempre del mio meglio per apparire normale, educata, innocua, saggia, composta e per nulla permalosa. Invano.

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I clienti, in presentazione, perdono anche la capacità di produrre espressioni facciali. Nel vano tentativo di decifrare il loro stato d’animo – e, di conseguenza, anche il grado di apprezzamento nei confronti del progetto su cui sudate da una settimana -, li osserverete chirurgicamente per l’intera durata del MEETING, annotandovi su un blocco robe di questo tipo: impercettibile sorriso alla slide 45 (in concomitanza con l’intervento aggiuntivo di Bruno. Bruno piace al cliente. INVITARE SEMPRE BRUNO ALLE PROSSIME RIUNIONI), naso arricciato alla slide 57 (è colpa del VISUAL? Non va bene il COPY? Non siamo stati abbastanza chiari? Qual è il colore preferito del cliente? MORIREMO TUTTI), starnuto alla slide 75 (organizzare la prossima riunione in una camera iperbarica. Il cliente è allergico alla polvere). Vi angustierete e li guarderete fisso. Ma riuscirete ad elaborare solo vaghe congetture.

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L’analisi approfondita delle reazioni del cliente vi farà perdere completamente il filo del discorso. Quando toccherà a voi presentare, dunque, il vostro Account Manager sarà costretto a sfondarvi una costola a gomitate. O a lanciarvi brutalmente nella mischia gridando una roba tipo E ORA FRANCESCA – RIPETO, FRANCESCA! – CI PARLERÀ DEL PIANO EDITORIALE. Sarà come risvegliarsi dal coma, sul fondo di una trincea.

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Sopravvissuta alla riunione, mi chiudo in uno stanzino e trascorro mezz’ora della mia vita a parlare con il Cliente Y. Cioè, il Cliente Y tace e io gli declamo – con tutte l’espressività di cui sono capace -, la famosa mail che potevano leggersi da soli.

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Sarà che il mio stile di lettura è particolarmente rassicurante, sarà che il piano d’azione minuziosamente illustrato dalla mail andava già bene, sarà che non lo so, ma il Cliente Y conclude finalmente la CALL con un pacioso “Thank you, Francesca. We can proceed”.

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Il Cliente Z, dopo un’interminabile serie di REWORK, ci manda finalmente il suo FEEDBACK sui NAMING che ci siamo inventati per il CONTEST che lanceremo in un futuro eccessivamente prossimo. Il FEEDBACK è il seguente: “Non sono in linea con il brand”.

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Il capo dice che, per il momento, non possiamo avere uno stagista.

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Per recuperare un po’ di fiducia nel karma, vado a chiacchierare un po’ con la mia seconda community preferita. Incredibile ma vero, sono presi bene – anche se è una pagina di roba da mangiare. Il cibo è sempre una gran rottura di palle. E c’è il burro. E c’è l’olio di palma. E ci sono i fan di Report che insultano qualsiasi genere d’ingrediente. E ci sono quelli con le intolleranze che postano la loro intera cartella clinica.

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La migliore, comunque, è la frangia vegana militante: giornate trascorse a bestemmiare sotto ai post di ogni singola pagina FOOD d’Italia – senza aver ancora capito che, scrivendo “SMETTETELA DI MUNGERE LE PORCO D** DI MUCCHE!”, il loro commento viene automaticamente nascosto. Per tutto il resto, tocca a me.

Ma questo, sulla mia seconda pagina preferita, non accade. Perché anche loro sono animati da un entusiasmo assolutamente incomprensibile. La più semplice delle CTA è in grado di scatenare migliaia di commenti… gente che scrive temi, in pratica. Con emoji cuoricine e dichiarazioni sperticate d’eterna fedeltà. SCRIVETE, DIAMINE! SCRIVETE! SCONFIGGIAMO GLI SBATTIMENTI CON LE PROTEINE NOBILI DELL’AMORE PURO!

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Nel frattempo, persone che non si sono prese la briga di leggere le istruzioni del gioco-aperitivo sulla pagina del Cliente Y, protestano a gran voce denunciando presunti brogli nel conteggio dei voti. Voti che, per la cronaca, io e la mia volenterosa collega abbiamo spulciato per intere mattinate, registrandoli in un infallibile foglio Excel di 5000 righe. Voti che, per la cronaca II, non comportano in alcun modo l’assegnazione di un premio. In poche parole, che ti frega. È una roba in amicizia, per divertirsi. Non v’agitate. Cosa sono queste manie di persecuzione? Perché qualsiasi cosa deve diventare un’orrida cospirazione?

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Arriva una mail. Non è per me, ma sono in copia. Visto che la mia adorata account è imbottigliata in un’altra riunione – e non si sa bene quando ne uscirà -, mi prendo la libertà di rispondere al cliente ipotizzando una soluzione al problema insormontabile che li affligge. Nonostante sia un’idea del tutto sensata, plausibile, ragionevole e realizzabile, cinque secondi dopo aver schiacciato INVIA mi viene il dubbio di aver devastato mesi e mesi di delicatissimi rapporti diplomatici.

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Mentre cerco di dissimulare la preoccupazione, il nostro Account Director mi informa che, la prossima settimana, ci arriverà un BRIEF di gara per un cliente potenzialmente divertente, carino e spassoso. Gli piacerebbe che ci lavorassi io, visto che gli sembra nelle mie corde. Tanto non sei messa malissimo, no?

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Ah, il BRIEF arriva lunedì. Ma si presenta mercoledì. Saranno tre giorni molto intensi, ma so che ce la farete. Comincia a fissare le riunioni.

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Il Cliente Y avrà anche una community adorabile, ma il “thank you Francesca, you may proceed” copre solo una parte infinitesimale delle menate che abbiamo in ballo. Dove sono i miei FEEDBACK sul restante 95% delle attività? …dopo un breve conciliabolo con la mia biondissima account – al solo scopo di stabilire chi ha inviato il sollecito l’ultima volta – scopriamo che tocca a me rompere i coglioni. “Dear Y, would you be so kind to let us know if the editorial proposal is approved? We really need to brief Lady Gaga and Jon Bon Jovi, if we wish to meet the deadline and go online as planned. Many thanks, Francesca”. E spicciatevi, santo il cielo.

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Un collega viene trasformato in un meme. L’agenzia attraversa sette minuti di travolgente euforia.

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Ci sono un sacco di messaggi privati. Ma sono tutti complimenti ed emojine sorridentine.

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Passa una persona a caso e, con una certa preoccupazione, ci domanda se conosciamo qualche piatto tipico islandese.

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Mi rendo drammaticamente conto di aver dimenticato di comprare le radici di tapioca. Niente radici di tapioca, niente SHOOTING. Visto che ho già restituito i soldi – e le diamine di fatture -, sono costretta a chiedere un nuovo anticipo in contanti per la tapioca di stocazzo. Non so nemmeno che aspetto abbia, la tapioca.

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Sono le 18.30. Dovrei procurarmi del cibo (non del cibo da fotografare. Proprio cibo da mangiare. A casa mia), fare il bucato, annaffiare le piante, coccolare il gatto e depilarmi le gambe. In sintesi, vorrei andarmene. Ma non posso.

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Ah! Sai la gara di cui ti parlavo poco fa? Ecco, è un problema se mercoledì presenti tu? L’editor ha già un altro MEETING, quel giorno lì.

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Non si sa come, ma riesco a finire il piano editoriale mensile del Cliente W. I grafici hanno consegnato tutte le CARD, ho scritto tutti i COPY, la mia efficientissima account è pronta a programmare e sponsorizzare forsennatamente ogni post dell’universo. Siamo in orario. Siamo fantastiche. Siamo le regine dell’ENGAGEMENT. Possiamo mandare in approvazione al cliente.

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BASTA SFRUTTARE LE API DIO C***!

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Persone che non sento da circa dieci anni – e che, anche dieci anni fa, non è che mi stessero granché simpatiche – mi scrivono messaggi privati su Facebook, ricordandomi i bei tempi andati e appellandosi al valore della nostra antichissima e corroborante amicizia. Dopo papiri interminabili in cui mi descrivono le loro ambizioni e i loro sogni, mi girano il loro CV (in formato europeo) – pregandomi di inoltrarlo immediatamente alle risorse umane.

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Matteo mette le Spice Girls a bomba.

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La mia colleghina è costretta a risistemare per la quattordicesima volta un piano MEDIA.

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Il Cliente Z telefona (senza prima aver fissato una CALL) per informarci che tutta l’attività pianificata per il mese di ottobre – e già approvata – va ripensata. “Ci dispiace. Abbiamo cambiato idea”.

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…anzi, no.

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E arrivederci a domani.

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Le vacanze sono finite. È arrivato il momento di farsene una ragione. Sono tornata a Milano ormai da due settimane. E il mio profilo Instagram si sta decisamente ammosciando. Per quattordici giorni – felicemente trascorsi in Sicilia – ho deliziato la mia coriacea “fanbase” con orizzonti marini, piatti di ravioli di cernia, viuzze romantiche, chiese barocche, birrette in spiaggia, tramonti di rara arroganza, dune sabbiose, crostacei, teatri di pietra, fichissimi fichi d’India, terrazzini baciati dal sole, altari stracarichi, centrini di pizzo, luce naturale, onde cristalline, racchettoni e parei svolazzanti. Tutti i miei scatti vacanzieri sono stati accolti con un calore assolutamente inedito. Cuorini a profusione, nuovi follower come se non ci fosse un domani, emoji gioiosissime e commenti incoraggianti. Se avessi improvvisamente deciso di fotografarmi le tette, avrei sicuramente riscosso meno successo. Pur continuando a non capire bene che cosa diamine sia capitato, l’involontario esperimento comparativo mi ha insegnato un sacco di roba importantissima sull’utilizzo feriale di Instagram.
Parliamone.
E che qualcuno prenda appunti, per carità.

Dovete scegliere la meta delle vacanze? Molto bene. Restate sempre in Italia. Del patriottismo, chiaramente, non c’è da curarsi. Mica siamo sottosegretari al turismo. È alla connettività che dobbiamo pensare. Chiaro, quando ci troviamo in una meta esotica, il wi-fi dell’albergo è sempre una buona soluzione… ma è comunque piuttosto disagevole. Ovvio, mica è fondamentale che TUTTO quello che postate su Instagram sia live. Ma, una volta tornati in camera, non potrete fare a meno di chiudervi in bagno – fingendo di dover fare la cacca -, per aggiornare il vostro profilo con le migliori foto della giornata. Presi dall’ansia di non poterle mai più caricare, ne butterete su centodue, ma senza un briciolo di gioia. Anzi, v’incazzerete pure. Il tempo che state sprecando attaccati al wi-fi, infatti, potrebbe essere splendidamente buttato alle ortiche in altro modo. In giro, ad esempio. A fare altre centodue foto indimenticabili.
Avete comunque optato per una meta lontana? Molto bene. C’è solo una cosa che dovete sapere: tutte le reti libere che trovate per strada sono delle stampanti.

Le persone vogliono la natura, l’orizzonte e il mare. Cieli pieni di nuvole che sovrastano strabilianti coste rocciose o imponenti picchi montani. Alla gente piacciono i paesaggi. Ma nei vostri paesaggi – tanto amati dalla gente – non ci deve essere altra gente. Se potete, quindi, evitate di andare in vacanza la settimana di Ferragosto. Fotografare una spiaggia deserta la settimana di Ferragosto è pressoché impossibile. Ci sono le signore con le teglie di melanzane fritte, i bambini che scavano voragini, i tipi che giocano coi racchettoni nella speranza di attirare un po’ di figa e i papà che gonfiano braccioli. A Instagram non piace l’umanità. Su Instagram funzionano le piazze deserte, le strade vuote, le coste disabitate, l’acqua limpidissima piena di riverberini e i nuvoloni burrascosi. Se proprio non vi danno ferie in un altro momento, puntate sul tramonto. La gente si leva dalle palle e, se il telefono non vi svirgola completamente le luci, rimedierete anche un glorioso gioco di colori che si riflettono sul mare. Sciambola!

Se mai vi venisse in mente di farvi una foto in costume da bagno, premuratevi di sdrammatizzare. Non avete il culo di marmo di Megan Fox, ma qualcuno potrebbe sempre accusarvi di volervela tirare. A Instagram non piace la gente che se la tira. Volete fare le fatalone? Verrete spernacchiate senza pietà. Difendete le vostre velleità da fashion blogger con una caption piena di giocosa autocommiserazione, tipo “Burrito on the beach”.

Il cibo è molto importante. Le persone, di base, si prendono bene con la roba da mangiare e sembrano interessatissime alla vostra dieta vacanziera. Più un alimento è pesante, indigeribile, grasso, fritto e MAIALOSO, più verrà apprezzato. Il problema, molto spesso, è la presentazione del piatto. Vi ingozzerete con quantità industriali di roba che, purtroppo, non è abbastanza bella per finire su Instagram. Potreste rinunciare a postarla o, presi dal panico, vi sentirete in dovere di ordinare un dolce – dopo aver ispezionato l’apposita vetrinetta refrigerata – solo per produrre un contenuto che documenti la meraviglia della vostra cena. Lo avanzerete dopo due forchettate, ma vi sentirete meno agitati.
Un’altra cosa a cui dovrete badare, andando a mangiare fuori, è la luce. D’estate è molto più piacevole sedersi all’aperto, ma l’illuminazione spesso insufficiente di cortiletti, pergolati e DEOR devasterà la vostre fotografie, trasformandole in un papocchio inutilizzabile e sfocato. Vedete voi: è più importante alimentarvi con quantità invereconde di specialità locali – in pace e serenità – o vantarvene su Instagram? CIOÈ.
Altro aspetto da non sottovalutare, in caso la cena offenda sia l’occhio che il palato, è IL POSTO. Nel dubbio, scegliete un ristorante fotogenico e bizzarro. Non fate i milanesi. Non andate a infrattarvi in uno di quei posti minimalisti, coi mattoni a vista e l’aria da spazio industriale dismesso. Instagram ama il rustico – ah, il fascino popolare della trattoria coi piatti sbeccati! – o i ristoranti che somigliano a un caffè viennese stracarico di carabattole di vostra nonna. Magari mangerete di merda, ma una foto super cuoriciabile ve la porterete a casa. Vittoria!

Instagram, nel periodo estivo, non tollera la pigrizia. Andatevi a cercare delle cose pazze da fare. E presentate ogni attività come una chicca nascosta del posto che state visitando. La gente è stufa del mainstream. La gente vuole il backstage, quello che non si trova sulla guida. Fate finta di vivere lì da cent’anni e non dedicatevi a nulla di normale. Infilatevi nei vicoli. Visitate botteghe dimenticate da Dio. Cercate i pazzi del paese. Buttatevi da una scogliera che nessuno ha ancora scoperto. Rincorrete i gechi. Fate parapendio con una testa di cavallo di plastica sulla testa. Rubate una fisarmonica. Arrampicatevi sulle piante e frugate nei nidi degli uccelli. Scovate animali rari e misteriosi. E raccontatela con allegra noncuranza – cioè, siete speciali… è ovvio che anche le vostre foto siano speciali. Perché Instagram non ne può più di piedi nella sabbia. Instagram vuole il kraken che emerge dalle acque, stringendo un capodoglio agonizzante in ogni tentacolo.

Vi siete dedicati al paesaggio, al FOOD e al FUN, ma non potete assolutamente tralasciare l’arte. L’ultimo libro che avete letto era per i compiti estivi della terza media? A teatro v’addormentate? Fate le scoregge con l’ascella e vi sentite dei musicisti? La calzamaglia bianca di Roberto Bolle vi fa ridere fragorosamente? Non importa. Capire è secondario. Quello che conta è il gesto. La gente ama genericamente IL BELLO – perlustrate dunque i siti archeologici più disparati, correte in tutte le chiese, piantonate le botteghe degli artigiani, schieratevi alla festa del patrono, rompete i coglioni con persiane romanticamente scrostate e sorbitevi almeno una mostra (non importa quanto irrilevante) – o, se proprio non trovate niente esteticamente piacevole da immortalare, sappiate che la gente ama anche lo strambo – basta che sia incredibilmente TIPICO. Il compromesso d’oro tra le due categorie è la street-art. Avventatevi sui murales – trovando il modo di trasformarli in un imperdibile scorcio urbano – e dannatevi l’anima dietro a stencil, poster strappati e adesivi appiccicati sui semafori.

Siete in vacanza in compagnia? Applaudite gli amici che vi abbandonano per ore intere salutandovi con “andiamo a fare le foto”. Siete tornati a casa dopo un lungo periodo di latitanza? Costringete vostra nonna a posare con voi. La nostalgia per la casa natia e i selfie pieni di affetto per i parenti lontani – più vecchi sono, meglio è – vanno un casino quest’anno.

Soprattutto, però, Instagram ama i SHOGNI. La gente vuole vedervi in barca. La gente vuole le piscine a sfioro, i cocktail giganti, gli attici pieni di luce e i roof-bar. Le spiagge coi lettini a baldacchino e gli ombrelloni con le foglie di palma. I party in spiaggia con le fiaccole fiammeggianti. Siete ricchi? Non c’è problema. Non siete ricchi? Appellatevi al magico potere delle piccole cose. Devastate i vostri follower con la dolcezza infinita delle mini-gioie quotidiane. La poesia del viaggio. Il gusto per i dettagli nascosti. I gatti randagi macilenti che sonnecchiano in uno spicchio di sole. Un fiore caparbio che cresce in mezzo a una pietraia battuta dalle intemperie. Un castello di sabbia. Un sassolino colorato. Fate finta di disprezzare i resort balinesi a mille stelle, prendete la cartaccia di un Liuk e spacciatela per un prezioso origami. Avvicinatevi alle stronzate più insignificanti con il rispetto e la commozione che riservereste alla lacrima iridescente di un unicorno. La gente di Instagram capirà. Perché la gente, d’estate, è più sensibile.

Cuori a voi, dunque.
Trovate un last-minute e fateci vedere chi siete.
Andate… e fotografate.
Sarà un luminoso successo.
…è il ritorno, che crea problemi.

 

 

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MADRE, non si sa perché, non capisce le vacanze. Ami viaggiare? Ti piace visitare posti nuovi? Non vedi l’ora di passare del tempo lontano da casa – a scopo ludico-ricreativo? MADRE ti disapproverà. Non so che cosa le impedisca di intuire le innumerevoli ricadute positive che il viaggio può produrre sullo spirito umano, ma siamo messi così. Una persona che va in giro, per MADRE, è una persona che perde tempo, una persona frivola, superficiale e poco incline a comprendere il senso più autentico della vita. Perché la vita è sofferenza, sacrificio e stridore di denti. Allo stesso tempo, però, MADRE è in grado di esprimere dei desideri. Ad esempio, sono circa quindici anni che proclama di voler visitare la città di Perugia. Perugia, mica la Guyana Francese. C’è gente del West Virginia che prende l’aereo e attraversa appositamente un oceano per vedere Perugia. MADRE abita a Piacenza ed è pure in pensione, ma non ha ancora trovato il modo di raggiungere l’Umbria. Le ho chiesto se voleva che le prenotassi un albergo. Le ho chiesto se potevo guardarle i treni o stamparle un sapiente itinerario con le mappe di Google. Niente da fare. Eh… vediamo. Non adesso. C’è brutto tempo. Il papà non è molto in forma. Ho il fuoco di Sant’Antonio. Zero, non ci si riesce. È una roba che mi manda al manicomio. In fondo, però, credo che a MADRE vada bene così. Anzi, la faccenda di Perugia fa di lei un esempio di autentica abnegazione. “Ma hai visto quei due là? Sono sempre a spasso. Beati loro che hanno del tempo da perdere, guarda. Pensa che io non ho mai visto neanche Perugia!”. A quel punto, MADRE si aspetta di ricevere dei complimenti per la morigeratezza e la modestia che la contraddistinguono. E se proprio non vi viene da congratularvi, il minimo che potete fare è insultare insieme a lei tutte quelle persone che, invece, amano vagare per borghi, paeselli e remoti continenti in pace e tranquillità. Lo so, credetemi. A livello teorico, è un ragionamento che non ha alcun senso. In pratica, è il primo caso di Sindrome di Stoccolma auto-inflitta.
Comunque.
Il fatto che i miei genitori siano così poco inclini a spostarsi mi fa molto comodo. Perché, d’estate, so a chi lasciare il gatto. Sono ormai tre anni che Ottone von Accidenti va in ferie in campagna, dai nonni. MADRE, pur detestando le vacanze, non vede l’ora che io parta. E non perché viaggiare è bello, emozionante, istruttivo e interessante. Macché, MADRE mica è contenta per me. MADRE vuole che mi levi dai coglioni perché le piace tenere il gatto e informarmi, periodicamente, di quanto Ottone sia più felice lì con lei che a casa nostra. A me, di base, basterebbe sapere che è vivo e in buona salute, ma MADRE è convinta di dover fare di più. Oltre ad attribuire al gatto una vita interiore degna di William Blake, MADRE sente il bisogno di educare Ottone. Cerca a tutti i costi di dimostrare che il mio gatto è un genio e che, grazie ai suoi impareggiabili sforzi pedagogici, riesce finalmente a fare un casino di cose che, normalmente, non gli passerebbero neanche per l’anticamera del cervello. Le gloriose gesta che MADRE interpreta come miracoli, ovviamente, fanno parte delle dimostrazioni di follia-standard che ogni gatto regala giornalmente al suo padrone, ma non c’è verso di convincerla. Anzi, quando glielo facciamo timidamente notare, parte la sfida. Siamo noi che non gli dedichiamo abbastanza attenzioni. Siamo noi che non stimoliamo nella maniera più corretta la sua creatività. Siamo noi che non gli compriamo le tempere per fargli dipingere tramonti e paesaggi mozzafiato. Ah, che paesaggi vuoi che veda, poi, lì a Milano? Qua è tutta un’altra cosa. E il pelo? Quando è qui è molto più lucido. Bisogna spazzolarli, i gatti. Mica come fate voi.
I documenti fotografici che riceviamo dalla campagna, poi, non fanno che confermare i progressi di Ottone von Accidenti.

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Ottone von Keplero, dopo una proficua sessione di osservazioni astronomiche, si allontana dal telescopio per elaborare la Teoria Generale del Tutto.
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Ottone von Hugh Grant impara ad utilizzare l’ombrello come un vero gentiluomo.
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Ottone von Messner si avventura coraggiosamente in territori inesplorati, pronto a portare la civiltà là dove nessun gatto si è mai spinto prima. La tizia col maglione di Babbo Natale è, ovviamente, MADRE. O Vasco De Gama.
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Ottone von Cartografo, ignaro di avere le zampe cortissime, perlustra un fazzoletto di terra remoto ed impervio allo scopo di mapparlo con certosina precisione. Anche se è un gatto siberiano.

 

C’è chi sta peggio, comunque. Quest’anno, per dire, siamo andati in vacanza con il nostro amico Lorenzo. Lorenzo, da circa tredici anni, vive con Chicco. Chicco è un gigantesco norvegese delle foreste, bellissimo e incredibilmente irascibile. Chicco tollera solo Lorenzo, mangia come un frantoio, detesta essere disturbato e si butta a pancia per aria al solo scopo di artigliare le mani ai pochi incauti che ancora non lo conoscono bene. Lorenzo, come noi, ha fiduciosamente portato il gatto dai nonni. Al contrario di Ottone, però, Chicco non ha reagito granché bene al trasferimento. Oltre a cagarsi addosso nel trasportino, infatti, ha passato due giorni e mezzo ad ansimare come un mantice, nutrendosi esclusivamente dei brandelli di carne che riusciva a strappare dalle caviglie dei padroni di casa. La mamma di Lorenzo, tanto per farlo partire sereno, ha concluso l’opera con un commento da manuale: “Vai pure, ci mancherebbe… spero soltanto che il gatto non muoia di dolore”. La cosa interessante, però, è quello che è accaduto dopo. Mentre MADRE, nonostante le menate già abbondantemente descritte poco fa, mi illustrava vicende plausibili – Ottone ha preso un grillo! Ottone ha rotto una bottiglia! Ottone ci corre sulla pancia nel cuore della notte! -, la mamma di Lorenzo ha praticamente inventato un altro gatto. Da immane palla di pelo indemoniata, Chicco si è trasformato in un soave soprammobile da salotto. Tanto per cominciare, è diventato una femmina. Chicca sta molto bene. Segue tuo padre da tutte le parti. Corre da noi appena la chiamiamo. Sta in braccio e salta su e giù tutto il giorno. Ed è diventata BELLISSIMA… santo cielo, è così affettuosa!
Lorenzo, ad un certo punto, era convinto che Chicco fosse morto e che, per non farlo preoccupare, sua madre si fosse messa a raccontargli un mucchio di panzane rassicuranti e felici, finendo per peggiorare la situazione. Io, nel frattempo, ascoltavo il quotidiano – e dettagliatissimo – resoconto delle prodezze di Ottone von Villeggiante. Ha mangiato quasi tutte le crocchette! Ha cercato di catturare un calabrone, ma l’abbiamo salvato in tempo! Ha dormito sulla panchetta, nella vasca da bagno, sul tavolo fuori e sul comodino di tuo padre. Ha portato Paperella nella doccia. Ha raspato la porta. Ha miagolato nove volte in mezzo al salotto. Gli abbiamo dato l’umido alle 22 e 24. Ha giocato col topino del tiragraffi.
Quel che è peggio, come al solito, è che non possiamo lamentarci. Perché, innegabilmente, ci hanno fatto un favore. Nonostante adori prendere il gatto in ostaggio per due settimane, però, MADRE – la mia, almeno – farà sempre passare l’impresa come una dolorosa incombenza, offendendosi a morte ogni volta che ci viene in mente di contestare i suoi metodi – soprattutto quando le si fa notare che, forse, il regalo più grande che si può fare a un gatto è lasciarlo in pace per cinque minuti. E anche che, magari, quando si tratta di un gatto che vive con te da tre anni, ne sai un po’ più tu di lei. Ogni argomentazione, comunque, crollerà miseramente di fronte a una lucida e saldissima muraglia d’irrazionalità. Perché, qualunque cosa tenterete di spiegare a MADRE, lei risponderà sempre allo stesso modo: Sai cosa ti dico? La prossima volta il gatto te lo curi tu, visto che sei così brava. Anzi, fai come tua madre e stai a casa, che è meglio.

Ciao, sono Gallina. Volevo finire di scrivere il mio articolo molto prima, ma ho avuto delle difficoltà con la tastiera. Non capivo bene se dovevo usare le zampe o le ali, per schiacciare i bottoni. Nel dubbio, ho usato il becco, ma è stato complicato e ci ho messo una vita a correggere tutti gli errori. Mi è anche venuto un mal di testa terribile. Forse non sono portata, per questa storia dei reportage. Che ne so io. Sono un animale da cortile. E Tegamini non ha voluto che le dettassi niente. Ti ho già fatto le foto, Gallina, non posso mica scriverti anche il post. Che cos’è un post? Perché si chiama così? Non c’era un nome più ruspante? Mi fa ridere anche REPORTAGE, ma mi hanno spiegato che quando un articolo ha dentro tante immagini conviene dire che è un REPORTAGE. Lo fa diventare più importante. Ci ho messo un’ora a scrivere “reportage” tutto maiuscolo. Poi ho scoperto che bastava tenere schiacciato un bottone grosso che c’è qui a lato. Ero così arrabbiata che ho fatto tre uova. Già sode.
Comunque.
Sono la gallina che vive al negozio Ikea di via Vigevano. Siamo in due. Ma io mi chiamo Gallina. E il negozio non è un negozio. È un temporary store. Mi hanno spiegato che quando un negozio non ha dentro tanta roba ma serve a far vedere che un’azienda è molto creativa e al passo coi tempi bisogna dire che è un temporary store. Io non sono svedese, ma sono stati carini con me. Trasferirmi in città era il mio sogno, anche se adesso tutti dicono che è più bella la campagna e che per essere felici bisogna aprire un agriturismo. Sarà. A me, però, non interessa. Perché sono una gallina.
Un paio di settimane fa, Tegamini è venuta a trovarmi al temporary store di via Vigevano e abbiamo fatto amicizia. C’erano dei bambini svedesi che preparavano da mangiare e delle persone che parlavano di giocattoli. Mi hanno spiegato che, quando succedono queste cose, bisogna anche dire l’hashtag della serata. L’hashtag era #YESTOPLAY. Che cos’è un hashtag? Tegamini non me l’ha detto. In compenso, però, mi ha portata a spasso.
Questo qua è il mio reportage. In foto vengo davvero bene. Tegamini mi ha detto che potevo cambiare un po’ il colore delle immagini. Con i filtri. Ho messo dei filtri molto colorati, perché quando una cosa è molto colorata vuol dire che è anche più allegra delle altre.
Tutta questa introduzione forse non serviva, ma l’ho fatta lo stesso.
Ecco qua le foto che abbiamo fatto io e Tegamini.

 

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Questa sono io con Canino. Canino è arancione e le persone lo usano per metterci dentro la roba da mangiare. Canino non capisce perché, ma ubbidisce perché è un bravo cane. Foto di Tegamini.

 

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Mangiare la frutta è importante, soprattutto nei mesi caldi. Questa sono io con un cesto di frutta svedese. Che bontà. Foto di Tegamini.

 

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Razzolare in un giardino ben curato è molto piacevole. I miei fiori preferiti sono le margherite. Questa sono io con un vaso di margherite. Foto di Tegamini.

 

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Non ho capito tanto bene che cosa c’è nel piatto, ma tutti mi hanno fatto un sacco di complimenti. Questa sono io che ci penso su. Foto di Tegamini.

 

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Andare per funghi è molto divertente. Non so se i funghi sono una verdura, ma immagino di sì. Le cose che crescono per terra sono verdura. Questa sono io con un cestino di porcini. Qualcuno sa come cucinarli? Vorrei conquistare Gallo con una ricetta speciale. Foto di Tegamini.

 

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Questa sono io con Gallo. Credo di amarlo. Faremo dei pulcini stupendi. Spero che diventino alti come lui. Foto di Tegamini.

 

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Questa sono io che mi preparo per fare la doccia. Tenere pulita la cresta e le piume è fondamentale. Voi usate il balsamo? Foto di Tegamini.

 

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Ogni tanto mi sento dispettosa. E se bucassi un palloncino? A che cosa servono i palloncini? A noi galline piacciono solo le cose utili. Foto di Tegamini – che mi ha impedito di bucare i palloncini. A lei le cose utili non piacciono mai.

 

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Non sono ancora una cuoca bravissima, ma mi impegno tanto. Cosa non si fa per amore di Gallo? Foto di Tegamini.

 

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Usare il computer è un po’ complicato, ma sto imparando moltissime cose nuove. Questa sono io che progetto un nuovo pollaio. Quando avrò dei pulcini, voglio che vivano in un bel pollaio comodo. Mi hanno anche detto che è importante che sia LUMINOSO. Le persone amano le case LUMINOSE. Anche il mio pollaio sarà così. Foto di Tegamini.

 

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Coltivare da soli le proprie granaglie è molto gratificante. E si risparmiano tanti soldi. Volete mettere la soddisfazione, poi? Questa sono io vicino alle mie piante. Devo ricordarmi di innaffiarle più spesso. Con questo caldo potrebbero seccare. Foto di Tegamini.

 

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Vorrei tanto che un artista mi facesse il ritratto. Ho un proprio un profilo nobile. Foto di Tegamini.

 

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Ho scoperto che cos’è l’aperitivo. È un’usanza simpatica. Purtroppo, però, il vino non mi fa bene. Mi fa perdere l’equilibro e mi confondo. Mi hanno detto che si possono chiedere anche delle bevande alla frutta. Mi sembra una soluzione intelligente. Basta dire ANALCOLICO e ti portano delle cose che non ti fanno rotolare per terra. Foto di Tegamini.

 

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Questa sono io che imparo ad andare in bicicletta. Non è stato molto facile perché ho le zampe un po’ corte, ma è stato un vero spasso. Vorrei un campanello più rumoroso, però. Foto di Tegamini.

 

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Pedalare fa venire molta fame. Questa sono io con del cibo un po’ strano che hanno cucinato dei bambini svedesi. Gli svedesi fanno lavorare i bambini sin da piccoli. Mi sembra una buona idea. Così stanno fuori dai guai e imparano a cavarsela da soli, una volta usciti dal nido. Foto di Tegamini.

 

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Vivo in Via Vigevano da tanto tempo, ma non mi ero mai tuffata nella piscina delle palline. È stato veramente bellissimo. Se anche voi siete delle galline, buttatevi quando c’è poca gente e fate attenzione a non sprofondare. Potreste spezzarvi un’ala. Nessuno lo sa, ma ho fatto anche un uovo. Chissà se riusciranno a trovarlo. Foto di Tegamini.

 

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Visto che siamo state così bene insieme, abbiamo deciso di concludere la serata con una foto ricordo. Questa sono io con Tegamini. Lei non è fotogenica come me, ma non diteglielo. Non voglio che ci rimanga male. Foto di Manuela Rossi. Anzi, foto di @manurossi.

 

Spero tanto di essere stata abbastanza brava.
Coccodè.
W Gallo.
Grazie per aver letto il mio reportage.

Con affetto,

Gallina

 

 

Siamo arrivati a quel momento dell’anno in cui la gente si chiede che cosa leggere durante le vacanze. La cosa divertente, però, è che tutti pensiamo ancora all’estate come se fossimo alle superiori. DUE MESI! Ho bisogno di almeno CENTO libri da mettere in valigia! Leggerò la Recherche in francese, dalla prima all’ultima pagina! La verità, purtroppo, è che le nostre sontuose vacanze non sono più delle vacanze. Sono delle pulciose ferie. E durano due settimane, un lasso di tempo decisamente troppo breve per portare a termine i faraonici progetti di lettura che la nostra psiche, contro ogni evidenza empirica, continua ad associare ai mesi più caldi e tecnicamente spensierati dell’anno. Pur invitandovi ad accettare la crudele realtà, non posso fare a meno di unirmi al carrozzone dei “consigli di lettura sotto l’ombrellone”, esortandovi – con tutte le energie che l’afa mi permette di sprigionare – a comprare Auro Ponchielli contro la fine del mondo di Alessandro Pozzetti, pubblicato da NN edizioni – nati da poco e, proprio per questo motivo, decisamente incoscienti… ma sempre più degni d’amore.

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Quanto sono belle, le copertine di NN?
Comunque.
Ci sono tanti libri, là fuori, che provano – invano – a farci ridere. Auro Ponchielli ci riesce. Ma più o meno ogni otto righe. Io non sono una che ride facilmente, quando legge qualcosa. Tanto per farvi capire, sono la classica persona che rimane impassibile mentre risponde a un messaggio utilizzando decine di emoji incredibilmente sorridenti. O che scrive HAHAHAHAHA senza fare una piega. Anzi, mi acciglio pure un po’, perché sono consapevole dell’imperdonabile contraddizione generata dalla mia faccia di legno e mi sento automaticamente in colpa, come se stessi raccontando una bugia colossale. Ma questo non ci interessa granché. Quello che vi serve sapere, invece, è che questo libro – non si sa come – è riuscito a produrre un miracolo in stile Ammaniti. L’Ammaniti cazzaro, che se lo leggi in pubblico fai anche delle figure da imbecille perché sghignazzi fortissimo e ci piazzi pure qualche grugnito. Perbacco, Tegamini, che paragone azzardato! Attaccatevi al tram, a me ha fatto quell’effetto lì… anche se non ho idea di chi sia questo Alessandro Pozzetti. La storia, alla luce di tutto ciò, non è particolarmente importante. O meglio, è importante il fatto che sia molto ben costruita. Ci sono tanti personaggi – appena scappati da Arkham, in pratica -, che si muovono in un bellissimo presente frantumato. Ogni pezzetto contribuisce a far procedere la trama, in un saggissimo salta di qua-salta di là che ti fa venire voglia di continuare a leggere, sopprimendo l’irresistibile e sacrosanto bisogno di chiamare il 118.
Ma che roba è, però? Visto che non c’è modo di riassumere la storia senza rovinarvi il surreale gusto della lettura, dirò delle cose a casaccio sui personaggi. Il capitano di questo libro è un trentottenne sfigato – afflitto da stitichezza cronica – che, immischiandosi in qualcosa di molto più grande di lui, riesce a salvare il mondo e a sentirsi un po’ meno un caso umano. Il suo migliore amico è un tizio che si guadagna da vivere interpretando Gesù. Il suo capo è un maniaco megalomane che sella la moglie e la mette a quattro zampe su un prato d’erba sintetica, if you know what I mean. Il suo amico invisibile è Clint Eastwood. E la sua fidanzata è una tizia spigolosissima con dei capezzoli insolitamente mobili. Nel libro ci sono anche Zanna, conduttore radiofonico dall’inspiegabile carica erotica, il Papa – per la prima volta nello spazio -, Niki Lauda, uno spirito vendicatore, Adriano Celentano – nelle vesti di un supercomputer senziente -, un settore ultrasegreto del governo degli Stati Uniti, svariati milioni di vecchi tabagisti con strabilianti capacità digestive, un attore mancato, Rino Tommasi che si trasforma in un pesce, Bud Spencer, una Delorean, una hippy decrepita piena di propositi rivoluzionari, un congegno capace di materializzarvi davanti tutto quello che volete, una stirpe aliena alla deriva, una scimmia che parla e una pornostar con la sindrome di Stoccolma.
Insomma, una casino di proporzioni epiche.
Come faccia il Pozzetti a far funzionare una tale accozzaglia di assurdità – riuscendo anche a spiegarci perché i vecchi guardano i lavori in corso – lo lascio scoprire a voi… anche se le vostre ferie saranno probabilmente uno schifo.
In alto i pinguini!
Lunga vita ai cantieri!
Potere alla pizza quattro formaggi!
Chi non ride è un pubblicitario sadico!
😀

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Diciamolo. Gli animali ti guardano è una rubrica bellissima. Anzi, è la rubrica (senza alcun genere di pretesa scientifica) che ha sconvolto il web e la zoologia tutta. Non si sa perché, ma si sta riempiendo di pennuti. Dopo la sconfinata stupidità della sula dai piedi azzurri e la sorprendente espressività del becco a scarpa, oggi ci dedicheremo a una creatura imprevedibile, iraconda e intelligentissima. Parleremo di una bestia che potrebbe sbudellarvi, cavarvi gli occhi e sfondarvi lo sterno in sei secondi netti, lasciandovi orbi ed esanimi sul terreno insanguinato. Oggi narreremo le gesta del casuario, l’unico uccello temuto da Stalin, Boba Fett, Megatron e pure da mia MADRE.

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Il casuario è una bestia in via d’estinzione che abita in Australia – patria di tutti gli animali strambi e potenzialmente letali. Dopo lo struzzo e l’emù, è il terzo uccello più grande del mondo. Le femmine possono arrivare a un metro e ottanta di altezza e sono più voluminose e colorate dei maschi. Grazie al cielo, il casuario non sa volare. Ma è in grado di inghiottire pompelmi interi senza battere ciglio.

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Oltre alle lacrime dei loro nemici – e ai pompelmi giganti -, i casuari si nutrono di frutta, semi, funghi, invertebrati e piccoli vertebrati. Possono correre a una velocità di cinquanta chilometri orari, sono ottimi nuotatori, saltano come degli ossessi e sono ricoperti di roba affilata. Dove dovrebbero esserci le ali, il casuario ha dei moncherini fatti di scaglie corazzate di cheratina. Sulla testa ha una specie di cresta ossea grossa come una vanga e, sul secondo dito degli zamponi posteriori, un artiglio pugnaliforme lungo cinque centimetri. Data la predisposizione a servirsi in maniera olistica e armoniosa dei suoi numerosi talenti (corsa + salto + astuta malvagità), l’artiglio rende il casuario particolarmente temibile nel combattimento corpo a corpo, disciplina olimpica che l’ha visto più volte salire sul podio – dopo averlo forsennatamente demolito a testate.

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I casuari sono uccelli estremamente riservati e schivi. I maschi amministrano un territorio di circa sette chilometri quadrati – l’estensione massima di forestina che sono in grado di difendere a zampate -, mentre le femmine (pur prediligendo una precisa area) sono un po’ più mobili. Le femmine di casuario, in realtà, sono avantissimo. Invadono a più riprese i territori dei maschi e li utilizzano come meri toy-boy. Alle femmine di casuario non interessa una fionda secca di tenere in ordine la casa e di preparare i muffin al mirtillo al proprio fidanzato. Dopo essersi accoppiate, le femmine di casuario sganciano le uova – uova BLU, amici, gloriose UOVA BLU – nel nido costruito dal maschio meno pirla del circondario, salutano caramente e se ne vanno – con le Spice Girls in sottofondo.
Stagione degli amori a parte, i casuari restano uccelli solitari, misantropi e scorbutici. Mal tollerano gli sconosciuti e non amano essere avvicinati… specialmente da una truppa di imbecilli armati di rastrello.

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La cosa più bella che so del casuario, comunque, me l’hanno raccontata i miei colleghi al caffè. Lo so, voi bevete il caffè con della gente che vi parla di come si mangia all’Expo, io prendo il caffè con persone splendide, persone che mi spiegano le abitudini del casuario australiano. Cambiate lavoro e non ammorbateci coi vostri problemi – che se volevate mangiare tantissimo e spendere poco dovevate andare alla Bocciofila Caccialanza, mica all’Expo. Comunque, grazie ai miei colleghi, ho scoperto che il casuario è uno dei pochi animali in grado di serbare rancore. Se incontrate un casuario e gli tirate un mango in faccia – o gli dite che il koala è più carino di lui, o gli pestate un uovo, o lo guardate in una maniera che potrebbe non essere di suo gradimento -, il casuario se lo ricorderà. E tramerà vendetta. Anni dopo, quando anche vostro marito avrà dimenticato che, in un’estate particolarmente dissennata, vi siete fatte trombare dal bagnino nella rimessa dei pedalò, il casuario rammenterà che gli avete tirato un mango sul becco e, alla prima occasione utile, vi sventrerà, infierirà sui vostri miserabili resti mortali e getterà il vostro scheletro putrefatto nella bocca ribollente di in un vulcano acceso, nella notte più fosca e tempestosa di ogni tempo. Perché i manghi non si tirano, diamine!
Pensate di cavarvela?
Eh, che sarà mai, il casuario.
Una volta ho acciaccato il porcellino d’India, ma mica mi ha strappato gli occhi. Va bene, il casuario è un po’ più pericoloso, ma quanto vuoi che campi? I criceti stanno al mondo quattro anni. I gatti e i cani, se proprio va bene, schiattano a quindici-diciotto anni. Un casuario quando starà al mondo?
Un casuario, cari tutti, vive cinquant’anni.
E vi seguirà in capo al mondo.
Come il Conte di Montecristo.

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Ci sono gli spoiler della quinta stagione. Regolatevi, che ormai siete grandi.

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Dopo aver visto tutte e dieci le puntate, mi sono resa conto che la sensatezza della quinta stagione di Game of Thrones è inversamente proporzionale al grado di ubriachezza di Tyrion Lannister. Più Tyrion è sbronzo, meglio vanno le cose. Se Tyrion sfiora il coma etilico, la trama di Game of Thrones ci guadagna in struttura, sana complessità, mistero e solidità narrativa. Per dire, i primi episodi, con Tyrion che si regge a malapena in piedi e vomita a spruzzo sul tappeto, mi hanno fatto ben sperare. Pensa un po’, mi dicevo, tutti i personaggi sembrano aver raggiunto un nuovo punto di partenza! Chissà quante vicende super intriganti ci attendono! Che combineranno, cosa scopriranno, chi diventeranno! Quali mirabolanti incontri ci riserverà il destino? Non vedo l’ora di scoprirlo, sono presa troppo bene! Sarà un successo!
E invece.
Col passare del tempo – e con la diminuzione del tasso alcolemico del buon Tyrion -, è andato tutto a farsi fottere.
Non solo non è successo quasi niente, ma quel poco che è successo era quasi sempre sbagliato. Capisco che Martin, gli sceneggiatori e il Dio dell’Antico Testamento vogliano inculcarci l’idea che la vita è ingiusta, crudele, spietata e per nulla meritocratica, ma non riesco veramente ad accettare che ogni avvenimento si trasformi in uno sputo in faccia alle più basilari norme karmiche dell’universo.

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La quinta stagione di Game of Thrones, riassunta in una sola espressione facciale.

Stannis, quella scema di sua moglie e quella vacca piromane coi capelli rossi han dato fuoco a una bambina adorabile.
Sansa Stark è riuscita, non si sa come, a sposarsi con l’ennesimo squilibrato. Joffrey, in confronto a Ramsay Bolton, era Jigglypuff. E lei? Lei zero. È di un’inerzia esasperante. Incassa, soffre, piange. La maltrattano, la violentano, la chiudono in camera sua. E lei niente. La risolve buttandosi giù delle mura del castello. E tanti saluti. Sarà morta davvero? Spero di no. Se è viva, possiamo ancora prenderla a schiaffi.
Brienne conferma la sua intrinseca inutilità. Non solo ha portato una sfiga nera a tutti i malcapitati che ha servito, ma si è anche assentata nell’unico istante in cui poteva far del bene a qualcuno. Certo, mi rallegro del fatto che Stannis Baratheon sia stato squalificato dal più grande gioco dell’oca dei Sette Regni, ma avrei preferito che morisse per i cavoli suoi, senza far perdere tempo a un personaggio che, finalmente, aveva qualcosa di sensato da fare. Anche qua, furia e tormento.
Arya Stark, in tutta franchezza, non si capisce che cosa stia facendo. Sono felice che i suoi piccoli propositi di vendetta stiano procedendo, ma il Dio Multifaccia ha sonoramente rotto le palle. Mezza stagione a sorbirci Arya che spugna cadaveri, spazza il pavimento e vende ostriche a gente di cui non potrebbe importarci di meno. Fa una roba un po’ interessante – piantare coltelli negli occhi a un essere spregevole – e a smenarci è lei. Mai una gioia.
Il povero Jaime Lannister – uno che nella vita ha già la sfortuna di essersi innamorato della donna più astiosa di Westeros – la prende in quel posto nel momento più felice della sua complicata esistenza. Lo so che sei mio padre… e ti voglio bene, non preoccuparti! Ognuno ha i suoi problemi, ma io sono cresciuta a Dorne e sono una persona comprensiva. Papà! Papà, abbracciami, sono contenta! E niente, anche quella sventurata di Myrcella ci abbandona senza un lamento. Mi dispiace per lei e pure per quel suo meraviglioso abito rosa mega-vaporoso e svolazzante. E craniate nel muro per Jaime.
La sventatissima regina Cersei, invece, ha preso bene il matrimonio di quel tontolone di Tommen. Tua moglie è un po’ troppo carina, astuta e frizzante per non indispormi profondamente, figlio adorato. La neutralizzerò grazie a un gruppo di fanatici religiosi che finiranno per imprigionarmi, umiliarmi oltre il limite dell’umano e raparmi a zero. Per concludere l’opera, mi spoglieranno nuda e mi costringeranno a tornare scalza al castello con una monaca sadica che grida SHAME a ogni mio passo e una folla inferocita che mi tira la cacca in faccia. Un capolavoro di strategia.
DENERIS, dopo aver percorso miliardi di chilometri, ha deciso di fermarsi in una città di rilevanza geopolitica assolutamente nulla. Mereen. Ma chi ti caga, Mereen. Una stagione dedicata alle imprescindibili lotte di classe che tormentano il popolo di questo luogo lontano e sconosciuto. Una stagione con due draghi in cantina e un Drogon in piena fase VAFFANCULO MADRE che va a farsi i giretti dove gli pare, senza un’anima che gli insegni come si sta al mondo. E come finisce? Finisce con un drago che russa e DENERIS che va a spasso per un prato in un luogo ancor più remoto e irrilevante di Mereen. Un luogo così impervio e inutile che non ha nemmeno un nome. Così impariamo a lamentarci.
In un universo dove Ramsay prospera e Jorah viene scacciato con disonore ogni volta che apre bocca – e grazie al cielo è un tipo taciturno -, il fatto che Jon Snow venga pugnalato a morte da un ragazzino rancorosissimo mi sembra il minore dei problemi. Vi dirò, la morte di Jon Snow mi ha scioccata – cribbio, sono una persona anch’io -, ma non mi ha particolarmente rattristata. Più che altro perché tifo per l’avanzamento della storia… e Jon Snow non mi è mai sembrato un personaggio capace di inserirsi in qualche modo nel pentolone delle ostilità generali per la conquista del mondo. Da questo punto di vista, sono contenta che Tyrion e Varys – si scriverà così? – abbiano raggiunto DENERIS, sono contenta che Lord Baelish sia sopravvissuto e che Cersei sia uscita di galera. E sono colpitissima dall’esercito dei ghiaccioloni-zombie – capitanato dal Darth Maul dei frigoriferi -, ma la sfiducia comincia ad attanagliarmi. Sono di nuovo tutti sparpagliati. Non c’è giustizia. Non c’è nulla che mi faccia intravedere un remoto senso logico, una fine, qualcosa in cui sperare. Sarò poco lungimirante io, ma mi metto davanti a Game of Thrones ed è come guardare una comitiva di studenti universitari sconvolti dall’LSD che giocano a Risiko su una zattera in fiamme. La cosa che mi preoccupa di più, comunque, è che non mi sognerei mai di abbandonarli al loro fosco destino e, nonostante tutto, continuerò a guardare il maledetto Trono di Spade, dovessero ammazzare pure me. Perché, in fondo, ce lo meritiamo.

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Insomma, tutti quanti amiamo insensatamente qualcosa. C’è chi adora la Juventus – anche se proprio non capisco come sia possibile – e chi impazzisce per i francobolli. Ci sono fanatici dei bonsai, di Wagner o della barca a vela. Qualcuno, là fuori, adora la fisica quantistica e si diverte a far parlare i pappagalli. Io ho i dinosauri. Sono cresciuta con le enciclopedie illustrate della preistoria, in quarta elementare ho letto Jurassic Park e, l’anno scorso, ho spedito centoventi partecipazioni di matrimonio con sopra un maestoso triceratopo corazzato. Steven Spielberg, un bel giorno, ha deciso che anche a lui piacevano un casino i dinosauri. Ed è stato così carino da buttare in piedi un film che permettesse a tutti quanti di capire com’è che funziona davvero un t-rex. Per i fortunati che, da piccoli, hanno potuto ammirare la perfetta cattiveria di un dilofosauro vendicatore, il mondo si è trasformato all’improvviso in un posto dove la giustizia era possibile. Perché, se c’è un dinosauro, tutto è più bello. Jurassic Park fa parte del mio immaginario. Ed è anche un po’ la prima cosa a cui penso quando devo cercare di descrivere la bellezza dell’universo. In sintesi, sono Alan Grant… quando vede per la prima volta un brachiosauro che va a spasso per una pacifica pianura erbosa.

alan grant

Quando ho scoperto che, dopo Il mondo perduto e quella disgrazia di Jurassic Park III, la nobile industria del cinema avrebbe sfornato Jurassic World, il terrore si è impadronito del mio animo.
E se fa schifo?
E se poi è una mastodontica stronzata tonante?
E se è una di quelle orribili minestre riscaldate che s’inventano di tanto in tanto – anzi, anche troppo spesso –  perché non riescono a farsi più venire in mente niente di nuovo?
E se poi è così brutto e improbabile da farmi dimenticare quanto ho amato il romanzo e il primo film?
Insomma, non è che ci fosse tutto questo ottimismo. Ho fatto del mio meglio per ridurre al minimo le aspettative e, in memoria dei vecchi tempi, ho ordinato ad Andres Diamond – il mio DJ di fiducia è meglio del vostro – di sparare il tema di Jurassic Park ad intervalli regolari durante la nostra cena di nozze. Vagare per i tavoli con John Williams a bomba e un vestito con lo strascico è un’esperienza che auguro a tutti, uomini compresi.
Nonostante i miei sforzi, però, Jurassic World sembrava promettere bene. Chiaro, dopo aver visto il primo trailer mi sono istintivamente ribellata all’idea che un velociraptor potesse essere addestrato come un pastore tedesco dell’arma dei Carabinieri. E anche tutta la faccenda degli ibridi geneticamente modificati mi sembrava una solenne minchiata. E lo scriteriatissimo romanticismo di John Hammond? E che fine ha fatto Ian Malcolm imbottito di mofina? Per farla breve, ero preoccupata come un suricato a un raduno delle Frecce Tricolori, ma cercavo di non farmi travolgere dal nichilismo. Perché, da qualche parte, splendeva un fioco barlume di senso. Il fatto, poi, che anche Chris Pratt la pensasse come me – I DINOSAURI SONO GIÀ WOW, stronza di una Bryce Dallas-Howard -, mi ha dato modo di riflettere. Quando ho scoperto che la colonna sonora sarebbe stata curata da Michael Giacchino e che il mesosauro si nutre di squali bianchi, ho cominciato a perdere il controllo del sistema limbico e mi sono sentita in dovere di aggiornare la cover di Facebook, sfoggiando un becero screenshot del trailer.

Colin Trevorrow, riuscirai a non profanare i ricordi più belli della mia gioventù?

La grande domanda ha finalmente trovato risposta l’altro giorno. Perché non mi avrete invitata all’anteprima di Age of Ultron, ma la preistoria sa apprezzarmi e mi accetta così come sono.

https://instagram.com/p/3ui8NcldIz

Jurassic World funziona.
Jurassic World fa felici.
Jurassic World, in sintesi, è un omaggio a tutto quello che di bello ci ricordavamo
.
Mi spiace per i bimbi di oggi – che sicuramente si divertiranno per un casino di altri motivi – ma Jurassic World è per noi. E scansatevi tutti.
Questo film, per costruzione, è fondamentalmente Jurassic Park. E fin qui, niente di nuovo. Quello che fa in grande, però, è realizzare – almeno per un po’ – il super sogno di John Hammond: mettere la gente di fronte alla meraviglia. La roba interessante è quello che succede dopo, quando il sogno – che stavolta sembra funzionare senza intoppi – deve misurarsi con il mondo vero… che non si accontenta mai e che, soprattutto, ha assunto un ambizioso ufficio marketing. Il parco è assolutamente affascinante. È come vedere gli Universal Studios, coi dinosauri al posto del rollercoaster della Mummia. O come fare un giro a Seaworldsolo che la tribuna sprofonda sott’acqua e le orche sono lunghe venticinque metri. C’è la gente che fa la coda e che s’incazza quando chiudono un’attrazione. Ci sono souvenir da tutte le parti, bibite che costano quanto un collier di Bulgari, fastidiose pubblicità e pass-VIP che ti fanno saltare la fila. C’È UN DIAMINE DI RECINTO DOVE SI POSSONO CAVALCARE I TRICERATOPI NEONATI E I BAMBINI ABBRACCIANO I BRONTOSAURINI, COI GALLIMIMUS CHE SFRECCIANO FELICI DI QUA E DI LÀ. Quella scena lì è un dono del Signore. Quando ho visto il baby-triceratopo con la sella volevo cavarmi gli occhi e darli da mangiare alle aquile.
Ma diamoci un contegno.
Come in Jurassic Park, anche Jurassic World si interroga su che cosa sia giusto fare. La vita trova sempre una strada… e non si può controllare quello che ci rifiutiamo di capire e rispettare. Siamo responsabili di quello che creiamo, soprattutto se decidiamo di inventarci un dinosauro grossissimo, cattivissimo e spaventosissimo per far felici gli investitori. L’Indominius Rex – non preoccupatevi, Chris Pratt si unirà ai vostri sbeffeggi – è il primo dinosauro sociopatico della storia. E avrà il nobile compito di mandare tutto in vacca, come da tradizione. Noterete con piacere che, in questo film, le tradizioni sono importanti. Vedrete milioni e milioni di strizzate d’occhio a Jurassic Park, roba che vi farà sentire meno soli nell’universo e vi farà agitare i pugnetti per aria come ragazzini delle medie.

Bene.
Adesso attacco con gli spoiler, quindi regolatevi.
SPOILER!
Ho detto SPOILER!
Qua sotto ci sarà roba che potrebbe divertirvi, ma vi conviene tornare dopo aver visto il film.
SPOILER!
…e poi non lamentatevi.

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Finalmente.
Io le recensioni non le scrivo per fare la persona che finge di capire qualcosa di cinema, io le scrivo perché non posso accettare che Bryce Dallas-Howard faccia i cento metri sui tacchi, e devo assolutamente lamentarmene con qualcuno. Trovo molto più plausibile che l’ingegneria genetica abbia capito come riportare in vita i dinosauri, piuttosto che Bryce Dallas-Howard che corre sul ghiaietto con le DECOLTÉ per due ore e mezza, scansando pterodattili e sfuggendo alla morte.
Ma passiamo a faccende più rilevanti.
I velociraptor sono sempre stati i miei preferiti, anche quando erano “cattivi”. Jurassic World ha provato a realizzare il prodigio dei prodigi: farci andare a spasso per la città con un velociraptor da compagnia. Darei un braccio – letteralmente, forse – per avere un velociraptor da compagnia. A questo punto, non possiamo che parlare di Chris Pratt. Chris Pratt è una specie di miracolo ambulante. Le mie colleghe, quando sono tristi, fanno un giro sull’account Instagram di Claudio Marchisio, ma io – pur apprezzando Claudio Marchisio, nonostante la squadra per cui milita – sono assolutamente sconvolta da Chris Pratt. Chris Pratt, solo il cielo sa come, è stato capace di addestrare quattro velociraptor. Ci sono i velociraptor che rincorrono un maiale e lo vogliono mangiare tantissimo, ma spunta Chris Pratt e si fermano di botto. NO, CHRIS. NON DIVOREREMO QUESTO MAIALE. NOI TI APPREZZIAMO. NOI TI STIMIAMO. NOI VOGLIAMO FARTI FELICE. IL MAIALE PUÒ VIVERE, SE TI FA PIACERE. SIAMO DEGLI INTELLIGENTISSIMI VELOCIRAPTOR ASSOLUTAMENTE LETALI, MA LA TUA FELICITÀ CONTA PIÙ DELLA NOSTRA. AMACI, CHRIS. AMACI, SIAMO DINOSAURI SENSIBILI.
I velociraptor di Chris Pratt sono tre femmine e un maschio.
Le tre femmine vogliono fidanzarsi con Chris Pratt.
Il quarto vuole essere Chris Pratt – ma in fondo sappiamo che la pensa come le femmine.

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Nonostante il finale sia assolutamente telefonato – perbacco, chi mai potrà mangiare l’Indominus Rex? Forse l’unico dinosauro più grande di lui, anche se sguazza felice nel mare? CORRECTAMUNDO! Avete vinto un giretto in groppa al triceratopino! -, sono impazzita per il ritorno in scena del tirannosauro. È stato un glorioso momento-Pacific-Rim. In mezzo a tutti quei recinti super tecnologici, ai dilofosauri olografici, ai dottor Wu – identici a com’erano vent’anni fa -, al vecchio centro visitatori che riemerge dalla giungla e agli anchilosauri che giocano a cricket con i nipoti di Bryce Dallas-Howard, Trevorrow è riuscito a farci dimenticare il t-rex. Ci ha regalato un’impareggiabile apparizione della capretta, ma – nel felice rincoglionimento generale – ci siamo scordati del t-rex. Quando l’adorabile nerd nostalgico della sala controllo – SEI COME UN FRATELLO PER ME! ANZI, SEI TUTTI NOI! – ha aperto il recinto, mi è venuta voglia di piangere. Continuo a non spiegarmi come Bryce Dallas-Howard sui tacchi possa correre più veloce di un tirannosauro, ma ho deciso di credere ciecamente anche alla più assurda delle puttanate. Ho gridato forte nel secchiello vuoto dei pop-corn e mi sono schierata con i carnivori ragionevoli. Certo, il fatto che un velociraptor dia retta a Chris Pratt è già piuttosto strambo… e forse è per quello che non ho battuto ciglio di fronte a un t-rex che decide amabilmente di collaborare con un velociraptor per annientare un incubo della genetica. Che vi devo dire, prenotatemi una vacanza in Costa Rica.
Per concludere, vorrei: ringraziare Giacchino per aver preservato la magia della colonna sonora originale, assumere un elicotterista a tempo pieno per il signor Masrani – altro grande esempio di rispetto delle tradizioni: tutti i propietari del parco devono essere un po’ suonati -, complimentarmi col parrucchiere di Bryce Dallas-Howard – lo so, vi sta sull’anima… ma è un bel personaggio e ha un caschetto superbo -, piangere un po’ perché nessun velociraptor dimostra di saper aprire le porte, singhiozzare un altro po’ per il maiasauro che spira tra le forti braccia di Chris Pratt – Alan Grant e la dottoressa Sattler sarebbero riusciti a salvarlo, anche senza frugare in una pila di cacca alta due metri – e, più di ogni altra cosa, ricordarvi una grande verità. Invitare i nipotini a visitare il vostro parco dei dinosauri porta una sfiga nera e irreparabile.

Nel prossimo post, visto che vado ancora alle medie, vi racconterò che cosa succede quando una persona di trent’anni incontra un album di figurine con i dinosauri. 

The park is open!
Andate a divertirvi… finché i dimorfodonti non vi strappano il fegato!
<3

ian gallimimus

A me, dello zumba, non me ne frega una mazza di niente. Anzi, non è vero. Se dello zumba non me ne fregasse davvero niente, non mi starebbe così sulle balle. La mia non è semplice indifferenza, è proprio antipatia manifesta. Odio lo zumba, la cardio-capoeira, lo spinning, la fit-boxe, lo step e anche il pilates. Odio, ma proprio a livello ontologico, i corsi della palestra. L’idea di trovarmi rinchiusa in uno stanzino di venti metri quadri insieme ad altri esseri umani che ansimano a ritmo di reggaeton mi terrorizza. Istruttori iperattivi e ottimisti che ti incitano a gran voce, gente che si arrotola i pantaloni al ginocchio – ma solo una gamba -, fenomeni che non riescono manco a salire sulla cyclette ma indossano completini sportivi da seimila euro, tacchini ripieni che fanno i pesi allo specchio, asciugamanini bagnaticci, attrezzi incomprensibili, centrifugati detox alla frutta, magliette pezzate. PIUTTOSTO LA MORTE.
Sarò all’antica, ma il fitness non lo capisco. In palestra ci andavo quando giocavo a tennis, perché faceva parte della preparazione atletica. Sai com’è, puoi colpire la palla benissimo, ma se non ci arrivi vicino hai poco da colpire. E quindi niente, ci si allenava in campo, si correva come cammelli derelitti sull’argine di Po per migliaia di chilometri e si facevano gli esercizi in palestra. Lo scopo complessivo, però, era molto chiaro: giocare meglio a tennis, posticipando il più possibile il momento in cui, durante la partita, vorresti solo stramazzare a terra e morire. Idem per lo sci. Si sciava in montagna e ci si squartava in palestra. Anzi, per lo sci avevo anche il pomeriggio dedicato al pattinaggio di velocità. Ci andavo subito dopo solfeggio, pervasa da una furia senza nome. Insomma, tra sci e tennis avevo due gambe così, ma mi servivano a qualcosa. C’erano dei benefici ludici, oltre che agonistici. A tennis ci puoi giocare coi tuoi amici, ci puoi giocare al mare in una bella sera d’estate. Anche a sciare ci puoi andare con i tuoi amici. Sono attività che generano spasso e hanno anche un preciso obiettivo – fare punto (nel caso del tennis), non sfracellarti contro a un pino (nel caso dello sci).
Insomma, quello che vorrei comunicare a chi s’inventa i corsi della palestra è la roba seguente: creatori di corsi per la palestra, quello che ci proponete non è adatto a soddisfare le profonde necessità delle nostre bellicosissime anime. Ci serve qualcosa di alto, nobile, arrogante e scenografico. Ci serve un addestramento da supereroe.
Ecco, in estrema sintesi, che cosa sarebbe davvero utile imparare.

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Tramortire i nostri nemici, calzando con infinita spocchia un elmo col pennacchio.

 

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Affettare orde di demoni con un’ascia magica – dotata di pratico paletto all’estremità inferiore -, senza rovinarci la piega.

 

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Cavalcare maestosi destrieri, manovrare uno spadone e gestire con successo un falcone – possibilmente senza fidanzarcisi.

 

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Prendere acrobaticamente a calci sui denti chi se lo merita, indossando una tutina molto aderente. E, in generale, primeggiare nello spumeggiante mondo dello spionaggio.

 

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Gestire con successo una katana giapponese lunga quattro metri.

 

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Gestire con successo una katana giapponese di dimensioni standard, trionfando – però – nella nobilissima arte della vendetta.

 

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Usare una frusta, anche quando a casa abbiamo finito il balsamo e la maschera disciplinante all’argan.

 

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Trionfare – con tracotanza – anche nelle situazioni più intricate. Vedi accerchiamenti, inferiorità numerica e disparità in fatto di armamenti.

 

Ispirare puro terrore.

 

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Prendere al volo le frecce. Senza manco metterci dell’impegno.

 

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Domandare se, per caso, c’è qualcun altro che se la sente.

 

Trinity
Padroneggiare una mossa che l’universo ha concepito precisamente per noi.

 

E non ci servirebbe saper fare tutto questo perché, in qualche modo, saremo chiamati a salvare il mondo. Ci farebbe comodo proprio a livello di equilibrio psicofisico. Imparare roba del genere, care palestre, non solo scolpirebbe i nostri sederi, ma ci renderebbe anche incredibilmente più autorevoli. Macché autorevoli, SPLENDIDI e devastanti.
E voi là, con lo zumba e il cardio-total-body. Dove sono i pugnali. Dove sono i lanciafiamme. Dov’è l’ambizione! Mettetemi in groppa a un velociraptor, con un’alabarda in mano. Insegnatemi a rompere femori, con il solo ausilio di una spinacina Aia. Fatemi diventare il T1000.
Possibile che, là fuori, non ci sia una palestra pronta a trasformarmi in Ezio Auditore?

 

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Joss Whedon, poverone, si è scelto un mestiere difficile. Joss Whedon è un uomo che si sveglia, beve il caffè ed esce di casa con la consapevolezza di doverci traghettare tutti quanti verso le Infinity Wars. Io, alla mattina, sto dieci minuti ad analizzare il cassetto delle mutande – che se scegli quelle con l’elastico molle finisce che ad ogni passo te le ritrovi in mezzo alle chiappe. Joss Whedon si alza dal letto e, da anni, ha il sacro compito di trovare le mutande giuste per un intero universo CINEMATICO.
Mettetele voi, le mutande a Groot, santo il cielo.
Nonostante queste palesi e comprensibili difficoltà, Joss Whedon – chissà poi come – è riuscito a sfornare un nuovo film degli Avengers, conservando addirittura il senno. A parte un candido “Sono un po’ stanchino”, l’ho visto piuttosto in sagoma. E il film? Partendo dal presupposto che è impossibile prendersi male davanti un’impresa degli Avengers, non posso fare finta che Age of Ultron sia una fulgida meraviglia. Anzi, è un film pieno di problemi. Somiglia un po’ a quei libri d’avventura in cui l’autore si impegna tantissimo a descrivere nel dettaglio ogni movimento dei suoi personaggi, dimenticando – spesso e volentieri – di piazzarli su una seggiola a dire due cose. Come ti senti, trafelato e tumefattissimo personaggio? Scommetto che ne hai pieni i coglioni di vagare da un continente all’altro senza un’anima che ti domandi come va. Tieni, bevi una birra e conversiamo come delle persone normali. Se poi non hai voglia di star qua con me, puoi sempre scambiare due parole coi tuoi compagni supereroi. Non vi farà male, giuro.
E invece niente.
Age of Ultron è un film ponte, suo malgrado. E sappiamo tutti che fine ha fatto il Bifrost. Manca un po’ di cuore, insomma. Non c’è l’alchimia bella-bella in modo assurdo del primo Avengers, non c’è la stessa tensione e, nonostante alcuni sporadici tentativi, questa gente non ha un mazza da dirsi. Quello che ne esce meglio, a livello di “perbacco, che personaggio interessante” è un arrabbiatissimo burattino alto tre metri che, guarda un po’ l’originalità, vuole distruggere il mondo.
Io mi chiedo, ma tutti questi qua che vogliono distruggere il mondo… ma dov’è che s’immaginano di vivere, dopo?
Comunque.
Quello che possiamo fare, per divertirci un po’, è parlare di che combinano i nostri beneamati supereroi, analizzandone baldanzosamente le gesta, le prodezze sentimentali, le sfighe e i fattacci loro. Che tanto si sa, siete venuti qui per perdere tel tempo, mica per fare un master in cinematografia.

CI SONO GLI SPOILER.
CI SONO GLI SPOILER.
CI SONO GLI SPOILER.

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IRON MAN

Tony Stark, profondamente segnato dalla battaglia di Manhattan e dal bordello infame accaduto in Iron Man 3, prosegue nella sua parabola discendente. C’è chi parla di introspezione, crescita, presa di coscienza, consapevolezza, senso di responsabilità, saggezza e illuminazione. C’è chi, invece, lo guarda e pensa a un Mocio Vileda volante. Tony Stark, incredibile ma vero, non ci regala uno straccio – LOL! – di soddisfazione, ma neanche quando indossa una specie di armatura frigorifero e picchia molto forte quel sacco di patate di Hulk. La roba che mi è piaciuta, di Iron-Frigo VS Hulk, è la faccenda del satellite pazzo. Quella roba è bellissima. È una specie di prigione telecomandata. E tutto funzionerebbe alla perfezione, se solo Hulk non fosse in grado di scavare. E se Iron Man ci regalasse, di tanto in tanto, un briciolo del suo sarcasmo.
Comunque.
L’unico “merito” di Tony Stark, in questo particolare frangente cinematografico, è l’accidentale creazione di Ultron. Travolto da un eccesso di zelo – e dimenticando quanto bene erano andate le cose l’ultima volta che aveva esagerato con l’assemblaggio di armature pazze che pensano da sole -, il buon Tony decide di costruirne una capace di proteggere tutta quanta la terra. Nonostante il saggio Banner passi ben il 23% dell’intero monte-dialoghi del film a spiegargli che è una solenne cazzata, Iron Man sbologna a Jarvis l’ingrato compito di concludere l’elaborazione-dati più importante della storia dell’umanità e si va a bere un Margarita.
Geppetto, almeno, era rimasto a carteggiare il suo pezzo di legno fino alla fine.

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ULTRON

Non ho avuto la fortuna di sentire Ultron che vaneggia con la voce di James Spader, ma mi è sembrato comunque un personaggio fascinosissimo. Certo, se avesse dichiarato all’improvviso di poter aprire uno Stargate mi sarei sentita molto meglio, ma ci faremo andar bene quel che c’è.
Ultron risponde, involontariamente, a una grande domanda: anche le intelligenze artificiali vivono malissimo l’adolescenza? Brufoli e ascelle pezzate a parte, Ultron è un teenager da manuale. Teatrale, rabbioso, irascibile e rissoso, Ultron detesta i suoi – Tony Stark e Jarvis -, si sente sommamente incompreso – MUORI, GENERE UMANO! -, frequenta cattive compagnie – ciao, giovani fenomeni da baraccone dell’Hydra, ci andiamo a pigliare un gelato? – e reagisce alle sfighe con plateale, sincero e autentico disappunto – OH, NO, ANCORA VOI!
La roba che avvantaggia Ultron, rispetto al sedicenne medio, è la capacità di mandare in orbita una città. Ma anche, lasciatemelo dire, l’incomprensibile necessità di procurarsi un corpo vero. Quella faccenda lì, devo essere sincera, non l’ho mandata giù. Per il resto, Ultron ha il mio benestare. Anche perché, con tutti i posti che ci sono al mondo, ha scelto di sedersi a blaterare sull’altare di una chiesa diroccata. Con una gloriosa coperta sulla testa.
Che qualcuno porti Ultron in vacanza a Formentera. È il momento giusto.

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THOR

Non riesco mai a capire se Thor vada regolarmente a trovare la sua fidanzata o se scelga deliberatamente di ignorarla per mesi interi, senza ragione. Sentimenti a parte, Thor sembra essersi ambientato un po’ meglio sul nostro pianeta… perdendo, dunque, l’unico aspetto che lo rendeva interessante: il fatto di essere un biondissimo e gigantesco pesce fuor d’acqua. Thor, che dal nulla blatera di pentapalmi e frantuma tazze di caffè sul pavimento. Thor, che non ha vestiti normali… ma in fondo gli va bene così. Un uomo grosso e grezzissimo, che si esprime come un monaco cistercense e si fa delle treccine stupende. Qua, tanto per integrarlo ancora meglio con la fauna terrestre, riescono anche a fargli dire un tragico “Si parla che…” – abbiamo capito, è un errore di doppiaggio, ma non posso fare a meno di costruirci su una gloriosa metafora.
E niente.
Nonostante io trovi Thor uno degli spettacoli più belli che la natura sarà mai in grado di regalarci, il suo principale Age of Ultron-merito è quello di innescare l’unica gag davvero carina del film… il mirabile gioco-aperitivo del “Martello nella roccia”. Va bene, è bello e imponente, scaglia fulmini e volta… ma dateci qualcosa in più, qualcosa che ci faccia seriamente felici, qualcosa di strabiliante. Dateci suo fratello, per dire.

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CAPTAIN AMERICA

Il buon Steve Rogers sta migliorando. The Winter Soldier, contro ogni pronostico, mi era assai garbato. Qui in Age of Ultron, nonostante la tracotanza dei superpoteri altrui, Joss-Mutandatore-di-Universi-Whedon trova anche il modo di fargli sfoderare un paio di prodezze assai pregevoli. A coronare questo incredibile filone positivo, Captain America – grazie alla sua anima pura e generosa – riesce anche a smuovere il benedetto Mjölnir di ben 2 micron. Non potendosi manco sbronzare, non mi sembra una gran soddisfazione… ma pazienza.
Nonostante i passi da gigante, però, il finale del film riesce quasi a ricordarci perché Captain America, in fondo in fondo, ci sta un po’ sull’anima. Sono tutti là, bloccati su questa città-asteroide pronta a schiantarsi al suolo. Sono là per aria, e hanno un mucchio di problemi. Il mondo sta per finire, ma Captain America non vuole sentire ragioni. DOBBIAMO SALVARE ANCHE L’ULTIMO SCOIATTOLO DI QUESTO TERRIFICANTE AGGLOMERATO URBANO. Prima salviamo questa gente – inclusi i loro animali da compagnia… i criceti, le cocorite, le tartarughe di terra, le cavie, i cincillà… TUTTI, DEVONO FARCELA TUTTI -, insomma, prima salviamo questa gente – blatte incluse – e poi, se ci resta tempo, salviamo il mondo. Che diamine, saremo supereroi, ma abbiamo pur sempre due mani. L’onore! La giustizia! Mica come quegli sconsiderati della DC, che radono al suolo Metropolis senza battere ciglio. Superman, vergognati! Qua alla Marvel c’è dell’etica, qua si distrugge con criterio! Stolti! E niente. Captain America vaga casa per casa, porgendo panini al prosciutto e bottigliette di minerale a grandi e piccini. Prego, accomodatevi sulla scialuppa. Fino a venti minuti fa, l’Hellcarrier di scialuppe non ne aveva, ma adesso ce ne sono in abbondanza. Mica come quei bastardi del Titanic! W la terza classe! Democrazia! Aiuti umanitari! Giustizia sociale! Rettitudine!
Che qualcuno gli trovi una fidanzata, prima che scateni una Civil War.

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OCCHIO DI FALCO

Per me, Occhio di Falco è un mistero. Sarò una persona poco sensibile, sarò un cuore di pietra… che vi devo dire. Per me, che Occhio di Falco ci sia o non ci sia, non fa alcuna differenza. Molti lo amano perché è un po’ lo Xander del gruppo. Anche Xander – pur non avendo alcun genere di potere sovrannaturale – era un fidato alleato di Buffy e passava le sue giornate ad aiutarla a combattere il male. Occhio di Falco, in più di Xander, ha un’ottima mira, sa guidare gli aerei, riesce ad ammazzarti con un foglio A4 stropicciato e ha dei riflessi fantastici. Chiaro, sono dei grandissimi meriti. Roba che schifo non ci fa. Ma lasciatemi protestare un attimo. Perché, tra tutti i personaggi che ci sarebbe piaciuto conoscere ancora meglio, Occhio di Falco è veramente l’ultimo della lista. Fantastico, Occhio di Falco ha una moglie gravida, tredici figli e una fantastica casetta nella prateria! La Vedova Nera non è la sua ragazza, è la sua migliore amica! Occhio di Falco, zitto zitto, è un animo sensibile! Fine osservatore delle dinamiche che stravolgono, frullano e scompigliano il fragile equilibrio degli Avengers, Occhio di Falco è un ingranaggio imprescindibile… senza di lui, i nostri adorati paladini si sarebbero già sfanculati da un pezzo!
Bravo.
Bene.
Bis.
…ma quindi, fatemi capire. Queste storie super interessanti. Ce le avete raccontate per farci capire che, in fondo in fondo, anche lui serve a qualcosa?

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LA VEDOVA NERA

La Vedova Nera si è ritrovata, suo malgrado, al centro di una spiacevole controversia. Durante il press-tour di presentazione del film, infatti, Jeremy Renner e Chris Evans si sono lasciati scappare una battuta non proprio argutissima, che si è presto trasformata in un caso interplanetario. Alla domanda “che ne pensate della Vedova Nera?”, infatti, i due brillanti attori hanno risposto come risponderebbe il vostro panettiere al secondo vodka-lemon: “LA VEDOVA NERA È UNA ZOCCOLA”.
Apriti cielo – con annessi CHITAURI.
E il sessismo. E vi pare il modo di parlare dell’unica ragazza del film. Zoticoni. Retrogradi. Maschilisti.
Mentre giornalisti di ogni latitudine si impegnavano al massimo per difendere il suo buon nome, Natasha Romanoff sfrecciava in motocicletta verso il più fulgido dei tramonti – raccattando, di tanto in tanto, uno scudo di purissimo vibranio dal centro esatto della carreggiata. Pure Natasha non ha superpoteri, ma nessuno si sognerebbe mai di considerarla uno Xander qualsiasi.
Mi piace tantissimo, la Vedova Nera.
Mi piace il fatto che scelga, ogni volta, da che parte stare. Mi piace molto la schiettezza assoluta che è capace di dimostrare a chi se lo merita… e il talento infinito con cui finge di essere un’altra persona, quando è necessario. Doma gli Hulk, non si spettina, non le manda a dire e riesce a indossare una tutina di pelle palesemente scomodissima senza perdere un briciolo di mobilità.
La verità è che le ragazze di ogni continente tifano per Natasha Romanoff, ma come se non ci fosse un domani. Possono darle della mignotta finché vogliono, ma se riuscisse veramente a sdraiarseli tutti a noi farebbe solo un gran piacere.
SPOLPALI, NATASHA, SPOLPALI!
La faccenda più bella, però, è che Natasha sa benissimo di non averne alcun bisogno.

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HULK

Bruce Banner è qui per ricordarci che il mondo è complicato. Sul fronte anger-management, il dottor Banner sembra starci un po’ più dentro… almeno fino al minuto venti del film. Funziona così. Gli Avengers liberano Hulk. Hulk spacca il nemico. Hulk mastica alberi, si sfonda montagne sul cranio, abbatte edifici e sputa pallottole. Al momento della ritirata, qualcuno spedisce la Vedova Nera a un metro da Hulk e, contravvenendo ad ogni buonsenso e legge naturale, Hulk si tranquillizza. Che vi devo dire, il mondo è strano. La storia d’amore tra Banner e Natasha è una faccenda che mi garba, a livello concettuale. Hanno un casino di problemi in comune. Entrambi, tanto per cominciare, cercano di stare al mondo nascondendo chi sono davvero. Non sono due personcine che si lasciano andare facilmente. E sanno per esperienza che gli errori non si dimenticano. Mi piace, la loro storia. E la troverei addirittura sensata e commovente, se solo non ci fosse piovuta in testa all’improvviso. Quando mai la Vedova Nera e Banner si sono parlati, nel resto del Marvel-universo? State cercando di farmi credere che “Bruce! Bruce! Ascoltami! Andrà tutto bene!” nella stiva dell’Hellcarrier possa creare un precedente sufficientemente solido per raccontare uno affetto che sboccia tra mille difficoltà? Ma che è. Ah, dimenticavo, è la Vedova Nera che ha reclutato Banner in India! Deve pur significare qualcosa!
Bah.
IL CUORE. DATECI DEL CUORE, BESTIE!
Nonostante lo scetticismo, però, sto dalla loro parte. Sarebbe bellissimo, se Banner e Natasha riuscissero a volersi bene in santa pace. Dove sarà atterrato, lo stramaledetto aereo di Hulk? Tornerà mai? Si sarà portato i calzoncini di ricambio?
Ci scommetto i mignoli che, per puro caso, Hulk si è schiantato su una Gemma dell’Infinito. Ma così, mentre cercava un tabaccaio.

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I GEMELLI DEL DESTINO

Quicksilver e Scarlet Witch, in questo universo, sono figli dell’Hydra. Prima che gli Avengers facessero irruzione – grazie alla scena d’azione più confusa di sempre – nella ridente base surgelata del barone Von Strucker, Pietro e Wanda passavano le loro giornate a bisbigliare abbracciati dietro agli stipiti delle porte. Come il 79% dei personaggi di questo film, i gemelli ce l’hanno a morte con Tony Stark. A parte quello, non sanno una mazza di niente. Uno corre velocissimo – sentendosi perciò in dovere di vivere in tuta -, l’altra genera incubi, campi di forza e altra roba rossiccia incredibilmente devastante – soffrendo, come ogni supereroe con quelle magiche capacità, di una pesantissima sindrome di Jean Grey. Inserendosi a casaccio nell’intreccio narrativo, i Maximoff prendono circa un migliaio di decisioni – contraddicendosi ogni quindici minuti, fino a schierarsi dalla parte dei buoni. Verso la fine, Pietro crepa e a nessuno frega niente – …cioè, tipo, lo conoscevamo appena, che cosa dovremmo dire? Wanda e le sue manine a uncino, in compenso, strappano il cuore a Ultron, ci regalano un classico grido di dolore – NOOOOOOOOOOOOOHHHHHHHHHH! – e marciano con decisione verso la nuova base degli Avengers, una specie di stabilimento Ferrari da qualche parte in mezzo ai prati.
Su di me, in tutta franchezza, Pietro e Wanda hanno generato lo stesso impatto emotivo della cassiera del supermercato. Wanda m’è piaciuta un po’ di più, però. Facciamo che Wanda è la cassiera del supermercato che si dimentica accidentalmente di batterti un filetto.

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VISIONE

Rendendosi improvvisamente conto che Paul Bettany è troppo bravo e bello per limitarsi a fare la vocetta di Jarvis, Joss Whedon ha improvvisamente deciso di dipingerlo di rosso e di regalarci Visione. Non ho ben capito come sia nato e nemmeno che cosa possa fare di preciso, ma Visione è una meraviglia. Mi piacerebbe legargli un filo alla caviglia e tirarmelo dietro come un palloncino. I personaggi completamente “alieni”, legnosissimi, mantellati e dotati di eccellenti zigomi con me funzionano sempre. Spero che lo caccino in ogni scena dei prossimi ennemila film. Fate fare tutto a lui. Fategli dire delle cose. Fateci capire che cos’è. Visione mangia? Può cambiare colore a piacimento? Gli garbano i gattini? Dove abita? Thanos gli spaccherà il cranio? Fa la pipì? Ha bisogno di una fidanzata?
CHE DIAMINE, VISIONE HA ANCHE VINTO IL GIOCO-APERITIVO DI THOR, È IL CAPO DEI GALLI! Mettetegli un fiocco in testa e recapitatemelo sulla porta di casa!
VISIONE PER LA PRESIDENZA DELL’UNIVERSO!
SCONFIGGI L’INSENSATEZZA: VOTA VISIONE!

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E niente, questo è quanto.
Age of Ultron è un solenne pastrocchione strombazzante.
Le scene d’azione sono un bordello. Ogni cosa succede troppo in fretta. Non ci sono procioni che parlano. Tony Stark è diventato un tristone. Captain America è riuscito a regredire. Loki non s’è visto, ma ci siamo dovuti sorbire suo fratello per due ore e passa. Qualsiasi tentativo d’infondere un po’ d’anima a questa gente non ha fatto che accrescere il già poderoso fattore-WTF dell’intera vicenda. La Vedova Nera riesce a malapena a limonare, Occhio di Falco finisce sempre le frecce e l’angoscia infinita di Joss Whedon – COME FACCIO A CACCIARCI DENTRO TUTTA QUESTA ROBA, È IMPENSABILE! STO MALE. STO SOFFRENDO. MA PERCHÉ A ME? VOGLIO ANDARE IN VACANZA PER IL RESTO DELLA MIA VITA! TEAM-THANOS! SAPETE COSA VI DICO? NON GIRO NEMMENO LA SCENA POST-CREDITS, COSÌ IMPARATE, STRONZONI! – è percepibile ad ogni scena. Ultron, in compenso, vuole il Booster rosso.
Age of Ultron è un gran casino, ma ho nove anni e me lo andrei a rivedere domani.