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tegamini

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NN
è una casa editrice nuova-nuova
. Hanno cominciato a marzo, proprio con questo titolo – tradotto da Francesca Novajra -, e spero di vederli trionfare abbondantemente. Nelle schede-libro c’è anche il backstage, per dire. Super gioia – e ottima idea!

Sembrava una felicità di Jenny Offill somiglia a una raccolta di pensierini, tutti estremamente bizzarri. Ogni frammento, in maniera indiretta e imprevedibile, ci fa fare un passettino in avanti nella testa della protagonista. Comincia senza chiamarsi in nessun modo e prosegue diventando Moglie, un personaggio che si racconta mentre cerca di venire a patti con una nuova vita che non avrebbe mai pensato di potersi conquistare. La testa della protagonista, infatti, non è mica un luogo ospitale. Anzi, è un posto spigoloso, pieno di vicoli ciechi, sabotatori invisibili e trappole pazze.
Con i pensieri di Moglie, la Offill racconta i primi passi di una famiglia, dalle difficoltà quotidiane – BED BUGS! BED BUGS DELLA MALORA! – ai traumi piccoli e grandi che potrebbero far crollare la felicità costruita pian piano. C’è una bambina che nasce, piange moltissimo per parecchio tempo e cresce, fino a diventare una personcina serissima che corre nei boschi e dice cose spiazzanti e portentose. C’è l’analisi precisa dell’amore, dei compromessi che siamo disposti ad accettare e della paura assoluta che tutto quello che conosciamo vada in pezzi. Più di ogni altra cosa, però, c’è il dubbio. Di non essere mai abbastanza bravi da meritarci di combinare davvero qualcosa. E, ancora peggio, di non riuscire mai ad essere sufficientemente facili da amare.
La Offill, insomma, ci mette di fronte a una gran quantità di sentimenti complicati, piccole gioie e diffuso scoramento, affrontando ogni frammento del puzzle con uno sguardo obliquo, quasi scientifico. È pieno di citazioni e di riferimenti imprevedibili, questo libro. Da un lato, somiglia a una cronaca in presa diretta. Dall’altro, è una collezione di ricordi, momenti, letture e metafore, dallo yoga all’esplorazione spaziale, dagli animali strani ai terrificanti tipi-umani che ci si trova di fronte quando si manda un marmocchio all’asilo.
E basta, mi è proprio piaciuto.

In bocca al lupo, NN editore! <3

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Allora. Entro Natale, in teoria, avrei dovuto produrre un mezzo libro. Ma non “mezzo” nel senso di porcheria buttata lì mentre ti fai i piedi dai cinesi. “Mezzo” nel senso di quantità. Che divertente la roba che ci hai fatto leggere, riesci a riordinare un po’ le idee e mandarcene metà prima delle vacanze? Prova a fare così e così e poi vediamo cosa succede. Ma certo, non c’è problema. Facciamo che consegno la traduzione che devo finire per ottobre e poi mi ci metto. Capirai, mezzo libro lo metto insieme, in un paio di mesi. E che ci vuole.
Che ci vuole?
Ci vuole una piscina di Redbull. Ci vuole un frullato mela-banana-anfetamine ogni ventidue minuti. Ci vuole una cameriera a tempo pieno. Un cuoco. Della servitù. Dei professionisti che si occupino del tuo trasloco. Della gente seria da mandare in ufficio al posto tuo. Una macchina del tempo. Degli scemi da spedire all’IKEA a comprarti le seggiole. Degli gnomi che stiano le mezz’ore al telefono per farti le volture del gas e della luce. Uno stagista che non dorme mai. L’autista. Un dottore che si candidi spontaneamente per diventare il tuo medico della mutua. Qualcuno che capisca dove devi mettere il TFR quando cambi azienda. Una squadra di paggi. Uno psicologo che ti aiuti ad adattarti ai ritmi e ai costumi del nuovo posto di lavoro. La spesa a domicilio. Un cucciolo di foca da tenere in borsa, per superare i momenti difficili.
Voi fate, che io scrivo mezzo libro.

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Il problema è che questa cosa buffa devo assolutamente finirla. Ma proprio per orgoglio personale. Perché potrebbe essere divertente – e assai confortante – anche per gli altri. E perché, quando riesco a mettermici, fa gioia anche a me. Che mi sembra anche un po’ la ragione più valida, se proprio devo annichilirvi con un rigurgito di sincerità.
Nel tentativo di razionalizzare le mie difficoltà – al fine di superarle con un agilissimo Fosbury e/o di imbastire scuse sempre più sostanziose e plausibili – ho deciso di costruire una solida mappona cognitiva degli intoppi contingenti, psicologici e psicosomatici che mi stanno impedendo di mettere insieme un mezzo libro in relativa velocità. Il domandone che ci guiderà è il seguente. Che cosa succede a una persona normale e mediamente disorganizzata quando prova a scrivere qualcosa? Come sempre, ci faremo aiutare da un manipolo di volenterose bestiole.

N. B. Per offrirvi una riproduzione quanto più autentica e accurata possibile, i nostri fidi animaletti appariranno a caso, manifestando le più diverse emozioni senza alcun rispetto per le più basilari norme di causa ed effetto. Perché nulla è coerente e lineare, quando ci si imbarca in un’impresa del genere.

***

Ti è venuta un’idea. E, per una volta, è un’idea plausibile. Tutto è meraviglioso. Non vedi l’ora di iniziare. Sarà fantastico. Sarà divertente.
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Le muse sono dalla tua parte, lo senti. Le muse tifano per te. Pure quelle cieche, storpie e deformi. Soprattutto loro, probabilmente.
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Mezz’ora a smanettare e hai addirittura prodotto un indice. Vittoria imperitura! Vulcani che eruttano cuccioli! Parate e pasticcini! C’è l’indice… hai praticamente finito! Cioè, una volta che c’è la struttura sei a posto, devi solo metterti lì e scrivere i fatti tuoi in bell’ordine. Che sarà mai. L’indice esiste, la salvezza è tua!
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Che facciamo, la buttiamo giù l’introduzione? Insomma, lo sanno tutti che l’introduzione bisogna farla alla fine. Però è anche vero che senza introduzione non si capisce niente… c’è gente che dovrà leggere la bozza, come si fa senza introduzione. Ma servirà? Cioè, a livello narrativo? La diamine di introduzione ha un’effettiva utilità nell’economia del racconto che ci accingiamo a sviluppare? Farne una zoppa potrebbe essere peggio che non farla affatto. Non è che si può sempre dire “eh, ma poi la metto a posto, non vi preoccupate che arriva”… (per comodità, troncheremo qui le riflessioni sull’introduzione. Ma aggiungete un 4 giorni di ritardo al GANTT del vostro libro).
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Cos’è che suona. Cos’è. Che c’è ancora. Non sarà mica la lavatrice?
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Eh, è la lavatrice. Niente. Stendo e vado a letto, che è già mezzanotte e mezza. E domani è pure lunedì. L’indice, ho fatto. L’indice e basta.
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Ma ha senso che io ci perda del tempo? Voglio dire, non ci farò mai un soldo, scrivendo delle cose… né ora né mai. E ho fame. Vorrei una pizza con le olive. Per comprare le pizze ci vogliono delle risorse economiche, delle entrate stabili. Ma chi me lo fa fare? Mi attende un destino di povertà, frustrazioni e stenti. Se voglio piantare lì, questo è il momento giusto. Cioè, al massimo butto nel cesso un misero indice… capirai.
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…c’è anche da dire una cosa, però. Che mi frega. Sono ereditiera dentro. Dentro, sono una nobile rampolla che porta la 38. Suono l’arpa, ricamo, dipingo e scrivo. Procediamo, tanto ho una rendita annuale di 47 mila franchi!
Ah, la meraviglia dell’ispirazione ritrovata! Ah, l’entusiasmo di una storia che germoglia! Cielo, l’impetuoso potere di un animo saldo!
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Però fuori c’è il sole. C’è caldino. Fuori c’è il mercatino dell’antiquariato che sono sei mesi che ci voglio andare. E dovrei pure fare la spesa. Perché mi sono messa in testa di scrivere questa roba. Ma chi me lo fa fare. Ho ancora tutta la vita davanti.
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Ho tutta la vita davanti… ma che cosa ci farò? Ho trent’anni. Ormai non sono più una bambina prodigio. Sono un relitto. Non ho combinato niente. Non sto combinando niente. E non combinerò mai niente. Che scoramento. Ed è pure finito il Braulio.
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Che cretina! Sto scrivendo un libro, non sto mica fondando Google! È tutta un’altra faccenda! Anche a cinquant’anni compiuti, sarò comunque una GIOVANE SCRITTRICE! Ma è bellissimo! Sono praticamente una neonata! Dove sono i miei minipony! Portatemi un saccottino all’albicocca!
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Esultate, genti del mondo, ho finito un altro capitolo! Inchinatevi alla sfolgorante magnificenza della mia arte!
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Dai, questa qui è proprio una bella frase. Chissà come m’è uscita. Non ne ho memoria. Sono evidentemente posseduta da un irrefrenabile afflato d’ispirazione.
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Perché. Perché ogni volta che apro il file – specialmente se è passato qualche giorno dall’ultimo DECISIVO intervento – mi sento il dovere di rileggere sempre tutto da capo. Perché. Che qualcuno ci metta delle password.
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Non importa, non importa. Nulla mi scalfirà. Tutto questo è ridicolo, ma non fa niente. Ho perso un po’ di tempo… ma ho un piano corazzatissimo. Ed è il piano che conta. Lo vedo, è solido. Anzi, tridimensionale. Basta procedere un pezzettino alla volta, con pazienza.
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Mai. Non finirò mai. Solitudine e patimento.
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Puoi abbassare la TV, gentilmente? Qui c’è gente che CREA.
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Flavia, hai voglia di leggere il capitolo nuovo? Niente di che, non pigliarti male. Tanto per capire se ridi o se ti vengono le convulsioni. Senza rancori, davvero. No ma solo se vuoi, non voglio mica farti ansia, ci mancherebbe. Ti piglio il computer, ti metti lì sul divano e io finisco di preparare la pasta. Vado di là, ok? Così non ti disturbo…
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Cioè. La Flavia ride. Ma anche con una certa spontaneità. Che vorrà dire. Che devo pensare. Va bene, no? È una scoperta positiva… è un segno della benevolenza dei cieli. O magari ride perché è gentile. E sa che la sto spiando da dietro lo stipite della porta.
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Forse ci sono un po’ troppi neologismi. Non ne ho la certezza, ma il sospetto è assai fondato. Non sono mica Michele Mari… se vedono un altro “POFFOSO” mi mandano a stendere.
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Smettetela di invitarmi agli aperitivi. Dimenticatemi.
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Smettetela di invitarmi alle cene. In posti buonissimi. Che costano poco. E dove si mangia un botto. Smettetela e basta.
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Io ho sonno, capite? Ho bisogno di dormire, di riposarmi. Non invitatemi al Plastic. Questi weekend sono importanti. Mi serve TEMPO. Non posso sprecare le mie domeniche a boccheggiare sul divano, nel remoto tentativo di ripigliarmi da orrori, disavventure e panini pesantissimi ingurgitati alle sei del mattino.
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Scusami. Pensavo di avere qualcosa da mandarti, ma sono ancora troppo indietro. Non dimenticarmi, però. Io sono qui. Che m’impegno. Con scarsi risultati, ma m’impegno davvero. Non lasciarmi. Non abbandonarmi. Trattami come se fossi una persona seria. Con le traduzioni sono puntualissima… puoi chiederlo a chi ti pare. Giuro. Ce la farò, te lo prometto.
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“Cara Francesca, ci servirebbe la traduzione di questo nuovo romanzo per ragazzi. È un libro molto divertente e per noi si tratterà di un lancio importante. Sei libera? Pensi di farcela in un mese e mezzo? Ti ringrazio moltissimo”.
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HANNO BISOGNO DEI MIEI SERVIGI. E VOGLIONO PURE PAGARMI (A 60 GIORNI DALLA CONSEGNA DEL LAVORO). NON TEMERE, VALOROSO EDITOR, STO ARRIVANDO!
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Le vacanze… mi pagherò le vacanze senza andare in rovina. E in vacanza, finalmente, avrò un sacco di tempo da dedicare al mio libro. Che bel piano. Andrà tutto fantasticamente bene.
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Molto bene… sono passati due mesi. Dove eravamo rimasti?
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Non lo so. Non lo so più. È come se mi fossi appena svegliata da dieci anni di coma. Chissà come volevo andare avanti. Chissà quante idee MIRABILI si sono dissolte. Come lacrime nella pioggia. Come peli nello scarico.
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Ed eccoci qua. A ricominciare da capo per la ventesima volta.

 

Se mai ce la farò, sarete i primi a saperlo.

 

 

MADRE non crede nei surgelati. Anzi, se proprio devo dirla tutta, MADRE non si fida dei surgelati. Sono troppo semplici, troppo immediati. Deve per forza esserci sotto qualcosa. Una roba che la butti in padella e dopo sei minuti è pronta? Stregoneria! Veleno! La Findus vuole annientare l’umanità! Presto, facciamo i bagagli e ritiriamoci in campagna! Zapperemo la terra e ci nutriremo di bacche, radici e ortiche. E buttiamo anche il forno a microonde! MADRE, alla fin fine, non crede neanche nei condimenti. Cucina molto bene, ma l’unto la terrorizza. Così come il fritto. E il burro. Se deve fare una torta che richiede l’utilizzo di 200 grammi di burro, MADRE – borbottando stizzita – ce ne mette 50. E le sembrano pure un’esagerazione. Nessuno ha ben capito come facciano a stare insieme, le sue torte. Il burro ci vuole anche per legare gli ingredienti, per rendere il dolce più morbido. A MADRE non interessa. Pur di evitare i canonici 200 grammi di burro, passa il pomeriggio ad accanirsi sull’impasto. Impasta furiosamente fino ad arrivare dove nessun Bimby è mai giunto prima. La forza bruta come sostitutivo del burro. A casa mia si può. E guai a chi si lamenta. La roba soffice è per gli scemi. A noi non interessa, noi siamo in grado di masticare anche i sassi.
Comunque, ieri – che era Pasqua – siamo andati a pranzo da MADRE e dal mio papà. E abbiamo scoperto una nuova, strabiliante sfumatura dell’ascetismo culinario di MADRE.

TEGAMINI – MADRE, l’arrosto è buonissimo.
MADRE – Ci credo, è filetto di vitello…
AMORE DEL CUORE – È vero, Valeria, è proprio buono. Ce n’è ancora?
MADRE – Francesca, posso dargliene un’altra fetta? Ne ha già mangiate quattro…
TEGAMINI – Non sono mica la sua dietologa. Dagli l’arrosto, santo Dio.
IL MIO PAPÀ – Francesca, prendigli anche due patate.
TEGAMINI – Ecco cosa volevo dirti, MADRE. Anche le patate sono molto meglio del solito. Cioè, lo sai che hai problemi con le patate, no?
IL MIO PAPÀ – Durissime. Asciutte. Secche.
TEGAMINI – Infatti. Queste qua sono quasi morbide. Sono un po’ insipidine, ma non c’è paragone.
MADRE – Sai che conquista. Tuo padre mi ha obbligata a comprare quelle surgelate.
AMORE DEL CUORE – Le Patate Saporite! Noi le mangiamo sempre.
TEGAMINI – Per forza. Cosa faccio? Sto lì cent’anni a pelare patate? E poi le tagli, le cuoci, le inforni, le condisci… ciao. Non sono mica in pensione. Non sono mica il mozzo della nave.
IL MIO PAPÀ – Quello che le ho detto io. Hai già cucinato tutta questa roba, Valeria, piglia due patate surgelate e siamo a posto. Sono anche buone.
MADRE – …sarà.
AMORE DEL CUORE – Ma quali sono? Quelle della Findus? Non mi sembra. Sono un po’ diverse da quelle che abbiamo provato noi.
TEGAMINI – E le abbiamo provate TUTTE.
MADRE – …
IL MIO PAPÀ – Sono diverse?
TEGAMINI – Direi.
IL MIO PAPÀ – Tua madre ha aperto la busta, ha versato le patate nella padella e poi s’è accorta che c’erano quelle mattonelline lì, quelle un po’ verdine.
MADRE – Che schifezza. Chissà che cos’erano.
TEGAMINI – Il condimento, MADRE. Che altro doveva essere.
IL MIO PAPÀ – Eh. Lei ha preso le mattonelline e le ha buttate via.

 

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Dunque. Siete andati a vivere da soli, finalmente. Ed è tutto bellissimo. Mangiate tonno in scatola cinque giorni a settimana (ricavando le vitamine necessarie al vostro sostentamento dal pomodoro che c’è sulle molteplici pizze che ingurgitate nel weekend insieme ai vostri amichetti), sperate che non vi caschi un bottone perché non ve lo sapete riattaccare e tornate a casa quando vi pare, senza dover fronteggiare vostra madre che, alle quattro e cinquanta del mattino, vi aspetta in camicia da notte al tavolo della cucina. Con una falce in mano.

Ma che cos’è che voglio dire.

I giovani virgulti che si levano dai piedi, tipicamente, sono costretti a lasciare a casa buona parte dei libri con cui sono cresciuti. In certi casi è meglio così. Spesso, però, è un gran peccato. Ma che ci volete fare. Col vostro stipendio vi potete permettere uno sgabuzzino per le scope, che libri volete portarvi. Pace, andrete all’Ikea, comprerete una di quelle mini-librerie da 22 euro e 90 e la ficcherete nell’unico angolo libero. E ci metterete i libri nuovi, quelli che vi accompagneranno trionfalmente in questa fase super avventurosa della vostra esistenza. I libri nuovi, dopo qualche mese, cominceranno ad invadere il pavimento. Si ammucchieranno sul comodino. Si impossesseranno di una porzione piuttosto rilevante del tavolo dove consumate frugalmente le vostre Spinacine. Vi sveglierete di notte per fare la pipì e, nonostante iTorcia, ne butterete in terra una pila. Ma sarete contenti, perché tutti quei nuovi libri li avete letti voi. E pazienza se non avete un posto decente dove immagazzinarli. Nel vostro disordine c’è comunque del criterio. Voi lo sapete. E che gli altri si attacchino al tram.

All’improvviso, se vi andrà particolarmente di culo, potreste innamorarvi a tal punto da decidere di traslocare, scegliendo consapevolmente di vivere con un altro essere umano. Una persona importante, la persona che potrebbe stare al vostro fianco per tutta la vita… o almeno così vi sembra. Farete il bucato, per questa persona. Mangerete negli stessi piatti. Vi scambierete fluidi corporei, a più riprese – e con una certa veemenza. Condividerete un bagno, delle lenzuola, la bottiglia d’acqua che sta vicino al letto per quando vi svegliate col mal di gola e non avete voglia di trascinarvi fino in cucina. Con questa persona programmerete delle vacanze, acquisterete un gatto anallergico e addobberete l’albero di Natale. Proprio voi, che immaginavate di invecchiare da sole – in una cantina buia piena di ratti scontrosissimi -, con questa persona riuscirete ad immaginare un futuro. Siete così felici e in pace che non litigate neanche. Vi verrà voglia di preparare delle torte. Maneggerete il terribile contenuto di una borsa del tennis piena di calzini sudati senza fare una piega. Per sbaglio, poi, una sera vi laverete i denti con lo spazzolino del vostro consorte. E, con vostra grande sorpresa, non verrete assaliti dall’irrefrenabile necessità di strapparvi la faccia.
Accadrà tutto questo. E anche qualcosa in più. La vostra gioia sarà così potente da condensarsi in una forma solida, sfaccettata e scintillante, che sventolerete con grande soddisfazione – e una certa tracotanza – in faccia alle vostre amiche. Ma nemmeno dopo aver ricevuto un anello di fidanzamento riuscirete a fare qualcosa di apparentemente semplicissimo. Nemmeno dopo aver tagliato una torta multistrato con sopra due improbabili dinosauri di ceramica riuscirete ad accettare l’idea mostruosa di disperdere e incasinare i vostri libri. Quelli vecchi, quelli nuovi, quelli che ancora dovete leggere. Sono vostri. Vi appartengono. Li avete portati in giro, vi hanno fatto compagnia, ci avete trovato dentro una quantità sterminata di cose. Vi piace girarvi e dire “Insomma, ho letto tutti questi libri. Vuol dire che qualcosa di buono l’ho combinato, alla fin fine”. E vi dispiacerà molto, ma non ce la farete proprio. Alla domanda “Gallina, ma nella casa nuova le possiamo unire le librerie?” risponderete ancora una volta con un risolutissimo NO. Le librerie no. Le librerie non si toccano, non si uniscono, non si ingarbugliano. Zero. Né ora, né mai.

 

Il regno è in festa! Abbiamo la libreria, finalmente! Vittoria! Saltini! Pioggia di cuccioli!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

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Ottone von Testimonial, lo Zoolander del mondo felino.

 

Il sogno di una vita.
Un’utopia che diventa realtà.
Un miracolo.
Un evento di portata interplanetaria.
Giuro, sono commossa. E vorrei anche un po’ piangere. Vorrei piangere tantissimo perché il mio gatto – lo stesso felino che mi ha squartato innumerevoli carichini del telefono, che ha devastato ogni pianta mai entrata in casa, che ha abbattuto alberi di Natale e sfondato vasi di vetro giganti, sconvolgendo la mia esistenza con potentissimi tifoni a base di palle di pelo -, il mio gatto – Ottone von Accidenti, flagello poffoso delle costellazioni – è diventato testimonial Gourmet.

MA VI RENDETE CONTO.

Dopo aver passato quasi tre anni a nutrirlo con considerevoli quantità di Gourmet Perle – avvincente ammasso di proteiniche ciccionate tritate, che lui ama con tutta l’anima (anche più di quanto mai amerà noialtri) -, la Gourmet si è accorta di Ottone von Accidenti. Proprio loro. Quelli che fanno le pubblicità con questi gatti bianchi pettinatissimi, gonfi come nuvole, eleganti ed estremamente garbati. Gatti leggiadri, che non si trascinano i pezzi di tonno in soggiorno e che hanno capito come si usa la porticina per uscire sul balcone. Gatti che sanno leggere in latino e attraversano con la massima serenità immense distese – minate – ricoperte di soprammobili in fine porcellana dipinta a mano. Gatti che suonano l’arpa e declamano versi di Catullo al sorgere del sole. Ottone, al sorgere del sole, ci corre fortissimo sulla pancia, svegliandoci di soprassalto in preda ai terrori più imprevedibili. E pesa sette chili.
Nonostante questi inconvenienti comportamentali – in fondo è ancora un felino adolescente… e temiamo che presto ci chiederà il motorino, oltre al permesso di tatuarsi le gattine nude sul petto -, Ottone è una creatura quasi celestiale. E proprio perché è un irrecuperabile e tenerissimo imbecille. Date le premesse, ho affrontato l’unboxing dello scatolozzo di Gourmet Soup – il nuovo cibino per gatti che ci hanno adorabilmente chiesto di collaudare – con una certa apprensione. E se gli fa schifo? Se si ritrae terrorizzato? E se non dimostra un sufficiente entusiasmo?
Mille paranoie. Per niente.

 

Un luminoso successo. Una voracità senza pari. Mille linguine rosa che guizzano felici. Fortissime miagolate di apprezzamento – volevo trovare il modo di aggiungere dell’audio (una di quelle musichette felici tutte trillose), ma un po’ non sono in grado e un po’ mi spiaceva coprire i versi di Ottone. È come vivere con uno di quei giocattoli che fanno SQUIK quando li schiacci. Solo che lui si schiaccia da solo. Ogni tre minuti. Insomma, Gourmet Soup è Ottone-approved. E, a quanto pare, è in ottima compagnia. Gourmet – ho scoperto – ha una sezione sul sito piena zeppa di gatti che si abbioccano felici dopo aver assaltato una ciotola dei loro mangiarini. Noi, ho già deciso, contribuiremo con questo impagabile ritratto. Ottone von Testimonial, in modalità FOCA MONACA.

 

Ottone von Testimonial paciosamente adagiato – come una foca monaca – in mezzo agli amatissimi #GourmetSoup. Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

Perché un gatto a pancia all’aria vale più di mille parole.

Grazie, valorosi produttori di cibo felino. Ci siamo divertiti un sacco, abbiamo imparato come si montano i video – Steven Spielberg, stiamo arrivando – e abbiamo anche scoperto che, quando si tratta di buttarla sulla telegenia, Ottone è molto più efficace di me. Ottone è nato per essere scandalosamente avvenente, adorabile e tondeggiante. Beato lui. E anche buon per me. Con tutti i brodini-mangiarini che c’erano nella scatola, non dovrò più frequentare la corsia del cibo per animali per almeno un mese. Dopo, però, sarò per sempre condannata a tornare a casa con tonnellate di Gourmet Soup. Tonnellate. Montagne. Cordigliere. Continenti.
Per sempre.

 

Ora ho capito perché le pubblicità le fanno coi gatti bianchi. #GourmetSoup

Un video pubblicato da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

Un tratto di costa disabitato da trent’anni.
Un confine invisibile che delimita una zona dove la natura è tornata a regnare indisturbata, generando un’anomalia capace di sovvertire le leggi della materia, del tempo e del ricordo.
Un’organizzazione governativa top-secret.
Quattro donne – una biologa, una psicologa, un’antropologa e una topografa – pronte a lasciare il “nostro” mondo per decifrare definitivamente il mistero dell’AreaX – nonostante il fallimento delle dodici spedizioni precedenti.
Un faro.
Un tunnel.
E voi lettori, che vi prenderete proprio benissimo.

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Per questo libro ho provato un amore istantaneo. Ne ho sentito parlare per la prima volta in casa editrice, lo scorso anno. C’è una riunione, ad un certo punto, che serve a spiegare a tutti quanti che libri usciranno in un certo periodo. Arrivano gli editor, distribuiscono un mucchio di fogli di carta e raccontano – a quelli che fanno un lavoro decisamente meno bello del loro – che cosa vogliono pubblicare. Sulla Trilogia dell’AreaX di Jeff VanderMeer si sono dovuti impegnare un casino. Un po’ perché VanderMeer, con la sua sterminata produzione di romanzi fantasy e fantascientifici, non è proprio un classico personaggio da Supercoralli, e un po’ perché la Trilogia è, senza dubbio, un serpeggiante oggetto non identificato. Vivo. Anzi, mutante. Nei mesi successivi, un po’ alla volta, mi sono letta tutti e tre i romanzi, stupendomi moltissimo per la costruzione icredibilmente precisa, per le complicatissime e grandiose stratificazioni della narrazione, per i millemila piani temporali e per la vasta e diffusa stramberia del mistero che mi ero trovata ad esplorare.

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L’edizione americana della Trilogia. Mi sembrava sufficientemente arrogante, ma ancora non avevo visto il Supercorallo.

Sono proprio superfelice, dunque, che Annientamento sia finalmente arrivato in libreria, devastando le gabbie grafiche einaudiane con un bombardamento di stelle marine fosforescenti, piante striscianti, conigli bianchi e faldoni pieni zeppi di documenti segreti. Il primo volume della Trilogia è uscito questa settimana, mentre AutoritàAccettazione si potranno leggere a giugno e a settembre. Non sono abbastanza colta per lanciarmi in dissertazioni sul New Weird – genere ibrido “inventato” da VanderMeer medesimo – o per produrre una saggia carrellata di illustri paragoni letterari, ma posso provare a trasmettervi tutto lo stupore e la gioia che ho provato nel trovarmi davanti a una storia così profondamente bizzarra e tentacolare. Annientamento è un romanzo fatto di metamorfosi inspiegabili e, allo stesso tempo, perfettamente plausibili – almeno all’interno di un mondo naturale che fagocita e “digerisce” tutto quello che incontra. È un romanzo in cui il senso di minaccia è costante, quasi come il bisogno fortissimo di scoprire la verità. È un libro in cui ogni personaggio diventa parte integrante del grande enigma dell’AreaX, dove ogni elemento – anche il più comune – diventa qualcosa di “altro”, incomprensibile e lontanissimo. Vi imbatterete in condizionamenti psicologici, menzogne, scienziati quasi pazzi, mariti perduti, taccuini e costruzioni sotterranee che compaiono all’improvviso sulla mappa. VanderMeer, particolare dopo particolare, costruisce un intero mondo, governato da leggi complesse e destinato a stravolgere la realtà che conosciamo.
Cioè, mica bricioline.

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Le copertine dei tre romanzi – tutti tradotti da Cristiana Mennella – sono state magicamente disegnate da Lorenzo Ceccotti. Se volete sentire che lavoraccio è stato, qua c’è il video-discorsone che Lorenzo ha preparato per me e per gli altri fortunati blogger e giornalisti gitanti (più Michela Murgia) che si sono precipitati alla presentazione della Trilogia in casa editrice, con tanto di Jeff VanderMeer (sommerso da gatti incredibilmente affettuosi ed espansivi) in collegamento Skype.

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Avevamo un maxischermo, milioni di cose interessanti da ascoltare e tutti i comfort possibili e immaginabili, ma uno dei momenti più memorabili ci è stato regalato dagli Annali della Storia d’Italia, trasformati in un versatile e sapiente tavolino.

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Se, invece, la faccenda del PVC trasparente vi ha dato dei pensieri e non siete troppo sicuri di aver capito bene, non vi resta che dare un’occhiata ad Annientamento. A denudarvelo ci ho pensato io.

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Per concludere – e per facilitare il vostro avvicinamento all’Area X, mentre aspettiamo che la Trilogia arrivi al cinema (come ci ha anticipato il buon VanderMeer) – mi sono sentita in dovere di compilare una breve lista di tutto quello che potrebbe spaventarvi a morte dopo aver terminato la lettura di Annientamento:
– i delfini
– i bruchi
– i vasi di fiori e la vegetazione nel suo complesso
– i vostri amici che han studiato psicologia e vi rivelano che l’ipnosi è una roba interessantissima
– il vostro analista
– le agende Moleskine
– la gente che grida e si lamenta (soprattutto se non potete vederla)
– la predica in chiesa (se già non vi fa paura)
– la burocrazia
– X-Files
– il giardiniere
– i funghi
– le spore
– il muschio
– le pareti umide
– la muffa
– i fari abbandonati
– il direttore generale del posto dove lavorate
– i sotterranei
– le scale
– l’orizzonte
– le grandi distese d’acqua
– tutto quello che al mondo c’è di fosforescente.

Spassatevela, caroni. E non preoccupatevi troppo: finché la spia rossa sul vostro scatolino non si accende, siete al sicuro.

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Grazie di cuore ad Einaudi per avermi fatta tornare a casa… almeno per una giornata.
Grazie a Canon per avermi permesso, ancora una volta, di fare delle foto sensate con la G7X.
E grazie ai librai che capiranno dove esporre Annientamento. Non mettetelo nella sezione del fantasy. Non mettetelo nella sezione fantascienza e nemmeno in mezzo ai romanzi per ragazzi. Pigliatene una pila alta così e piazzatelo davanti alla porta. Perché è lì che deve stare. 

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A Parigi, si sa, c’è Chanel che ci tiene a fare bella figura. Un anno sì e l’altro pure, Chanel s’inventa la sfilatona a tema. Han fatto il supermercato, han fatto l’iceberg gigante e, stavolta, c’era la brasserie. Modelle che si bevono le tazzette di tè, Anna Wintour con un tovagliolo sulle ginocchia, camerieri col grembiulone. Il supermercato, devo ammetterlo, ci ha regalato momenti bellissimi. Alla fine della sfilata, giornaliste e fashion blogger si sono avventate sugli scaffali finti per fottere a Karl Lagerfeld i detersivi di scena. C’era di tutto. Prosciutti Chanel, formaggini Chanel, cereali Chanel. La sicurezza, ad un certo punto, è dovuta intervenire sparando sulla folla un sedici tonnellate buone di lacrimogeni Chanel. La gatta Choupette, nel frattempo, ordinava al suo maggiordomo personale un’altro chupito di latte d’asina.
E Valentino?
Mentre personaggi improbabili cercavano di portarsi a casa la cartaigienica Chanel, da Valentino si trovavano modi per far stare l’intero sistema solare su una gonna. Ci sono voluti anni, ma questa gonna galattica sono addirittura riusciti a finirla. C’è un ricamo per ogni stella del cielo. E mai nell’universo ricapiterà una simile meraviglia.

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E oggi, con il garbo dell’arte e la grazia di una principessa che sconfigge la tisi, Valentino ha fatto sfilare Derek Zoolander e Hansel. Come se fosse la cosa più normale del mondo.
Iperventiliamo insieme.

Zoolander 2 At The Paris Fashion Week

Ora, questa roba non l’ho messa qui perché avevo voglia di fare dell’informazione. Lo sapete già tutti che l’anno prossimo esce Zoolander 2 (febbraio, amici, febbraio), che lo girano a Roma, che Mugatu ha inventato la cravatta a tastiera e che questo edificio deve essere almeno due volte più grande. L’ho messa qui perché non sapevo più come contenere la mia gioia. Anche perché i secoli passano e i manisti invecchiano, ma Zoolander non ha ancora imparato a girare a sinistra.

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Applausi e bravi tutti. Le meta-cose mi fanno impazzire. Un po’ come il maglione di Mugatu che desidero da ormai due lustri. Se conoscete una sartina che abbia voglia di fabbricarmene una replica, sapete dove trovarmi. Vi ripagherò con un Orange-Mocha-Frappuccino. E due galloni di benzina.
E ricordate sempre: siete dei sirenetti.
E ciao Chanel, ciao. Tieniti pure le tue baguette.
E grazie, Ben Stiller. Ci hai finalmente dato retta.

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Dinosaur-Flares

Amore del Cuore.
Eh.
C’è una roba che non ho mai capito.
..ma in che ambito?
Jurassic Park.
Ah, ok. Tipo?
Tipo la faccenda del tirannosauro guercio. Ogni volta che c’è in giro un tirannosauro, il professor Grant tappa la bocca di un nipotino di Hammond a caso e grida – sottovoce, però – STATE FERMI! SE NON CI MUOVIAMO NON CI VEDE! Ma come non vi vede. È un tirannosauro alto sei metri, come fa a non vedervi. È un predatore, vederti è il suo lavoro. Capisco che uno possa anche annusarti tantissimo, ma mi rifiuto di credere che il tirannosauro abbia dominato la terra per milioni di anni senza vedere un cazzo di niente. Da dove viene questa teoria del tirannosauro che non ti può vedere? Chi l’ha deciso? Com’è possibile?
Stai forse mettendo in dubbio l’autorevolezza del professor Grant? Anni di ricerche. Di scavi. Di devozione alla paleontologia. Di amore per i velociraptor. Quello che dice il professor Grant è DOGMA!
Ma come fanno ad esserne sicuri! Come l’hanno scoperto? Cioè, che cos’hanno trovato del tirannosauro? Il teschio. Un po’ di ossa. Un nido, magari. Dei dentoni. Delle orme. Com’è che, da un testone fossile, si arriva alla certezza dogmatica del tirannosauro che non ti vede se stai fermo? Non ci sono più neanche gli occhi, in quei teschi lì! Che ne sanno. Non capiamo neanche come funzionano le balene, che cosa vogliamo saperne di come ci vedeva il tirannosauro? E le balene sono ancora vive! Nuotano! Fanno quei versi lì a trombone, si spiaggiano. Ecco! Manco capiamo perché le balene si spiaggiano, e siamo qui a fare i fenomeni con i tirannosauri!
Avranno studiato gli scheletri, com’erano messi. I branchi. Le prede. Il territorio. La composizione delle ossa. Si capirà dalle dimensioni del cervello, dalla conformazione delle orbite, dalla struttura cranica…
Ma chi se ne frega! Non può essere vero! Con tutto il rispetto per la struttura cranica, ma proviamo un attimo a generalizzare… il tirannosauro vede solo la roba che si muove. Cos’è, se c’è un albero non se ne accorge? Come fa con il paesaggio? Mica si sposta. Tirannosauri che sbattono contro le montagne, che inciampano nei massi, che si sfracellano contro le piante. Tirannosauri che non capiscono dove si trovano, che vagano ciechi in una pianura desolata agitando forsennatamente le braccine! Ma è una solenne stronzata! È questo che vogliono farci credere? Io mi rifiuto categoricamente di ritenere anche solo accettabile questa-
Stai tranquilla, va tutto bene. Non preoccuparti. Vado a fare una camomilla…

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Amore del Cuore? Amore! Ciao! Sono tornata! Mi scappa la pipì! Aspetta che vado in bagno, così poi ti racconto tutto! Ma dov’è il gatto? OTTONE! OTTONE! Ma sei qui, PATATA! Cosa fai sempre nel bidet? Sembri un castoro gigante! Ti siamo mancati? Hai già mangiato tutte le crocchettine? Amore del Cuore! Che ore sono? Mamma mia, che sonno. Sto per morire. Guarda, sarei tornata prima, ma c’era Gabbia che continuava a fermare venditori ambulanti perché voleva un bastone per farsi i selfie. E loro lì a svuotare lo zaino per farglieli vedere. Uno l’ha tenuto lì mezz’ora, senza comprargli niente, poi. Quando se n’è andato l’ha anche mandata a cagare… insomma, non mi sento di biasimarlo, francamente. Comunque, abbiamo mangiato abbastanza bene. Cioè, l’antipasto era buono, il secondo mica tanto. Un polpettone un po’ molliccio, pesantissimo, prosciuttoso… ti dirò, niente di che. Di antipasto invece ci hanno portato tutti questi fritti super strani, con le verdure, le croccoline, le mozzarellette. Bisognerebbe andarci solo per quei cosi lì. Il posto è carino, anche se hanno quattro tavoli in croce e una scala a chiocciola che un giorno ammazzerà qualcuno. Ah, ma lo sai che quest’estate vogliono prendere la macchina e andarsene in giro tutte insieme? E mi hanno sgridata tantissimo perché non abbiamo ancora fatto la festa di inaugurazione della casa. Ma che ansia. Poi c’è la Giorgia che sta cercando un bilocale qua vicino, che vuole avvicinarsi un po’ all’ufficio. Fa tutto schifo, comunque. Catapecchie, ruderi. Robe scrostate. Soppalchi pericolanti. Per carità. Almeno non è capitato solo a noi… è anche vero che tutte le case di merda te le sei sorbite tu, Amore del Cuore. Io ho visto solo quella bella. Comunque, si fanno tutte la manicure col gel. Ma quando ci vanno? Io sono qua che manco riesco a smaltarmi le unghie in casa, figurati. Che poi te non lo sai, ma il gel è uno sbattimento cosmico, per fartelo togliere devi andare dalla tizia, che ci vuole un solvente speciale e da sola non puoi mica farlo. Ma che voglia hanno? Ad un certo punto siamo andate in questo posto qua in via Vigevano, che Giovanna è single. Ci siamo guardate un po’ intorno ma non c’era molto materiale. Il problema, secondo me, è che c’è pieno di uomini bassi e incredibilmente pavidi. Non fanno mica come te e Andrea. Nessuno che viene a dirti due cazzate, zero. Ad un certo punto è anche passata una tizia con un cane grosso come una pallina da tennis. Lo teneva in braccio, in una specie di fagottino. Solo che era così piccolo che sembrava una spilla. Non so come facciano a vivere, quei canini nani lì. Ma sanno camminare? In casa nostra durerebbe cinque minuti. Se lo pesti muore. Ah, ho raccontato a tutte che in ufficio abbiamo il cane. Cioè, non è mica il cane di tutti ma… hai capito, te l’ho già spiegato come funziona. E niente, erano molto stupite. Da loro manco gli fanno tenere la tazza per berci il tè al pomeriggio, figuriamoci. Una valle di lacrime. Alla fine, però, non è che sono quella che torna più tardi. Mi rompi tanto le balle, te, ma loro arrivano a casa alle nove e passa tutti i giorni. Cioè, come se io ti sgridassi perché la sera fai le copertine! Mi sono mai risentita? Ma va! Ah, mi hanno detto che c’è un sarto bravissimo, qua dietro. Ci ha portato un po’ di roba la Cri ed era molto contenta. Forse riesce anche a metterti a posto i pantaloni, quei jeans lì con lo strappo nel sottopalla. Dobbiamo esplorarlo di più, questo quartiere. Non sappiamo una mazza di niente. Dove eravamo prima sapevamo cosa fare e c’erano un milione di market cinesi sempre aperti… qua un po’ meno, ma se non ci applichiamo non è che possiamo migliorare la situazione. Documentiamoci, facciamo dei giri, guardiamoci intorno. E basta, mi sono divertita. I cocktail buoni, comunque, non ci sono più da nessuna parte. Un litro di benzina, mi hanno dato. Che schifo, cazzo. E te? Com’è andata? Chi c’era? Dove siete stati? Cos’avete fatto? Che ti hanno detto?

Ma no, niente. Tutto a posto. Ho mangiato un casino.

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vedileggi

Benvenuti, questo è il Vedileggi. La rubrica che esiste – suo malgrado – per raccontarvi che cosa ho letto e visto nel mese X. Questo mese – e solo per questo mese -, X = febbraio. Grande Giove! Sembrerebbe una gloriosa rottura di balle… e invece no. Perché ci sono le GIF animate.

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Lucy

Sono dieci minuti che provo a scrivere qualcosa su questo film di Luc Besson, ma non so da che parte cominciare. Sul serio, il disagio mi strangola. Atteniamoci dunque ai fatti. Scarlett Johansson, sfigurata da un infelice taglio di capelli, viene rapita da un pingue gangster asiatico e, dopo un intervento chirurgico incredibilmente rapido, si ritrova con la pancia imbottita di bizzarri sacchetti di droga. A questo punto, Scarlett-Tacchino-Ripieno-Johansson viene presa a calci da un carceriere poco lungimirante e, grazie a una qualche diavoleria cellular-metabolico-molecolare, la droga comincia massicciamente a fondersi con il suo nobile organismo, trasformandola in una specie di Gesù telecinetico che tutto vede, tutto sa e tutto può. Il domandone generale è il seguente: che cosa accadrebbe se usassimo il 100% delle nostre facoltà cerebrali? Che problema c’è, chiediamolo a Morgan Freeman. Il distinto signor Freeman, ancora una volta, viene chiamato ad interpretale uno dei tre ruoli che ha passato la vita a perfezionare: la divinità, il saggio, il presidente degli Stati Uniti. Qua, visto che fa il genetista – o qualcosa del genere – possiamo farlo passare per saggio. Senza riuscire a nascondere il proprio imbarazzo – ogni volta che dice qualcosa, infatti, Besson ci attacca dietro degli improbabili spezzoni di documentario pieni di mufloni che crepano, coccodrilli che nuotano e mangrovie che crescono -, Morgan Freeman accoglie Scarlett-Gesù nel suo laboratorio, assistendo alla sua trasformazione finale in un mucchio di nafta semovente.
Ma quindi il senso della vita…?
Ma allora l’umanità dovrebbe…?
Cioè ma cosa possiamo imparare da questa strabiliante metafora di…?
Ma noi…?
Ma allora la scienza…?
Non ci sarà dunque mai dato sapere come fare a…?
…io non lo so. Sarà che uso una porzione troppo esigua del mio cervello.
E un gigantesco WTF solcò il cielo.

The-Big-Lebowski-WTF-Gif

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Nymphomaniac II

Cosa facevamo, ne guardavamo solo un pezzo? Giammai!
Mi ha messo una tristezza unica, questo secondo capitolo. E non tanto perché la povera Jo sia una che si diverte a farsi prendere a scudisciate da Billy Elliot, macché, è il finale. Ci sono rimasta male. Malissimo. Disperazione e scoramento. Non perché sia un “brutto” finale – anzi, è assolutamente glorioso -, ma perché è proprio uno sputo in faccia a tutto quello che di buono e bello ti aspetteresti dall’umanità. Una tempesta di cacca che investe il bucato bianco di vostra nonna. Una slavina che travolge una capanna piena di gattini e speranza. Il cavallo Artax che affonda nelle sabbie mobili, mentre il Nulla vi fa dei pernacchioni.
Aaaaah! Ma andatevene tutti quanti a quel paese!

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Marco Peano, L’invenzione della madre (Minimum Fax)

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Quando è uscito questo libro, l’intera galassia ha esclamato ERA ORA, PERBACCO! Non si sa perché, ma tutti sanno – da sempre – che Marco Peano è uno scrittore. Dev’essere l’andatura. La roba strana che ti racconta. O l’incredibile coerenza che lo spinge a vestirsi sempre e solo di nero. O Michele Mari che vuole essere seguito solo da lui, quando gli esce un Supercorallo nuovo. Non so, se si fida Michele Mari, chi siamo noi per dubitare. Insomma, si sapeva già, che Marco Peano avrebbe scritto qualcosa, prima o poi. E finalmente abbiamo L’invenzione della madre.
Non so cosa mi aspettavo, da questo libro. Quando una persona che conosci – anche solo un pochino – scrive qualcosa, si cerca di fare un passo indietro e di non partire prevenuti. Ti viene anche un po’ d’ansia… e se poi è una scemenza? E se non lo capisco? Insomma, se una persona che conosci scrive un libro, senti il bisogno di creare una piccola distanza, e di fartelo piacere. Ecco, L’invenzione della madre vi toglierà dall’imbarazzo. Una storia così non ti può piacere. Almeno non come potrebbe garbarti una tortina tutta glassatina, fruttatina e zuccheratina. L’invenzione della madre, tanto per farvi capire, è un po’ come pigliare uno che soffre di vertigini e appenderlo a un viadotto. È un libro durissimo, indigesto, doloroso. Vi verrà voglia di sbudellarvi in Piazza Duomo, coi piccioni che vi becchettano le palle degli occhi. Un libro capace di conciarvi in una maniera così miserabile è raro e prezioso. E sono felice che Peano sia finalmente riuscito a farcelo leggere.
Tié.

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Antonio Riccardi, Cosmo più servizi (Sellerio)

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In questo volumino troverete incresciosi segreti di famiglia, animali impagliati – a Parigi, mica a Buccinasco -, giardini congelati, pietrificatori di materia viva, diorami, montagne di gazzelle artisticamente carbonizzate, cimiteri monumentali e vecchie zie veramente devotissime. Questa raccolta di saggi, in pratica, è una puntata di Mistero… solo che non c’è Pinketts che ronfa su una seggiola. Ci sono, invece, curiosità super leggiadre e meraviglie nascoste, ricordi che si mescolano a pomeriggi passati al museo, cose antiche – spesso decomposte – e installazioni iper tecnologiche, libri, bellezza e carabattole.
Gioia, amici. Gioia.

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Birdman

Amore del Cuore, ma hai visto? Sembra un unico piano sequenza! E quanto è stronzo Edward Norton? Cioè, è proprio Edward Norton! Anche Michael Keaton è lì che racconta la sua vita! E c’è addirittura Carver! E gli occhi di Emma Stone SONO SEMPRE PIÙ GROSSI! Come diavolo è possibile! Non ci credo, la batteria che ci rintrona da mezz’ora? È quel tizio lì! …ma dici che vola veramente? Che dialoghi interessanti e ingarbugliati… va bene, certe volte parte un pippolone, ma mi sorbisco volentieri anche quello. Cielo, la magia del teatro! La telecinesi!
Birdman mi è piaciuto moltissimo. Sarà perché è un po’ un oggetto volante non identificato. Sarà perché è qualcosa di incredibilmente bizzarro e originale. Sarà che è bello quando il cinema, di tanto in tanto, ti spiazza con qualcosa che non ti aspetti. Stupore, amici dei cuccioli. Stupore.

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Better Call Saul – 1×01 + 1×02

Orfani di Breaking Bad, accorrete – ma non troppo velocmente! Saul Goodman è venuto a soccorrerci… anzi, Saul Goodman e una valanga di altra gente in vena di divertirci con assurdi cameoS. Cameo ce l’ha un plurale? Perché CAMEI mi suona veramente malissimo.
Comunque.
Better Call Saul comincia in bianco e nero. All’insegna della mestizia, del fallimento e della pasticceria industriale. E non è che la vita del nostro eroe, prima di diventare effettivamente il Saul Goodman che conosciamo, sia poi tutta questa gran festa. Scopriremo che, da giovincello, si guadagnava da vivere spaccandosi le gambe sul ghiaccio. Di proposito. Ci troveremo di fronte ad abissi di squallore senza fondo, da studenti che si accoppiano con teste mozzate ad uffici-ripostiglio nel retro di deprimenti saloni di bellezza cinesi. Better Call Saul è un mini-festival del grottesco, dell’espediente maldestro e del malinteso. E, no, per ora non è Breaking Bad, ma ho molta voglia di vedere come andrà a finire. Saul, d’altra parte, ha sempre bisogno di un pochino di tempo per carburare. In alto i bicchieroni di caffé.

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Vikings – 1×03 + 1×04

Ve lo dico con sincerità. Vikings lo guardo solo perché sono tutti incredibilmente arroganti, biondi e sbruffoni. E per imparare a farmi le trecce come una vera guerriera. Nemmeno nel diamine di Trono di Spade ci sono delle pettinature così gloriose, improbabili e barocche. Lagertha, conducimi dal tuo parrucchiere!

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Italiano medio

Maccio Capatonda ha allietato gli anni migliori della mia vita. Una sera l’ho pure incontrato nel posto meno avvincente del mondo. A Piacenza c’è questo locale che si chiama Baciccia. Una specie di cascina trasformata in un serraglio per gli amici della birra. Niente, una sera – come sempre senza senso – siamo andati al Baciccia e ci siamo accorti che, lì in mezzo agli altri esseri umani, c’erano Maccio Capatonda e Rupert Sciamenna. Perché erano lì? Che cosa speravano di trovarci? Da dove arrivavano? Avevano già fatto visita al sudicio paninaro in fondo alla strada? Che ne pensavano della mia città natale? Ci sarebbero mai tornati? Chi lo sa. Ci siamo fatti una foto insieme e tanti saluti.
Perdonatemi, ma ci tenevo proprio a raccontarlo. Tutti hanno un aneddoto insignificante, da qualche parte. Se c’è un VIP, poi, ancora meglio. Per dire, MADRE ripete da trent’anni che, una volta, Ornella Muti mi ha presa in braccio. Anche lì, nessuno ha mai capito perché. Ornella, ti prego, spiegamelo.
Dicevamo?
Ah.
Dicevamo che Maccio Capatonda è stato molto importante per me. Ho passato settimane bianche a intonare i lamenti di Mariottide in seggiovia. Ho cercato invano di scoprire che faccia avesse il piccolo Riccardino Fuffolo. Tutt’ora, alla bisogna, dichiaro di avere i pugni nelle mani. E, ogni volta che vedo un medico, la prima cosa che vorrei fare è strillargli DOTTORE CHIAMI UN DOTTORE. Maccio Capatonda è un genio. È il maestro indiscusso della trollaggine. Ed è il capo degli zarri, anche se riesce a farsi passare per un acuto e illuminato mago della satira.
Ma chi se ne importa.
SCOPARE!
Per me, alla fin fine, Italiano medio è soprattutto un collage di antiche felicità. Certo, fa ridere. Chiaro, si potrebbe addirittura sostenere che smascheri con sagacia e impareggiabile acume ogni bruttura della nostra società, dal menefreghismo dilagante all’ignoranza più gretta e distruttiva. Io, però, mi diverto un sacco anche a guardare cinque minuti di Anna Pannocchia in tutù rosa – e rasta – che balla in un corridoio.

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Lehman Trilogy (Piccolo Teatro)

Avevo vicino questa signora fastidiosa. La classica signora con il sedere ripieno di suricati, quelle che vanno a teatro perché così possono dire che sono intelligenti, quelle che fanno SHHHH se qualcuno osa ridere un po’ più forte degli altri e che si stizziscono se, accidentalmente, la codina della tua sciarpa finisce per invadere – di massimo un centimetro – il loro spazio vitale. Ebbene, io – che passo le giornate a guardare le lontre neonate su internet – ho spavaldamente affrontato cinque ore di spettacolo senza battere ciglio. La signora, invece, si è ingloriosamente addormentata a metà del primo atto, facendomi incazzare come una bestia. Ma che storia è! Vieni qua a fare la paladina delle arti, ci rompi i coglioni per un colpo di tosse e a “Lo spettacolo sta per iniziare. Si prega di silenziare i cellulari” commenti “Ah, sarebbe anche ora…”, e poi ti addormenti come una mondina devastata dagli stenti e dalla disidratazione. Non sai dove buttare i tuoi 40€? Dalli a me, invece di comprarti i biglietti di Lehman Trilogy! Maledetta!

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Sempre alla fine del primo atto – della durata di due ore e trentacinque minuti -, i vicini di Amore del Cuore ci hanno deliziato con la seguente conversazione.
Ah, ma no, il Giangi tirerà su duecentomila l’anno.
Vabé, capirai.
Eh. Ma ti pare?
Ma guarda te.
Senti, però. Ti chiedo una roba, che non so mica se ho capito.
Dimmi, ciccia.
Ma questi Lehman qua.
Eh.
Sono quelli della Lehman Brothers, no? Che magari mi sono persa qualcosa, non lo so.
Sono loro, ciccia.
Ah, ecco.
Sono quelli che hanno causato la crisi!
…merde!
Luca Ronconi, grazie al cielo, non è stato costretto ad assistere a questo scempio. Comunque, Lehman Trilogy viene da un libretto di Stefano Massini (che potete comodamente leggervi anche nella Collezione di Teatro made in Einaudi). E noi ce lo siamo visto al Piccolo (QUELLO IN VIA DANTE, PER CARITÀ, NON COMMETTETE IL NOSTRO ERRORE), con grandissima felicità. La storia è quella della famiglia Lehman, dei tre fratelli bavaresi che, arrivati in America alla metà dell’Ottocento, sono riusciti a costruire dal nulla – ma dal nulla vero – uno dei colossi della finanza moderna. È una storia di usanze, religione, origini, sangue e tradizioni. E di soldi, scambi e controllo. Meravigliosamente recitato, saggiamente minimalista e assolutamente ipnotico, Lehman Trilogy è istruttivo, affascinante e per nulla pomposone. Il capitalismo spiegato a chi non sa usare un foglio Excel! E, cosa non da poco, non dovete per forza vedervelo in cinque ore filate. Lo fanno anche spezzettato in due. Chiedete al Giangi se vi trova un paio di biglietti. Sempre che il crollo della Lehman non l’abbia mandato in rovina…