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tegamini

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wwis 1Emily Dickinson, fatti in là.

Non c’è niente da fare: i giorni più belli sono quelli in cui si scopre una fantasmagorica cazzata nuova. Ed era un po’ che vagavo, orfana e raminga, in cerca di un degno successore di The Useless Web…. Ma l’attesa è finita, grazie al cielo, perché le mie amiche hipster che sanno sempre tutto sei anni prima degli altri mi hanno fatto scoprire qualcosa di sconvolgente e fantasticissimo: What Would I Say?, il tragicomico generatore automatico di status di Facebook.
Come funge?
Niente, WWIS recupera e frulla insieme le assurdità che già avete detto per creare nuovi e sconvolgenti pensieri, ovviamente condivisibili coi vostri amichetti del cuore. Chiaro, non tutto quel che esce è una perla immortale – e non si può nemmeno pretendere la punteggiatura di un accademico dei Lincei -, ma con un po’ di pazienza potrete tranquillamente capovolgere l’universo.
Tipo.

wwis2…BOOM, BABY!

wwis3Le Tre Coglione. Cugine delle Tre Marie, ma incapaci di fare i panettoni.

wwis4Alla pugna!

wwis5Ray Bradbury meets Carrie Bradshaw.

wwis6Siamo solo contenitori per l’ennesimo Braulio.

wwis7Ma non credo, ma mai e poi mai. 

wwis8Cazzo, compriamola SUBITO!

wwis9E succede tutto in Messico. O in Spagna. Quel MOCIOS vorrà pur dire qualcosa.

wwis10Voglio solo guardare il mondo che brucia. O una roba così.

wwis11Il Kraken, risveglia.

wwis12Ecco. Adesso che lo so, faccio in tempo a scansarmi.

Buon divertimento, miei coraggiosi!
😀

MADRE e le bestie hanno problemi da tempo immemore. Da piccola, quando ancora viveva in campagna, MADRE fu ripetutamente beccata sul sedere da una bellicosa oca da cortile. Poco tempo dopo, la famiglia di MADRE si trasferì in un paese non troppo distante dalla cascina che le diede i natali. E a MADRE venne affidata una gallina di nome Gallina. Gallina viveva sul solaio ed era estremamente affabile, becchettava docile i suoi semini mentre la piccola MADRE le accarezzava la schiena. MADRE si vanta sempre moltissimo, della sua Gallina: mi voleva bene davvero! Arrivavo lì la mattina e mi faceva l’uovo in mano, pensa! Poi, un bel giorno, mia nonna servì a tutti quanti un brodo di pollo particolarmente buono e di Gallina si persero le tracce.
Eh.
Segnata da questo incredibile atto di barbarie – mia nonna, pace all’anima, andava processata a Norimberga -, MADRE decise di mettere un bel menhir sul tema animali, si comprò una Cinquecento e guidò fino al mare nel giorno numero uno della sua sospirata patente. Poi capitò un fatto increscioso. I miei zii comprarono questo cane grosso di nome Muz. Non mi ricordo se era un pastore tedesco o un San Bernardo, so solo che era una bestia gigante. MADRE, ignara della presenza di Muz dall’altra parte della porta, entrò serenamente in casa sua, in un gran stridore di scarpe da ginnastica. Il cane, vittima di chissà quale demone passeggero, assalì MADRE sulla soglia, morsicandole una coscia con gran cattiveria. La coscia di MADRE entrava giusta giusta nelle fauci bavose e puzzolenti di Muz, che la sgranocchiò per un po’, scrollandola di qua e di là. Ad un certo punto, forse dopo aver evocato il potere di Grayskull e quello dei Petali di Stelle, MADRE ritrovò la sua mitologica coordinazione e riuscì ad assestare uno scapaccione al cane, levandoselo di dosso tra gli applausi di una moltitudine di creature delle tenebre. Al che, MADRE – sanguinante e incazzata come una tempesta monsonica con tsunami intermittenti – venne portata in tutta fretta all’ospedale e riempita di punti. Le fecero l’antirabbica e un milione di analisi. Sana e salva, MADRE lasciò l’ospedale e tornò alla sua vita. Io non c’ero ancora, e MADRE già insegnava educazione fisica in lungo e in largo, spostandosi a bordo della sua fida Cinquecento rossa per monti e per valli. E niente, dopo due giorni dalla faccenda del morso a MADRE, Muz morì di colpo. Così. Un secondo prima era in piedi e l’attimo dopo era in terra stecchito.

Io non so cosa dirvi. So solo che, ormai, le bestie temono MADRE. Nell’arco della sua placide esistenza, Cricci, il criceto russo che visse con noi per quattro anni – quattro anni fatti di incredibili architetture di bambagia e montagne di semini di girasole -, insomma, in tutto quel tempo il nostro Cricci sentì il bisogno di morsicare una volta sola. E morsicò MADRE. Lo stesso Ottone von Accidenti, che si fa coccolare e prendere in braccio anche dal Mostro di Firenze, fugge al cospetto di MADRE, appiattendosi sotto al letto in preda a un terrore cupo e totale.
E’ stato bellissimo, dunque, ricevere all’improvviso dal mio papà questo sconvolgente documento fotografico:

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Ecco. C’è MADRE che conversa pacificamente con un giovane cigno, sulle sponde del Lago di Garda. Il cigno, a quanto mi è stato riferito dal mio attendibile papà, si è avvicinato a MADRE con passo deciso e non l’ha più mollata. MADRE girava per questa piazza con un fiducioso, devoto e gigantesco cucciolo di cigno alle calcagna. Manco San Francesco era riuscito a farsi voler bene dai cigni. Passeri, lupi di Gubbio, ma niente cigni. MADRE, commossa fino alle lacrime dall’immotivato affetto del grosso volatile dalle zampe palmate, ha deciso di fare quello che farebbe ogni MADRE degna di questo nome: ha nutrito il baby-cignone. Con un pacchetto di cracker. SECCHISSIMI. Il cigno, probabilmente abituato a cibarsi di roba un po’ più umidiccia, sapientemente filtrata e sminuzzata dal suo utile becco a palettina, ha rischiato di morire soffocato dall’invincibile croccantezza dei cracker, ma è sopravvissuto. MADRE è addirittura riuscita a fargli pat-pat sul capino e a prenderlo scherzosamente (…?) per il collo, alla facciazza di Konrad Lorenz e delle sue suggestionabilissime oche.

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Ora, io non so se il cigno sia rimasto segnato in maniera irreparabile dall’incontro con MADRE, ma sono contenta per lei. Sono contenta per l’universo in generale. Che qualcuno pigli MADRE e la lanci con un paracadute in una foresta di bambù. Questa rinnovata alleanza con gli animali va sfruttata, finché dura. Gettatela in una foresta cinese e convincerà quei cretini dei panda giganti ad accoppiarsi furiosamente. Proiettate foto di MADRE davanti agli scheletri di plesiosauro di ogni museo di storia naturale, e i dinosauri torneranno a popolare la terra. Avvolgete i kiwi neozelandesi nelle copertine sferruzzate da MADRE, e mai più saranno sfiorati dallo spettro dell’estinzione. Scagliatela su Marte, e ci dirà dove ha strisciato l’ultimo batterio.

Che contentezza. Il mondo animale ha una speranza concreta, ora che MADRE non rappresenta più una fiammeggiante minaccia.
E visto che le tradizioni sono importanti, ecco la foto che ho rispedito al mio papà, per festeggiare degnamente l’incontro col giovane cigno del Garda.

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MADRE, proteggi gli echidna!
Salva i leopardi delle nevi!
Riempi le pianure di bufali!
Moltiplica i lemuri!
Veglia sul falco pellegrino!
Prendi in mano il business della benedizione degli animali!
…e comprati un gatto, invece di cercare di impadronirti del mio.

 

 

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Dunque, il mio ultimo blog-giro è finito con un corso accelerato di falconeria e una poiana di Harris che mi passeggiava fieramente sull’avambraccio mentre branchi di lemuri estremamente mobili saltellavano da tutte le parti. L’altro giorno, invece, mi sono data all’arte. E al caffé. Ciao Tegamini, vuoi venire a Verona a visitare in magica anteprima la mostra sul paesaggio dal Seicento al Novecento che si chiama Verso Monet? Apre il 26 ottobre e finisce il 9 febbraio, al Palazzo della Gran Guardia. Ma a te e a un piccolo gregge di altri BLOGGHER facciamo vedere tutto prima, con lo spiegone del curatore, le coccolette nostre e la possibilità di fare le foto. Gli altri mica potranno farle, le foto, spezzeremo mani e frantumeremo aggeggi elettronici. Insomma, vieni? Ci farebbe un sacco piacere. Ciao Segafredo, a che ora si comincia?

Ho preso ferie – che a quanto pare, nel blog-mondo, solo io ho un lavoro col cartellino da timbrare. Timbro QUATTRO volte al giorno e sempre, quando mi avvicino alla bollatrice, è come ammirare la baia di San Francisco… dall’isola di Alcatraz -, sono salita su un treno alle 7 e 35 – scoprendo che i sedili dei Frecciabianca sono tipo delle assi da stiro – e sono approdata nella pacifica Verona, con tanto di truc sulla testa e iPad di riserva, per gentile concessione di Amore del Cuore. Per quelli con preoccupazioni da spostamento, dirò che dalla stazione di Verona Porta Nuova al Palazzo della Gran Guardia – perbacco, che luogo incantevole e maestoso – c’è da deambulare per dieci minuti scarsi. E c’è l’Arena proprio lì davanti, presidiata da manipoli di valorosi centurioni coi leggings.

Verso Monet TegaminiMonsieur Monet ci insegna che le ruches donano anche a chi ha un ventre esuberante. 

Ma facciamo le cosone per bene.
La mostra è un viaggio nella storia della rappresentazione del paesaggio. Inizia con il Seicento e finisce con i salici del giardino di Monet, ai primi del Novecento. Un centinaio di opere esposte (quadri, quadri, quadri  e una decina di splendidi disegni, tutti quanti illustrissimi prestiti dai museoni più importanti del mondo) e un percorso fatto così:

1.    Il Seicento. Il vero e il falso della natura
2.    Il Settecento. L’età della veduta
3.    Romanticismi e realismi
4.    L’impressionismo e il paesaggio
5.    Monet e la natura nuova

Una delle molte cose mirabili della mostra è che il Verso Monet del titolo non è una superfuffa. Ah, figuriamoci, ci saranno due Monet in croce, incastrati in un angolo alla fine, ma l’hanno chiamata così perché la gente corre e si spintona appena sente un vago odore di impressionismo. Ecco, proprio no. Non solo c’è una super narrazione, ma la mostra è imbottita di capolavori – compresi i miracoli che avevate sul libro di storia dell’arte. C’è Van Gogh, c’è Cézanne, c’è Renoir, ci sono i fiamminghi, Canaletto, Gustave Courbet, Sisley… e un intero stagno di dipinti di Monet.

verso monet tegamini venezia

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Ma che abbiamo fatto, alla fine? Per una mezz’oretta, liberi e ignoranti come caproni, ci siamo messi a vagare per la mostra. Poi siamo tornati al campo-base ed è iniziato il giro serio, con Marco Goldin – il curatore – a farci da guida. Che non so voi, ma non capita proprio spesso di avere il personaggio che ha messo insieme una mostra a spiegarti che cosa sta succedendo. Sono anche momenti di tragica auto-consapevolezza. Tegamini, te da sola questo collegamento artistico-concettual-metodologico non l’avresti mai colto. Ed è vero, che carine sono tutte le personcine che si affollano sui ponticelli delle vedute del Canaletto, ma perché mai il Canaletto ha sentito il bisogno di mettercele? Diamine, da dove arriva tutta questa smania di precisione fotografica? E perché cinque minuti prima la natura o il paesaggio erano solo un fondale, l’ambientazione per ben altre storie? E la linea dell’orizzonte? E la forma delle nuvole? E’ un casino.

Mini-marinai, che cosa volete dirci?

Foto 24-10-13 10 22 56Turner, ma dov’è andato a finire tutto quanto?

Foto 24-10-13 10 32 13Cézanne, perché dipingere di continuo questa benedetta montagna?

Foto 24-10-13 22 36 22Questo è messer Goldin, pronto a illuminarci (con grande pazienza).

Comunque. Il viaggio del paesaggio e della natura nell’arte è molto avventuroso. Si comincia nel Seicento, epoca di grandi scene con un sacco di gente e di alberi. Nei dipinti si raccontano storie, allegorie ed episodi più o meno mitologici… e tutti questi accadimenti non possono capitare nel vuoto. Grazie al buon Tintoretto – che un giorno si svegliò e decise che i personaggi dovevano stare in mezzo al mondo naturale e non davanti -, la natura diventa ambientazione, un palcoscenico idealizzato, che non ha bisogno di essere realistico. Gli olandesi, però, sono gente pratica. Vivono in un territorio in trasformazione, costruiscono in mezzo all’acqua, modificano il loro mondo, osservano la natura come dei piccoli scienziati coi pennelli. Gaspar van Wittel arriva a Roma per documentare la deviazione del Tevere e, magimagia, si inventa la veduta: precisione fiamminga, illuminismo dilagante e meraviglia dell’architettura italiana. Finire a Venezia, che era un posto di gran transito e importanza geopolitica, era inevitabile. E allora ciao a Canaletto e Bellotto.

Foto 24-10-13 22 36 23Questa è la signorina che ha aggiunto a mano tutti i puntini sulle i che vedrete sui muri della mostra.
Abbracci alla maestra indiscussa del puntinismo didascalico-testuale.

Una cosa mirabile che ho scoperto è che, nel Settecento, le vedute venivano utilizzate come cartoline dai baldi viaggiatori impegnati nel Grand Tour. Un’altra cosa che ho scoperto è che, non troppo tempo dopo, i pittori “romantici” si mettono a spennellare gigantesche cartoline dell’anima. Eruttano vulcani, la luna illumina pianure desolate e i fenomeni della meteorologia diventano fenomeni del cuore. Ah, lo spazio infinito! Ah, le tempeste! Nell’Ottocento il paesaggio diventa stato d’animo. Anzi, visione dell’anima. A chi non ne ha una viene sconsigliato di dipingere. E poi? E poi, in giro per le foreste francesi, si comincia a pensare che “vedere” la natura, osservarla e rappresentare la “verità delle cose” in un preciso istante sia il prossimo grande passo dell’arte pittorica. Questi signori sono – circa – i realisti, la scuola di Barbizon – che è un villaggetto appena fuori dalla foresta di Fontainebleau. Nel 1838, poi, arriva un gentiluomo di nome Daguerre con un’invenzione nuova nuova: il dagherrotipo, un aggeggio che “consiste nella riproduzione spontanea delle immagini della natura, ricevute nella camera oscura”. Ah è così, monsieur Daguerre? Bene, tutti in giro per i prati col cavalletto! Impressionisti, all’attacco!

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Monet, che lì per lì aveva deciso di dipingere tutta la verità e nient’altro che la verità, con la pioggia e col vento, lavorando a una tela diversa per ogni ora del giorno – per catturare LIVE i cambiamenti dell’atmosfera e della sua luminescenza avvincentissima – ad un certo punto decide che la luce che filtra leggiadra tra le foglie di una foresta assolutamente perfetta non è poi così fondamentale. “Se le mie Cattedrali, le mie Londra e altre tele siano state fatte dal vero oppure no, non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”. Monet si compra un paio di occhiali da sole veramente spacconi e, insieme a Cézanne, si carica l’impressionismo sulle spalle per portarlo a prendere un po’ d’aria fresca… non necessariamente all’aperto, anzi.

Ninfee, farò di voi delle rockstarZ! Vi dipingerò in un milione di modi, mi inventerò l’idea di “serie” e vi farò quasi scomparire in una meraviglia di rosini azzurrati e di verdini, vi osserverò così da vicino che non sembrerete nemmeno più delle ninfee, ma luminosi spiriti di vegetazione galleggiante. Tié.

Foto 24-10-13 12 28 53Questa è la mia parete preferita di tutta la mostra. Diamine, è la parete definitiva.

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Temo di aver fatto un casino, col ricapitolone artistico… ma ho comunque un asso nella manica, un ultimo Pikachu da far saltare fuori dalla sfera Poké, un megazord di ninfee e salici acquatici. Perché già arrivate super felici nell’ultima sala, quella col festival mondiale di Monet, ma quando siete sulla porta vi accorgete anche che in fondo c’è una gloriosa nicchia davvero teatrale. Che uno ci rimarrebbe di sasso anche se il quadro fosse una roba scialba come la minestrina, figurati poi con quello che c’è dentro.

Foto 24-10-13 12 36 54 (1)Foto sghemba con tanto di stipite, al solo scopo di creare inutile SUSPANS.

Foto 24-10-13 12 34 13 copiaTADAAA!

La gioiosa giornata – resa ancora più gioiosa dall’impagabile compagnia di Stailuan (l’uomo che disegnò il logo di Tegamini e che ora, se lo incontrate per strada, vi risponderà solo se gli gridate CATZAPPROVED) e Nadia di Gazduna (l’unica donna, dopo Charlize Theron, che sta davvero bene coi capelli corti) – è proseguita con un ruzzolone collettivo all’Aquila Nera, dove siamo stati abbondantemente nutriti e rifocillati e dove tutti quanti si sono pubblicamente presentati tranne me. Nadia ha esordito con Ciao, sono Nadia di Gazduna, fantastico sito che, di tanto in tanto, pubblica anche delle cose scritte da Francesca… e niente, ci hanno considerate un’unica entità e sono stata dispensata dalla presentazione ufficiale. Il che è positivo, che descrivere Tegamini è sempre un casino. Lo faccio adesso, magari. Ciao a tutti e grazie di cuore per l’invito. La mostra è splendida ed è stato un onore ascoltare Marco Goldin. Mi chiamo Francesca, lavoro al marketing in una casa editrice e la sera traduco dei libri. Tegamini è un blog buffo dove parlo di quel che mi piace e mi fa contenta. Credo di essere una propagatrice di entusiasmi. E spero proprio che questo mio superpotere possa essere utile a far venire una quantità vergognosa di gente alla mostra, di solito funziona. Bene, grazie a tutti. Dov’è che posso avere un altro po’ di prosecco?

tegamini nadia stailuanUno specchio, uno specchio! Presto, foto-bimbominkia! Eccoci. C’è Nadia, poi c’è Stailuan – che regge con coraggio l’oca Luisa, l’oggetto meno ergonomico di sempre – e ci sono io, che mi contorco per non finire risucchiata dall’imponente vaso di fiori.

E niente, non mi hanno fatto tenere il braccio una poiana di Harris ma direi che non è andata male. Prima di vantarmi di tutte le donerie elargite da Segafredo – che dopo la mostra, lì in dieci con Gesù in persona a farci da guida, io ero anche già contenta così – vi rimando al sitino di Verso Monet e al trailer del nostro blog-giro (che ci riprendevano come le star, con una specie di accecante raggio alieno). Nei prossimi giorni dovrebbe emergere dell’altro, tra foto e imbarazzanti scene filmate, quindi buttate un occhio sulle altre web-propaggini di Tegamini per ridere tantissimo di me.

Foto 24-10-13 22 57 35Non mi avevano ancora donato una tovaglietta. Per dire, ho ricevuto dei frisbee, una canzone scritta apposta per me da una boyband e una poltrona-canotto arancione, ma una tovaglietta non ancora.

Foto 24-10-13 23 04 50 (1)Generi di prima necessità! Grazie!

Foto 26-10-13 17 50 43Anche il libro-catalogo è da considerare un genere di prima necessità.

Orbene. Credo di aver finito. Spero di avervi messo addosso un minimo dell’entusiasmo che questa mostra merita. Diciamo che i quadri sono così belloni che vi faranno del bene anche senza la spiegazione del curatore, ma vi consiglio di lasciarvi raccontare la storia dalla guida. Che quando si scopre da dove viene una collina, o un mare con le ondine o uno stagno di ninfee, ecco, è un po’ come galleggiarci sopra, spalancando gli occhioni.

Cuccioli della gratitudine a Segafredo per invito, l’ospitalità e i dononi. E buona mostra a chi ci vorrà andare.

🙂

E’ un periodo di grande fermento per il mio cranietto!
O almeno credo.
Qualche tempo fa, in un momento minimalista, mi sono messa a buttare via un po’ di cose scassate. In mezzo alle scarpe rotte e alle canottiere con un buco di lato – capita, quando si è imballati: vuoi tagliare l’etichetta che punge ma sei una pirlona e ti squarti gli indumenti – c’era anche l’adorato cerchietto turchese-piumato acquistato su un bel marciapiede di Soho da un’allegra artigiana spennatrice di volatili. Il prezioso manufatto, indossato con orgoglio in ben due continenti – nonostante l’intrinseca delicatezza della sua conformazione -, era ormai sbilenchissimo e visibilmente triturato. E niente, l’ho buttato via con immensa mestizia, c’era poco da aggiustare o rattoppare. Come minimo c’era su un archeopteryx. Come fare, però? Come fare, senza un cerchietto bizzarro? Presto, i soccorsi! Ho suonato l’allarme ed è apparso Lorenzo Bises, con il bandierone di Un petit truc sur la tête. E ora posso tornare al Plastic con onore, perché Lorenzo mi ha fabbricato un cerchietto poffoso di tulle-minipony, tutto per me e unico nell’universo.
E ora funziona così.
Ci sono un po’ di foto buffe e poi c’è una chiacchierina con Lorenzo, che ci spiega chi è e che combina, tra un trono inglese e l’altro.
Orsù, cominciamo.

truc tegamini my little ponyIl mio TRUC, perbacco! Tre strati di morbidezza tullosa.

tegamini trucIn tenuta ufficiale Tegamini-autunno/inverno – la vestaglietta! In occasione del mirabile cerchietto, però, è necessario salutare come una principessa in carrozza. 

Ma presentiamoci alle persone, maestro di TRUC! Chi sei e che combini?

Mi presento, sono Lorenzo Bises, vivo nella paludosa e nebulosa Lombardia, alle porte di Milano ma sono nato e cresciuto a Roma, patria dei supplì e della panna montata gratis sul gelato. Ho studiato storia dell’arte, lavoro come istruttore di nuoto, ho un blog dal titolo Pezzenti con il papillon e mi diverto creando cappelli e fascinators.

Com’è che a uno viene in mente di fabbricare cappellini e cerchietti?

A dir la verità ho sempre avuto un debole per i cappelli, io ne ho tantissimi e la passione si è poi tramutata in una sorta di tentativo. Una prova. “Chissà che tu non possa metterti a fare i cappelli” mi sono detto, poi ho lavorato da una modista in Francia e lì ho captato alcune regole su colori, abbinamenti e gusti.

Ma si impara, da qualche parte?

Io non ho imparato, nella boutique in Francia osservavo i cappelli fatti e i vari accostamenti tra la base e la decorazione. Mi sono evoluto da solo, ho cercato di imitare i cappelli inglesi dei matrimoni reali per capire l’equilibrio di un copricapo. Inutile dire che ho ancora un sacco di strada per arrivare a confezionare un vero fascinator alla Kate Middleton.

Illustraci con dovizia di particolari i TRUC che ti possiamo venire a chiedere. E soffermati molto sulla cuffia con la veletta, che a Natale ne voglio una.

I miei truc partono dal presupposto che nessuno conduce la vita della Duchessa di Cambridge ma che tutti vorrebbero averla. Quindi ce n’è per tutti i gusti, dai più sobri fiocchetti colorati portabili tutti i giorni fino agli estrosi cappellini piumati per un matrimonio o una festa importante. La veletta è il dettaglio che preferisco, è sensuale ed elegantissima. Cucita su un berretto è spiritosa ma MOLTO fashion style.

Il primo TRUC che hai fabbricato?

I miei primi truc erano cerchietti con enormi fiori. Il primo è stato la Ninfea gigante, uno dei miei preferiti in assoluto.

Il TRUC più folle che ti hanno chiesto di produrre. Sconvolgici.

Il truc più estroso è quello che mi ha commissionato una sposa che ha voluto un grosso batuffolo di tulle bianco con una dozzina di piume rosse. Io pensavo fosse esagerato ma è incantevole e lei sarà la sposa piumata del secolo.

Icone assolute di FESCIONISMO?

Non amo le icone, credo di più nelle ispirazioni. Creando dei cappellini/fascinators, non si può non pensare a Kate Middleton (nessuna li porta come lei), ad Anna Piaggi, Isabella Blow e a Beatrice di York che è brutta ma ha un ottimo gusto.

Una sincera opinione su Miley Cyrus. Che di questi tempi è necessario averne una.

Miley Cirus? Non seguo molto le sue peripezie ma il berretto con la veletta le stava molto bene.

L’ultima cosa molto bella che ti è accaduta.

Mi hanno reso felici le ragazze che venendomi a trovare all’ultimo mercatino fatto si sono provate tutte le creazioni ed erano sinceramente entusiaste. Per me è un onore.

Dov’è che ti possiamo leggere/trovare e importunare?

Mi potete stalkerare, e ne sono felice, sulla pagina Facebook petittrucsurlatete, su twitter @Lorenzobises oppure sul blog Pezzenti con il papillon. Mentre le mie creazioni le potete trovare presso il negozio “Cavalli & Nastri” in via Brera 2, Milano.

Saluta con regalità.

Grazie mille a tutti e alla simpaticissima Francesca.
Un abbraccio.

 

Dov’è il mio regno!
Portatemi un regno!

 

GRAVITY

Da piccola, per far contento il mio papà, dicevo che mi sarei laureata in ingegneria aerospaziale. Avevo letto da qualche parte che per diventare astronauta bisognava studiare quella roba lì. Ero molto lanciata, sulla storia dell’astronauta. Dopo la prima pagella del liceo scientifico, però, ho capito che non sarebbe andata a finire proprio benissimo, nonostante la mia sincera ed entusiastica fascinazione per lo spazio. Il fatto è che coi miei voti nelle materie d’indirizzo ci si poteva evocare il demonio. 6 in matematica. 6 in scienze. 6 in fisica. E 9 da tutte le altre parti. Per cinque anni. Che uno dice, succede un anno solo, può essere stato un incidente. Macché, cinque anni a far riemergere Satana da un abisso fiammeggiante. Non ne vado fiera, ma è andata così. Solo parecchio tempo dopo il mio papà ha avuto la forza di ammettere l’evidenza: obbligarmi a fare lo scientifico è stato un insulto contro Dio. Non c’è niente di più blasfemo del vedermi seduta lì che cerco di risolvere un integrale. Alla fine sono uscita con 95 lo stesso, dal liceo, ma se potessi tornare indietro e gridare qualcosa alla piccola me di terza media, griderei più o meno un MANDALI A STENDERE E SCAPPA DI CASA. E SFASCIA PURE IL PIANOFORTE.

gravity-debris

Comunque.
Nonostante la mia totale impermeabilità a qualsiasi genere di nozione fisica, adoro le imprese spaziali, voglio un bene dell’anima ai rover che vagano su Marte e, Lost in Space a parte, amo la fantascienza – sia quella fanfarona e sparacchiona che quella più “realistica”. La minuscola me che voleva fare l’astronauta, probabilmente, non si è ancora rassegnata. Ed è dunque con questo spirito (e con le poche informazioni fisico-gravitazionali ricavate da Angry Birds Space… gioco in cui, per altro, sono una pippa) che sono andata a sedermi di fronte a Gravity di Alfonso Cuarón. Con tanto di pop-corn.


da this isn’t happiness

E va bene. Ci sono un mucchio di robe che nello spazio non funzionano come nel film. E se me ne sono accorta io, vuol dire che sono cazzate grosse grosse.
E va bene. Sandra Bullock ad un certo punto si mette a ululare e ad abbaiare come un cane, il che non è proprio una trovata brillantissima, a livello di sceneggiatura e approfondimento del personaggio.
E va bene anche che vederla sopravvivere alla prima pioggia di sfiga-frammenti-orbitanti (in compagnia, per giunta), è già qualcosa di eccessivamente incredibile… figuriamoci poi il resto.
E va anche bene domandarsi come sia possibile che un medico dell’ospedale con sei mesi di addestramento astronautico sia lì che armeggia con Hubble come se fosse il frullatore di casa sua. Per non parlare di quello che riesce a fare dopo.
E anche a me è parso bizzarro che lo Shuttle, la Stazione Spaziale Internazionale e la Stazione Spaziale Cinese fossero lì tutti belli vicini, alla stessa altitudine e serenamente visibili a occhio nudo.
E le traiettorie di rientro? Cioè, è un attimo trasformarsi in orride palle di fuoco. Non si può mica precipitare a casaccio.
E quel qualcosa che non convince-convince quando George Clooney ti piglia al guinzaglio nello spazio e ti tira in giro.
Per non parlare dell’inverosimile sicumera e della totale assenza d’agitazione dell’astronauta Clooney, in modalità rassicurante-gattone-caffé-Illy-in-vena-di-chiacchiere.

Ecco, va bene tutto questo (e pure qualcosa in più). Ma a me Gravity è piaciuto moltissimo lo stesso. Sarà che ho una spiccata attitudine alla sospensione dell’incredulità, sarà che mi sono lasciata rincoglionire dall’aurora boreale, sarà che ad un certo punto ero così in ansia che mi andava bene pure Sandra Bullock rimbambita che ulula, ma mi è proprio sembrato di assistere a un degno spettacolo. Mi è quasi venuto da dire “ecco, è per queste cose qua più giganti della vita e anche del pianeta Terra, che uno decide di andare al cinema, certe volte”. A parte la meraviglia visiva di quel che c’era e il perenne interrogativo del “come diamine avranno fatto a fare questo film” mi sono sentita un po’ un giudice di X-Factor che, con Cuarón sul palco, gli fa “mi hai davvero trasmesso qualcosa, anche se magari potevi dare qualche soldo in più ai tuoi consulenti tecnici della NASA. Però, considerando anche che c’è un personaggio che parla da solo per due ore, non te la sei poi cavata così tanto male. Anzi”. Proprio io, che la storia del “mi hai emozionata” l’ho sempre odiata. Stavo lì a bocca aperta. E ho pure pianto dentro ai pop-corn, in mezzo a uno di quei super-crescendo musicali nel vuoto siderale. Quindi niente, sono uscita dal cinema piena di stupore… e spero che là fuori, parecchi ex-6 stiracchiati in fisica potranno fare dei grandi OOOH e AAAH davanti a questo film senza sentirsi troppo in colpa. Perché è un polpettone spaziale scaldacuore, e tutto quello che si vede è strabiliante… detriti compresi, anche se viaggiano a qualche migliaio di chilometri al secondo e manco per tutti i razzogomiti di Pacific Rim uno si accorgerebbe che stanno passando. Ecco. Azzarderei un chi se ne importa. Godetevi l’orbita geostazionaria. E arrabbiatevi per qualcosa di ben più importante, tipo le invidiabilissime chiappe sode di Sandra Bullock. Quelle sì che sconfiggono anche la più volenterosa delle sospensioni dell’incredulità.

Vi sentite in dovere di leggere Infinite Jest perché la gente generalmente reputata intelligente dice di saperlo a memoria e siete stufi marci di tutte queste vanterie?
Volete leggere Infinite Jest perché vi piace David Foster Wallace ma non ce la vedete dentro?
Eravate lì lì per leggere Infinite Jest ma poi un vostro carissimo amico vi ha detto che si è arenato a pagina 30 e vi siete scoraggiati?
Siete personcine tenaci e piene di buone intenzioni, ma la prospettiva di affrontare 1280 pagine in questo momento della vostra vita vi atterrisce e sgomenta?
Animo!
Leggere Infinite Jest non è troppo difficile, se qualcuno decide di incoraggiarvi un po’. Non dico che diventi una passeggiatona liscia liscia, ma non sarà nemmeno l’incubo quadridimensionale che potrebbero avervi raccontato. Le note hanno delle note! L’ho iniziato sei volte e volevo morire con la testa nel microonde! Per carità, in quel tempo lì leggo altre venti cose! Figurati, non si capirà nemmeno come finisce!

Obiezioni rispettabilissime. Ma siamo lettori, mica pavidi opossum, e si può fare.

In questo post – che ha il preciso intento di innalzare di una tacca il livello di meraviglia media contenuta nell’universo -, troverete alcuni utili mattoncini base per affrontare Infinite Jest con la serena caparbietà di una gigantesca nave rompighiaccio. Senza frottole e infiocchettamenti, ma con la sincera e autentica fierezza del lettore che ce l’ha fatta, tra innumerevoli OOOH e AAAH di gioia e divertimento. Perché se ci sono riuscita io, che ho lo span di attenzione di una locusta, non vedo perché non ci si possa riuscire in un po’ più di gente. Che così poi ne parliamo… o andiamo in riabilitazione tutti insieme.
Pronti?
Pronti.

L’Infinite-Guida è fatta così:
– Un confortante preambolo d’esperienza personale
– Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest
E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest
– Ma alla fin fine, di che parla?
– Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest
Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

***

Un confortante preambolo d’esperienza personale

Ho letto Infinite Jest in un mesetto e mezzo. Ho cominciato in spiaggia (fase riposante della vita) e ho finito l’altra sera sul divano di casa (prolungata fase di spossatezza da lavoro che ricomincia). L’ho iniziato all’improvviso: dovevo andare in vacanza e l’ho buttato in valigia, gridando qualcosa tipo COWABUNGA. Ne avevo ben due edizioni, in attesa sulla polverosa lavatrice-libreria, e continuavo a passare di lì senza decidermi. Ma no, adesso sono troppo stanca. Ma no, non è ancora il momento giusto. Non ho tempo, non ho tempo. La verità è che non credo ci sia un momento giusto. È un’impresa che vi conviene intraprendere con una certa incosciente impulsività, e con grande fiducia. Il libro non vi renderà le cose troppo difficili, è bello da subito. E non ho detto chiaro e pieno di mappe TUSEIQUI con le freccione rosse, ho detto bello. Lasciatevi portare a spasso, anche se non sapete dove finirete.

***

Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest

Il mondo di Infinite Jest è, in buona sostanza, molto simile al nostro, solo peggiore. Tutto è familiare, ma deformato da una serie di catastrofi puntualmente accadute. Dall’inquinamento alle relazioni umane, tutto quello che poteva andare male è andato male. Il risultato è una specie di parodia triste e super geniale di quello che conosciamo.
Ma facciamo un po’ di cornice geopolitica.
Gli USA hanno “inglobato” il Canada e il Messico, dando vita a una bizzarra confederazione che si chiama ONAN (un nome, un perché), guidata da un presidente fanatico dell’igiene che, in tempi non sospetti, cantava a Las Vegas in mezzo alle paillettes. Per non offendere nessuno, sulla bandiera dell’ONAN campeggia l’aquila degli Stati Uniti con in testa un sombrero, una foglia d’acero in una zampa e una scopa nell’altra. La scopa ha senso, non temete. La crociata pro-pulizia assoluta del presidente Gentle, infatti, insieme allo sviluppo di un dannosissimo processo di produzione dell’energia (diciamo che l’idea di usare i rifiuti come combustibile ad alta efficienza va a farsi benedire e i rifiuti, sempre più tossici, aumentano invece di diminuire), finisce per devastare un’ampia zona di confine tra Canada e USA. La Concavità – così si chiama questo non-luogo – diventa una distesa fosforescente e inabitabile. La gente è costretta a fare fagotto e a scappare a gambe levate da questa spaventosa Concavità, che si trasforma in una gigantesca discarica. Per dire, nelle città ci sono delle CATAPULTE che sparano la spazzatura fin lassù. I costi ingentissimi per far funzionare tutta la baracca (e per traslocare quantità incredibili di persone dalla Concavità a zone meno letali, posti dove i fiumi sono blu cobalto ma ancora si tira il fiato) vengono coperti dall’amministrazione Onanita con un astuto stratagemma: gli anni non sono più anni coi numeri, ma diventano anni sponsorizzati. Un’azienda compra un determinato anno e lo battezza col suo nome o con il nome di un suo prodotto. Per farvi capire, ecco il calendario di Infinite Jest:

visore infinite jest

Non è fantastico?
L’anno più denso di avvenimenti, per la nostra storia, è quello del Pannolone per Adulti Depend, ma tenetevelo comunque lì, il calendario, che vi fa del bene quando vi sentite un po’ persi.
E non venitemi a dire che non siete già molto impressionati.

***

E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest

Tornando alle storie geopolitiche di prima, è vero che c’è l’ONAN, ma non è che i canadesi siano proprio felicissimi della situazione, con tutta quella spazzatura che gli arriva in casa e annichilisce boschi e prospere fattorie di patate. I più arrabbiati e bellicosi sono gli abitanti del Quebec. E fra gli abitanti del Quebec, i più rancorosi e incazzati e vendicativi sono gli AFR – Assassins des Fateuils Rollents -, una cellula terroristica composta esclusivamente da assassini sulla sedia a rotelle che non solo combatte per l’indipendenza del Quebec (dall’ONAN e pure dal nativo Canada) ma ha anche una gran voglia di fare del male agli USA. Gli AFR sono così letali che l’espressione “udire un cigolio” (insomma, le ruote cigolano) è entrata nel linguaggio comune per indicare una morte imminente e cruenta.
Se invece vogliamo dare un occhio a tutti quanti gli altri, Infinite Jest è pieno zeppo di gente che beve, si droga, ruba borsette, picchia bambini, perde la dignità, guarda cartucce senza mai schiodarsi da casa e tenta con grande caparbietà di non deludere qualcuno. C’è solitudine e c’è un silenzioso andare alla deriva – prevalentemente dentro la propria testa e lontano dagli altri. Si può fare tutto, si può scegliere tutto quello che si vuole e si può disporre di una libertà sconfinata – all’apparenza – ma alla fine si cerca di scappare fortissimo. E le occasioni offerte dal mondo sono, anche qui, innumerevoli: vi farete una cultura sul funzionamento di ogni genere di stupefacente. Vi farete una cultura sull’offerta sterminata delle cartucce d’intrattenimento (l’era post-tv è intricata e avvincente). Cercherete di capire che cosa si può arrivare a sacrificare, in nome di queste felicità artificiali e solitarie, di questi bisogni onnipresenti che capottano il senso di quello che si fa. Che cos’è davvero il divertimento? E’ qualcosa che possiamo controllare? Come dare un senso alla propria vita, quando nulla di quello che ci circonda sembra avere un contenuto e un cuore?
Sono domande, gente.

***

Ma alla fin fine, di che parla?

Infinite Jest è fatto a capitolozzi, più o meno omogenei. Il libro funziona a macchina del tempo, come un puzzle cronologico che ci spiega da dove arriva quello che sta succedendo ai personaggi e ai loro pensieri. Conosceremo genitori, nonni, dottori, vicine di casa matte, e sarà sempre per il nostro bene. E parecchio succede anche nelle note, quindi leggetele, se non volete scoprire dopo 200 pagine che qualcuno a voi molto caro, magari, è vivo invece che stecchito come sospettavate o se vi preme capire come faccia un innocuo giovane canadese in camicia a quadri a finire su una sedia a rotelle assassina.
Comunque.
Direi che ci sono tre tramone, due corrispondono ad altrettanti luoghi e l’ultima è il filo conduttore di tutto quanto. Che faccio, uso l’elenco puntato?

  • l’Enfield Tennis Academy (ETA) di Boston > l’ETA è un’accademia per giovani tennisti di eccezionale talento. E all’ETA abitano/giocano/lavorano/si aggirano i superstiti della famiglia Incandenza, che l’ETA l’hanno anche fondata. Senza di loro, non ci sarebbe Infinite Jest, e i nostri pallonetti sarebbero molto peggiori. Il libro segue, mese per mese, quello che succede all’accademia, che a me – poi magari sbaglio – è sembrata un piccolo laboratorio, una specie di simulazione controllata, di quello che capita nel resto dell’universo di Infinite Jest.
  • la Ennet House di Boston > la Ennet è una casa di accoglienza per tossicodipendenti. Visto che tutti hanno problemi di Sostanze – così si chiamano, le Sostanze – e svariati gradi di dipendenza da qualcosa, i centri di recupero e le riunioni degli Alcolisti Anonimi sono qualcosa di normale e diffusissimo. I residenti della Ennet vi regaleranno un mosaico di storie incredibili, orrende e tragiche, storie che portano alle estreme conseguenze tutte le riflessioni sul “che diavolo vogliamo ancora? Perché non è mai abbastanza?” del mondo di Infinite Jest. Alla Ennet imparerete a conoscere meglio tutti quanti, anche quelli che non ci abitano.
  • l’Intrattenimento > è una cartuccia letale. E’ un film così ipnoticamente rasserenante e felice che se lo guardi non puoi più smettere. E’ l’ultimo desiderio che si avvera, per l’eternità. Chi lo guarda non riesce più staccarsi, chi lo vede dimentica di mangiare, dormire, andare in bagno e parlare. E’ così bello che uccide e spiaccica il cervello.
    Ad un certo punto, l’Intrattenimento comincia a circolare. C’è chi cerca di controllarne la letale meraviglia, c’è chi vuole usarlo come un’arma, c’è chi non ne sa niente ma lo vorrebbe vedere, c’è chi ci ha recitato ma non l’ha mai visto (e ha già i suoi bei problemi) e c’è chi, tipo voi che leggerete Infinite Jest, ci finirà davanti.

***

Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest

Tutti i personaggi servono a qualcosa. Nessuno sprizza felicità e nessuno sembra fiero del proprio passato. C’è chi è lì per raccontare una nevrosi, c’è chi – per puro egoismo e incontrollabile irrazionalità – funge da motore involontario per eventi giganteschi, c’è chi si porta sulle spalle aspettative irraggiungibili, senza volere niente per davvero. Partendo dal fatto che incontrerete solo figure di una complessità terrificante – direi che c’è gente vera che è meno complicata e interessante di questi umani inesistenti di Infinite Jest -, i personaggi più importanti sono anche quelli più “utili”, quelli che fanno succedere le cose e che vorreste tenere con voi. Avrete la certezza della sorte di moltissimi di loro ma, proprio quando si tratterà di capire che cosa succede ai più cari, ci sarà di che lambiccarsi.
Facciamo un minimo di presentazioni?
Il nucleo di strabiliante follia di Infinite Jest è la famiglia Incandenza.
Il papà, Lui In Persona, era un genio alcolizzato e un uomo inconoscibile, alto due metri e passa. Pioniere dell’ottica e astruso regista – quasi sempre – incompreso, Lui In Persona ha fondato l’ETA e ha creato l’Intrattenimento – insieme a una montagna di altre opere filmiche che potrete leggere con soddisfazione immensa in una nota più che esaustiva. Da vivo non lo incontrerete mai.
La madre, Avril – detta la Mami – è una donna altissima e stranamente magnetica di origini canadesi. Perseguitata da ogni fobia al mondo, la Mami è così ossessionata dall’ordine da riuscire a riordinare anche le sue fobie più paralizzanti. E’ cortese ed empatica fino all’esasperazione ma mai davvero capace di un autentico gesto di amore assoluto.
I figli di Lui In Persona e della Mami sono tre – anzi, due e mezzo… ma più per vere origini che per morfologia. Il maggiore è Orin, ex promessa del tennis che, in maniera del tutto accidentale, diventa il più grande punter di tutti i tempi. I punter sono quei giocatori di football che calciano la palla e basta. Orin ha un rapporto quantomeno ambiguo con la verità (e una ripugnante strategia per rimorchiare le donne, sua personale Dipendenza), ma per molte cose dovrete contare sulla sua parola.
Hal Incandenza è il secondo miglior giocatore under 18 dell’ETA – e tipo il sesto dell’ONAN -, ha una memoria fotografico/enciclopedica e un’intelligenza labirintica che non gli servono a niente. Quello che impara e quello che ottiene giocando a tennis non gli procurano alcuna vera gioia. Hal è il nostro “protagonista”, credo, un personaggio che si svuota pagina dopo pagina. Lui ve lo confermerà, che è fatto di niente, ma voi e tutti quelli che gli stanno attorno – pronti cogliere ogni sua prodezza – faticherete ad accettarlo. Perché Hal non vi vuole deludere e, nel farvi felici, fingerà di non capire che cosa vuole davvero. Sempre che ci sia, qualcosa da desiderare.
Mario, l’Incandenza di mezzo, è deforme e minuscolo. La sua passione è fare riprese con una camera speciale, vuole bene a tutti – ricambiato – ed è incapace di mentire. Innocente, sempre felice, è il figlio che ha passato più tempo con Lui In Persona, senza poterci capire niente ma portandogli un casino di borse piene di attrezzatura da cinema.
Altre due creature (tra le mille) che vale la pena conoscere sono Don Gately e Joelle.
Don Gately è un ex tossico grosso come un armadio a muro. La sua storia vi aprirà le porte degli AA di Boston e della Ennet House, dove lavora come sorvegliante, dopo aver completato il suo percorso di riabilitazione da residente. Diventerà un po’ il vostro eroe e la vostra speranza per un futuro migliore. Vi farà fare fatica e vi farà preoccupare.
Joelle, La Ragazza Più Bella di Tutti i Tempi, è un enigma. Joelle sarà uno dei motivi che vi farà girare pagina. E’ ancora bellissima? Perché va in giro con un velo sulla faccia? Perché lei e Orin si sono lasciati? E’ colpa sua, se l’Intrattenimento è così letale?

***

Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

Per lo stupore.
Io non riesco ancora a credere che una persona vera abbia scritto questo libro. Gli incastri, l’immaginazione, il controllo, l’intelligenza nel trasformare la realtà in qualcosa di assurdo, ma plausibile. L’idea dell’Intrattenimento, la tristezza. Se mai nella vita siete stati tristi, capirete che cosa vi è successo per davvero. Se non vi è capitato, imparerete a rispettare le ombre.
Leggetelo per lo stupore. E perché non c’è niente di simile.
Leggetelo perché sarà il primo libro che vi farà stancare sul serio, e non perché è lungo, ma perché è un mistero che somiglia molto a quello che ancora non capite del mondo e di quello che dovreste farci voi, al mondo.
Non è facile. E non è sempre piacevole. Alla sesta pagina di una nota, vi verrà da gridare un legittimo “che palle!”, ma vi accorgerete che la frustrazione non dipende dal font corpo 4 della nota, ma dall’allegro desiderio di poter leggere più pezzi contemporaneamente.
Che nervoso.
Non so se si è capito.
Non so se vi ho INFUSO sufficiente curiosità.
Non so se ci sono riuscita, a tirarvi addosso qualche polpetta di Infinite-Meraviglia.
Comunque vada, però, e tenetemi informata sulle vostre decisioni e su come procede la lettura, insomma, comunque vada usate due segnalibri, che se no è un casino. E buona villeggiatura. E state alla larga dai neonati carnivori alti come palazzi che infestano la Concavità! E se avete problemi di scarafaggi, fatevi dare qualche buon consiglio da Orin, che almeno su quello è affidabile. E se qualcuno ha voglia di sfidare due gemelle siamesi in doppio, me lo faccia sapere, che porto a incordare la racchetta.

Il mio rapporto con gli autoveicoli è pessimo.
In macchina ci stavo bene quand’ero alta un metro e mezzo e potevo dormire comodamente sul sedile posteriore, lunga e distesa a pancia per aria. Poi ho iniziato a dover piegare le ginocchia o a rannicchiarmi di lato, magari umiliando l’illustre pupazzo Coniglio Mabiglio relegandolo al triste ruolo di cuscino, e da lì ciao, le macchine hanno cominciato a indispettirmi. All’esame della patente, su un cavalcavia con riga continua e categorico divieto di sorpassare, mi sono trovata davanti questo camioncino del rudo  – per tutti quelli che ignorano il colorito idioma del Piacenzashire, il RUDO è la spazzatura – che, all’improvviso, si è messo a seminare scatole di cartone per la carreggiata. Visto che non c’era molto altro da fare – morire nella corsia opposta o devastare la macchina della motorizzazione scartavetrando il GUARDRAIL -, ho preso in pieno uno scatolone, trovando anche il modo di inveire orrendamente contro lo sbadato spazzino. In tutta la vita, credo di aver parcheggiato sul serio al massimo tre volte. Con la Uno Hobby ereditata da mia zia, una macchina viola, senza servosterzo, con le ventole dell’aria piene di foglie secche – in qualsiasi stagione – e il riscaldamento finto, fare delle manovre raffinate era impensabile. Un mal di braccia. Una fatica. La roba più bella, però, succedeva nei giorni di pioggia. Perché quando pioveva, la Uno non partiva. Devi andare da qualche parte? Mi vuoi mettere in moto? Fottiti, piove.
Insomma, detesto guidare e mi rompo le balle quando mi trasportano, anzi, mi rompo le balle e, certe volte, mi abbandono a comportamenti folli. A maggio, per dire, abbiamo vagato come delle trottole tra la provincia di Gela e quella di Catania. Del tutto annientata dalla festa di matrimonio della sera precedente, disperatamente bisognosa di dormire e ormai furibonda per il continuo ciondolamento del mio cranio, ho deciso di legarmi la testa al sedile con una sciarpa.

Comunque.
Brummm!

È con questo spirito di totale disinteresse misto a ostilità per l’universo delle automobili e dell’automobilismo competitivo che mi sono presentata al cinema per vedere Rush di Ron Howard. Il film in cui Thor, dopo parecchi problemi col test a crocette, riesce finalmente a prendere la patente. Il film in cui tutti gli italiani, a parte il signor Ferrari che fa lo spocchioso con le sue calzette rosse, sono brava gente. Un film in cui il Giappone somiglia alla Desolazione di Smaug e, se fai l’autostop da qualche parte in provincia di Trento (se ho capito bene), a caricarti sono due indomiti, improbabili e calorosissimi scugnizzi. Io non ho ben capito se Rush mi sia piaciuto, perché somiglia a tantissime rivalità cinematografiche che ci siamo già abbondantemente sciroppati, solo che qui sono rese con ancora meno sottigliezza. E uno scopa il mondo. E l’altro non ha cuore nemmeno di andare a una festa. E uno lo abbracciano tutti. E l’altro lì, nell’angolo, incazzato nero che pensa a mettere il magnesio negli ingranaggi. E uno dentro una limousine piena zeppa di gnocche totali, sbronze come foche leopardo, e l’altro che smanetta con il carrello dell’aereo, tutto ustionato e derelitto ma equilibrato e geniale. È come se ci fossero i sottotitoli, in questo film. Và, qua c’è Lauda che decide così perché ha capito che la sua bella moglie con lo SCIGNOGN, quella signora alta ed elegante che non parla mai per tutto il film, ecco, forse ha capito che la signora silenziosissima è più importante delle infide pozzanghere giapponesi e buonanotte, non vale la pena crepare per dimostrare ancora qualcosa. E lì, toh, c’è Hunt che fa lo spavaldo coi giornalisti ma gli rode un casino che la moglie l’abbia lasciato per andare a farsi regalare tonnellate di diamanti da Richard Burton… e insomma, fuori ride ma dentro piange.
Non l’avrei mai pensato, ma i pezzi che mi sono garbati di più sono proprio quelli con le macchine che sfrecciano e le gomme che si disfano e tutta quella roba meccanica che fa su e giù e s’infuoca. Ed è stata una fortuna non sapere com’era andato a finire, poi, il lunghissimo campionato del mondo che racconta il film. Che se sapevo chi vinceva c’era da spararsi, non mi passava più. Insomma, mi viene da dire che Rush è “fatto bene” (“sai no, quel tuo amico… non è figo, però è un tipo, dai…”, ecco), che è un giocattolone piacevole, è da mi siedo lì e mi faccio imbottire di frasi plateali con una buona disposizione d’animo, ma volentieri. Che sia EPICO, ispirato e geniale no, però. E va già bene che non mi sono addormentata come davanti ai gran premi alla tv, che dopo due curve sono già sotto a una coperta che russo. Una squillante nota di totale entusiasmo, però, vorrei emetterla: ad un certo punto, c’era una macchina da corsa con SEI RUOTE. SEI. Sembrava un millepiedi cromato. Se le avesse avute la mia Uno Hobby, sei ruote, forse la mia vita sarebbe stata diversa. E oggi sarei una di quelle pilotesse Nascar col completo di Victoria’s Secret sotto alla tutona ignifuga. Una persona che si prende bene coi film della Formula 1 e parcheggia senza nemmeno spettinarsi. E invece.

 

Per chi si forse perso l’imprevedibile antefatto, c’è addirittura un post di pura esultanza che si chiama Charlie e la fabbrica del Martini. Per gli altri che magari non hanno voglia di risalire alle origini del mondo, sarà sufficiente sapere che il 19 settembre avevo una cena al circolo bocciofilo Caccialanza, ma poi non ci sono andata perché Vanity Fair ha deciso di donarmi un invito per il festone totale dei 150 anni della Martini, a Villa Erba sul lago di Como. Cenerentola può lucidarmi le scarpette quando le pare.

Ebbene, che diamine sarà mai accaduto?
Com’era, chi c’era, cos’è successo?
Che cosa ci abbiamo capito?
Ma soprattutto, saremo riusciti a mimetizzarci con dignità?

Benvenuti alle avventure dei Tegamini del Cuore al SUPREMO party-Martini. Ci tenevo a dirlo subito, che è stato supremo.

***

Il tutto è cominciato con noi che trascinavamo i valigini fino all’albergo. Con nostra grande sorpresa, all’albergo c’era della gente che festeggiava un matrimonio. Alle cinque di un giovedì pomeriggio. Con uno scaldapubblico chiaramente prelevato di peso da un villaggio turistico e portato lì sulle maestose pendici del lago di Como a gridare a squarciagola OLLELLE’-OLLALLA’, FACCELA VEDE’-FACCELA TOCCA’. Io ero là, col mio lapin nella custodia-sacco-da-morto e i riccioli appena fatti che non sapevo bene che cosa dire. Per fortuna, una madamigella ci ha accolti calorosamente, sospingendoci nell’ascensore fino alla nostra cameretta. E nella cameretta c’erano dei doni. E già ti senti spaventosamente figo, se non fai in tempo a levarti le scarpe che già ti hanno regalato qualcosa.

Che poi è incredibile, quanto poco tempo ci vuole a prepararsi se non abiti insieme a un gatto. Alle sette e dieci precise precise eravamo giù, tutti pieni di brillantini (io) e di farfallini (Amore del Cuore). Sulla sbodenfia terrazza dell’albergo faceva già un freddo povero, ma ero troppo contenta per ammetterlo. O meglio, contavo con tutte le mie forze sull’effetto-Capodanno: due bicchieri e tutti fuori in canottiera, anche se infuria la tormenta.
Ora, vorrei ribadire all’universo che non sono una persona fotogenica. Non solo non sono fotogenica, ma non dispongo nemmeno di un fidanzato particolarmente interessato a fotografarmi con un po’ di sensibilità e accortezza. Amore del Cuore ha moltissime ottime qualità, ma di farmi le foto non gliene frega una beata mazza. E quando me le fa è perché lo obbligo, quindi ne sforna sei di fila a caso (piedi tagliati, sfocamenti, luci che inghiottono teste e arti) e ciao. Quindi, insomma, faremo con quello che c’è e con la limitata fotogenicità che la natura mi ha concesso. A me e basta, ovviamente, perché lui è bello anche quando sbatte il mignolino in uno spigolo.


Tegamini in Vivienne Westwood Anglomania (Halton dress + Melissa pumps) and vintage MADRE clutch.
Credits: Amore del Cuore for Getty Images.
E questa, tanto per farvi capire, è la foto dell’AUTFIT più chiara che ho.

Poi è arrivato un pullman gigante e siamo partiti. Memori delle gite delle superiori, ci siamo messi in fondo. Anche perché eravamo molto imbarazzati e non ci è venuto da fraternizzare con l’altra gente che era tutta affiatatissima e batti un cinque, ciao grandissimo e col cavolo che alle 9 e mezza domani mattina vado a vedere Blumarine. Ecco, spaventati ma baldanzosi (e con mezzo colletto fuori), abbiamo deciso di immortalare il momento con un video inutile ma dolce. O almeno credo.

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Villa Erba è un luogo favolosamente meraviglioso. C’era tutta questa super passerella scarlatta con le macchine da corsa, le luci, dei rampicanti ordinatissimi, la gente che ti rincorreva lateralmente sul lato per capire se eri famoso per davvero o se ti eri soltanto vestito abbastanza bene da suscitare il sospetto, ghiaietta perfettamente calpestabile, il tramonto rosa-pesca, insomma, arrivavi ed eri già contento di stare al mondo.

All’ingresso, sotto a un milione di bolle di cristallo che penzolavano dal soffitto, dei gentili signori ci hanno graziosamente cacciato in mano un bicchiere di RUAIAL e niente, l’abbiamo considerato come un “bene, giovani, andate con Dio. Qui davanti c’è la sala con il pianoforte e le luci interessanti, laggiù c’è il salotto con gli specchi, ai lati ci sono i bar. A destra c’è il bar simil-metropoli-sfarzosa, mentre a sinistra c’è il bar da Don Draper con le poltrone di pelle e il caminetto. Uscite in terrazza, mi raccomando. Vedrete bene il palcoscenico galleggiante, l’orchestra e i giardini. Abbiamo fatto in modo che, da qualunque punto della villa, la distanza tra voi e un barman campione del mondo nella categoria Cocktail Spettacolari sia al massimo di sei metri. Buon divertimento”.
Cheers, buon uomo.

Se volete vedervi delle foto serie della LOCHESCION, c’è anche l’album di Martini, visto che è praticamente impossibile maneggiare un attrezzo in grado di immortalare l’ambiente con una maledetta POSCETT in una mano e un bicchiere nell’altra. Ad un certo punto abbiamo scoperto un sontuoso buffet e non mi sono potuta alimentare degnamente perché avevo finito gli arti. Escludendo categoricamente di potermi privare del bicchiere, avrei anche gettato la borsa nel lago, se solo non fosse stata una borsa appartenuta a MADRE, in un lontano passato di cui poco so e ancor meno voglio sapere. “Amore del Cuore, prendi un po’ di grana, te ne prego, mi farei un piattino, ma con che cosa lo tengo! Il barman di Don Draper ci ha messo dieci minuti a prepararmi questa divina bevanda, non posso mica piantarla lì, sarebbe offensivo, non siamo mica in Colonne!”

 

Grazie al cielo, però, qualche genio del party-planning ha pensato anche alla gente come me. Gente non mangia in piedi, gente che s’impiccia ai buffet e che ha l’atavico bisogno di appoggiare i propri oggetti su altri oggetti. Così, felici come pasticcini, ci siamo seduti sotto a questi alberi giganteschi sopra a dei cubi rossi fosforescenti – che secondo me volevano essere grossi ghiaccetti – e abbiamo atteso fiduciosamente l’arrivo di un gentile signore con dei regali garganelli ai gamberi, noi e il nostro piattino.

E mentre lottavamo con la borsetta e ci divertivamo sotto agli alberi tutti illuminati, c’era l’Orchestra Italiana del Cinema che suonava le colonnone sonore arroganti e, dentro la villa, c’era anche un uomo dietro a una tenda (contrassegnata da un cartello con un grosso “?”) che preparava bastoncioni di zucchero filato ai coraggiosi che osavano avventurarsi nell’ignoto. Il perché fosse dietro a una tenda non mi è chiaro, ma credo si sia fatto delle gran risate.

TEGAMINI – Zucchero Filato Man, are you ok? Here, all alone…
ZFM – I’m good, I’m good. Don’t worry.
TEGAMINI – Ok, then. We’ll be back, so you don’t get lonely.
ZFM – Thanks guys, see you later!

Ma il dialogo definitivo l’ha prodotto Amore del Cuore. Prima, però, c’è stato l’adorabile LAIV di Lily Allen, che ha fatto qualche canzone fluttuando su un assurdo palco galleggiante delle meraviglie scusandosi moltissimo perché “I’ve got a chest infection and tonight my voice is horrible”. Mica vero, madamigella Lily, io ero contentissima. E nei pressi del divanone-terrazzato dove avevo preso la residenza cantavo solo io. O forse non bisogna cantare, quando si è ricchi e famosi e si va a una festa? Temo non lo scopriremo mai. Comunque, poi è successo tutto un brindisi generale con Federico Russo che incitava ad agitare per aria i calici insieme ad amministratori delegati e fondatori della Bacardi. Voi non lo sapete, ma Mr Bacardi esiste davvero. E’ un pacioso signore di nome Facundo Bacardi, uno che al lavoro credo abbia la seguente mail: MRBACARDI@BACARDI.WORLD.
Ma cosa stavamo dicendo… il dialogo vincitore della serata è stato quello tra Amore del Cuore e Joseph Fiennes.

TEGAMINI – Amore del Cuore! Guarda che quello lì che hai davanti, seduto sul tavolino, quello lì secondo me è Joseph Fiennes.
AMORE DEL CUORE – Ma va là.
TEGAMINI – E’ lui, è lui! Quello del Nemico alle porte! Quello mega geloso di Vasilij Zajcev perché Zajcev si trombava Rachel Weisz, quella della Mummia, e lui no. Ha fatto anche Shakespeare in Love! E’ più bello adesso, però… sì, sì, è lui.
AMORE DEL CUORE – E chiediglielo, no?
TEGAMINI – L’ultima volta che ho parlato con una celebrity è stato terribile. Ho chiesto a Jonathan Franzen se gli potevo fare una foto, così la twittavamo con l’account della casa editrice. Ho parlato di Twitter. A Franzen.
AMORE DEL CUORE – Cristo!
(Tegamini si volta un secondo per soffiarsi rumorosamente il naso in un volgare fazzoletto di carta. Quando si ricompone, la scena è la seguente):
AMORE DEL CUORE – Excuse me, are you an actor?
JOSEPH FIENNES – Yes.
AMORE DEL CUORE – You played against Jude Law in The Enemy At the Gates, right?
JOSEPH FIENNES – Yes.
AMORE DEL CUORE – Because I didn’t think it was you, but my girlfriend was sure.
JOSEPH FIENNES – She won.
TEGAMINI – Awesome! …sorry if we bothered you, have a good night.
AMORE DEL CUORE – Sono stato bravissimo!
TEGAMINI – Grazie al cielo. Ora possiamo dire di non aver visto soltanto Melissa Satta, di famosi.

Ecco, questo qui vestito come un pistacchio gigante è Mark Ronson. Che io scusate molto ma non sapevo chi era (e anche adesso non ho proprio le idee chiarissime). Comunque, Mark Ronson ci ha fatto ballare. E noi abbiamo danzato al meglio delle nostre capacità, in mezzo a gioconi di luce super strabilianti e lampeggiosi. Per la contentezza mi sono scelleratamente tolta le mollette dai capelli trasformandomi in un incrocio tra Jem e Chewbacca.

E poi?
E poi è arrivata la carrozza per portarci a nanna, prima che ci trasformassimo in zucche lì davanti a tutti. Io il red carpet l’ho fatto alla fine, con le luci un po’ spente e manco più un cane a dirmi dove dovevo andare. Mi sembrava più appropriato. Avessi avuto un panino con la coppa l’avrei incluso nello storico ritratto. E’ stato mirabile, e anche davvero surreale. Gente che ti apre la porta quando vai in bagno e rimane lì fuori per sincerarsi che nulla di male ti stia capitando. Cubetti di ghiaccio che non sono cubetti di ghiaccio, sono ICEBERG picconati via da blocchi di ghiaccio ancora più grossi, tutti accatastati in giro. Bicchieri che, ve lo giuro, pesano sette etti. Gente con lo strascico. Gente che si scusa perché il UISCHI che sta per versare nel tuo cocktail è invecchiato solo 14 anni e non 18 perché quello da 18 è finito. Persone incapaci di avere male ai piedi. Io non ci sono mica abituata, ai comitati di benvenuto che mi salutano con calore ogni volta che entro in una stanza. E quando chiedevo un ROYALE mi veniva voglia di dire “un RUAIAL CON FROMASG, grazie”. Però, dalla faccia fluttuante e felicemente smarrita che sono riuscita a fare qua sotto (un’altra grande prova fotografica per Amore del Cuore), secondo me mi sono divertita sul serio.

Grazie, allora.
Grazie a Martini per l’ospitalità e per il corso accelerato di sfarzo. E grazie a Vanity Fair per avermici mandato senza un perché.
Ma soprattutto, gloria e onore allo Zucchero Filato Man! Solitario e indomito! Brinderemo a te coi bicchierazzi che ci hanno regalato… e non ti dimenticheremo mai.

***

Bonus-track
Tegamini feat.MADRE

TEGAMINI – Eh, stasera vado alla festa.
MADRE – Mi raccomando, NON BERE!
TEGAMINI – MADRE, ma di cosa stiamo parlando. Vado alla festa del Martini, non vado mica a un compleanno di quinta elementare! Mi cacciano fuori, se non bevo niente.
MADRE – NON BERE!
TEGAMINI – Berrò responsabilmente. Per onorare l’ospitalità che mi verrà dimostrata. Perché sono educata. Perché sei tu che mi hai cresciuta così, posata e a modo.
MADRE – …smettila di prendermi per il culo. E stai attenta, con la mia borsetta.

 

L’altro giorno ero in ufficio con la muffa che mi cresceva da tutte le parti. Muffa, con contorno di licheni e disperata stanchezza. Occhiaie a forma di amaca, a grandezza naturale. Smalto sbeccato. Nostalgia del gatto. E male a un mignolino del piede. Insomma, una giornata triste e inutile.
Poi niente, guardo un attimo su Twitter e mi casca l’occhio su questa cosa di Vanity Fair. Ohilà, vuoi venire al glorioso party per i 150 anni di Martini, sul lago di Como? Molto bene, cari lettori, mandateci una mail e spiegateci perché vi ci dovremmo mandare… e doneremo l’ambito biglietto a della gente a nostra scelta (o almeno credo).
Fondamentalmente, alla redazione online di Vanity Fair ho detto che agli open bar mi comporto con la grazia di una dama pietroburghese e che, all’occorrenza, sapevo già cosa mettermi (si ipotizzava un virtuoso riciclo di quanto faticosamente acquistato durante le Vestitiadi), che mi sembrava una roba carina da dire. È come quando chiedi a qualcuno di poter portare un amico a una festa e poi questo qua arriva con una felpa fatta con la fodera di un divano della DDR, le ciabatte dell’Adidas con le rigone bianche e blu e un pacco di quelle diafane patatine a nuvoletta, quelle che nessuno mangia perché sanno di polistirolo e anemia. Cioè, lo scemo è comunque lui, ma anche te che te lo sei tirato dietro non è che ci fai la figura dell’anno.
Comunque. Ho mandato la mia mail e ciao, sono tornata alle emozioni travolgenti della mia giornata.
Il giorno dopo, però, è accaduto qualcosa di sconvolgente e inaspettato, uno sfavillante prodigio, un rocambolesco colpo di scena, un miracolo scaturito per direttissima dagli zoccoli rosa della Pony Madonnina.


My Little Mary (SoasigChamaillard, Apparitions)

Insomma, mi ha telefonato questa gentile madamigella della Martini e mi ha detto che Vanity Fair aveva avuto il coraggio di invitarmi alla festa. Giovedì 19 settembre a villa Erba, a Cernobbio-Naboo, il luogo in cui la principessa Amidala e un Anakin Skywalker non ancora malvagio, mutilato e afono si giurarono eterno amore, arrossendo moltissimo.
Che storia.
Che storia!
In pratica sono stata benedetta con un Golden Ticket. E al posto del cioccolato c’è il Martini. Una cascata di Martini, magari, che se ce l’aveva Willy Wonka, la cascata, vuoi che non ce l’abbiano loro, gente che abbevera James Bond da tempo immemore?
Grande Giove!
Anzi, EPIC WIN!
Apple-tini!
Olive galleggianti!
E pensare che quella sera lì dovevo andare a cena alla Bocciofila Caccialanza!

L’euforia ha lasciato ben presto il posto all’atavico terrore della nudità.
E va bene, nessuno dei personaggi in cui mi imbatterò su Naboo mi avrà mai vista col vestito delle Vestitiadi – sono una strenua sostenitrice del principio “se non ti toccherà incontrare la medesima gente, vestirsi allo stesso modo per due giorni di fila è cosa buona e giusta” – ma cosa vogliamo fare, vogliamo rinunciare a sogni, ambizioni e unicorni elegantissimi senza combattere nemmeno un po’? Per tutti i samovar, non sia mai!, come direbbe ogni dama pietroburghese che si rispetti.
E così, contenta ma atterrita, ho camminato come un’imbecille da Porta Genova a Piazza San Babila – la mia tradizionale via crucis – senza trovare una beata My Little Mary di niente. Anzi, mi sono pure imbattuta in una manifestazione di ragazzine che vagavano per Corso Vittorio Emanuele gridando in coro il nome di Justin Bieber. Erano tantissime. Vedi quelle ragazzine lì e ti viene voglia di non riprodurti mai, altroché guerre, carestie e mondo cattivo, difficile e oscuro. Poi niente, per tornare a casa mia c’è da fare Corso Venezia e che sarà mai, davanti a Vivienne Westwood ci devo passare comunque, vuoi non andare dentro per un corroborante giro turistico?
Solo che poi è finita così.


Mi manca la borsetta, ma sono quasi pronta. Quel che posso dire, prima di sommergervi di foterie della festa – voglio fare anche un casino di video felici – è che tutto l’AUTFIT sarà più o meno in tinta con questa magnifica gallina:

(gallina fotografata da Tamara Staples per il suo The Magnificent Chicken)

Ora ho l’ansia perché mi è arrivato il programma – e tra gli altri, suonerà una delle mie cantanti del super cuore, emozionona! -, so dove mi ospiteranno per la nanna e i preparativi – perbacco! – ma l’invito di carta non è ancora giunto. Ho detto, pubblichiamo il post dopo che mi è arrivato l’invito di carta, che non si sa mai, metti che ho immaginato tutto o che si sono sbagliati, che è una gigantesca candid-camera o un complesso scherzone tipo quello dei film americani coi ragazzini del liceo, la tipica situazione del giocatore di football figherrimo che va dalla più deforme della scuola e la invita al ballo di fine anno, solo che quando lei esce di casa, pronta per farsi portare al ballo dal ragazzo dei sogni, il ragazzo dei sogni passa in limousine limonando con la capo-cheerleader e, visto che è uno sportivo dotato di strabilianti qualità di coordinazione, riesce a colpire la povera ragazza deforme con un gavettone di sangue di maiale senza mai smettere di limonare la capo-cheerleader.
Ecco, io questo lo vorrei evitare, ma sono proprio troppo contenta per stare lì zitta zitta. E poi mi sembrava bello ringraziare Vanity Fair. Grazie, Vanity Fair. E grazie pure a Martini. E saluti anche all’adorabile Cesare, che mi ha vestita da Dame Vivienne con estrema pazienza e dedizione.

Diamine, sono contenta come una crostatina.

Cheers!

 

TEGAMINI – Amore del Cuore, ma dove sono le Azzorre, di preciso?
AMORE DEL CUORE – …sono un po’ più in là delle Canarie.
TEGAMINI – Pensavo peggio.
AMORE DEL CUORE – Perché?
TEGAMINI – Perché potremmo andare là, in vacanza!
AMORE DEL CUORE – …
TEGAMINI – Massì, c’è la natura, ci sono le rocce vulcaniche, c’è l’acqua splendente, ci sono le balene!
AMORE DEL CUORE – Balene.
TEGAMINI – Ce ne sono tantissime, megabelle. L’ha detto Philip Hoare! Lui c’è stato e ci nuotava insieme… non vuoi nuotare con le balene? A Philip Hoare piacciono molto anche le balene dell’Artico, ma ho pensato che forse preferivi andare un po’ più al caldo in estate… quindi possiamo lasciar perdere la Groenlandia, per qualche tempo. Cosa dici? Ma lo sai che Melville c’è andato davvero, su una baleniera? Ma lo sai che il Physeter macrocephalus sta in una famiglia naturalistica tutta sua, che di bestie simili-simili non ce ne sono? Pensa, ha solo i denti di sotto, il capodoglio! E i calamari giganti esistono davvero e il capodoglio li mangia! Ma t’immagini? CAPODOGLIO vs CALAMARO GIGANTE!

Amore del Cuore, non ancora pronto ad affrontare un tale entusiasmo balenifero, mi ha lasciata sola a farneticare di cetacei, spermaceti, arpioni, fanoni, remore e vertebre. Ma posso sempre ammorbare voialtri. Perché ho letto Leviatano, mi sono divertita immensamente e adesso so anche mucchi e mucchi di cose, un po’ zoologiche, un po’ economiche, un po’ letterarie e un po’ sentimentali.

Mentre scorrazzano per i mari, i capodogli non si curano se sia giorno o notte. Come tutte le balene respirano in modo volontario e devono dunque rimanere svegli con metà del cervello quando si riposano. È quasi sicuro che sognino. A volte,dopo aver mangiato a sufficienza, fanno una pennichella tutti insieme, mettendosi in perpendicolare, come pipistrelli, con lo sfiatatoio sopra il pelo dell’acqua. Gradiscono il contatto reciproco e passano ore a strofinarsi e rotolare l’uno sull’altro appena sotto la superficie: «Sembra che si vogliano tutti bene, – dice Jonathan Gordon per descrivere questo balletto subacqueo. – Non è raro vedere individui che si tengono delicatamente per le fauci».

Teniamoci per le fauci!

In questo libro misterioso e bizzarro – scritto da Philip Hoare, l’uomo al mondo che più ama le balene, tradotto dai prodi Duccio Sacchi e Luigi Civalleri per le sempre adorabili Frontiere Einaudi – c’è tutto quello che serve per esplorare le profondità marine e tornare a galla per respirare con un bello sbuffone dallo sfiatatoio (N. B. se una balena che ha il raffreddore vi colpisce con il suo portentoso soffio, quando torna a galla, ebbene, il raffreddore ve lo prendete anche voi).
Comunque, Leviatano comincia con la storia di Moby Dick e delle ossessioni del suo autore, ci racconta le vicende dell’industria baleniera americana e i primi tentativi – sull’approssimativo andante – di studiare le creaturone più imponenti dell’oceano. Ci sono animali che si arenano sui litorali, richiamando l’attenzione di monarchi, principi e pittori. Ci sono lunghi viaggi, pericoli terrificanti, acque calde e acque gelide. C’è un beluga malinconico in un acquario di Coney Island e c’è la megattera che fa più versi di tutte le altre balene del pianeta. C’è la caccia con l’arpione e la descrizione di tutto quello che si può ricavare, ahimé, da una balena. C’è la balenottera azzurra appesa al soffitto del Museo di Storia Naturale di Londra, un affare gigante e molto realistico, costruito alla vigilia della Seconda guerra mondiale in una sala allestita appositamente… che le balene erano diventate TRENDY e la gente le voleva vedere.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1937, il capotecnico e imbalsamatore ufficiale del museo, Percy Stammwitz, si dichiarò disponibile a costruire il modello direttamente nella sala. Aiutato da suo figlio Stuart, impiegò quasi due anni per completare l’opera, basandosi sui dati forniti dalla spedizione scientifica nella Georgia del Sud. Seguendo giganteschi modelli di carta simili a quelli dei sarti, si tagliò il legno necessario per creare le varie parti dell’armatura e le stecche per tenerle assieme. Il tutto fu poi ricoperto di fil di ferro, sopra il quale fu modellato lo strato esterno di gesso. Era un lavoro lungo e faticoso. Durante la costruzione l’interno fungeva da tavola calda per le maestranze (nel 1853 Benjamin Waterhouse Hawkins ebbe l’idea di organizzare una festa di capodanno tra scienziati dentro il suo modello di iguanodonte ancora da completare, un evento che fu descritto dalla stampa periodica come una riunione di moderni Giona inghiottiti dalla balena).

Insomma, si fanno scoperte meravigliose – il cervello del capodoglio pesa sette virgola otto chili! Che roba è l’ambra grigia e per quale ragione olezza così tanto? Ah, che orrore! – e ogni tanto passa un serpente di mare mitologico. Conosceremo dinastie di cacciatori, marinai specializzati nell’intaglio di denti di capodoglio – J. F. K. li collezionava, pensa te -, leggende del mare e terrori atavici. E, finalmente, qualcuno ci rivelerà a che serve il corno del narvalo. Ma vi dirò di più, Philip Hoare, sui narvali, la pensa come me.

Anche nel narvalo ritroviamo la mesta bellezza del beluga, un’aura ferale suggerita dal suo stesso nome, derivato dall’antico norreno nar e hvalr, ovvero «balena cadavere», perché le chiazze della sua livrea ricordano le livide macchie dei corpi senza vita (…). Ciò non toglie che l’emblema della malinconia del narvalo risieda proprio nella sua caratteristica piú appariscente, sottolineata dal binomio del suo nome scientifico: Monodon monoceros, ovvero un solo dente e un solo corno.

BALENA CADAVERE.
MALINCONIA.
Povero, povero narvalo.

La zanna del narvalo è infatti un grosso dente vivo, che crescendo perfora il labbro sul lato sinistro della bocca e si avvita a spirale fino a sfiorare, e addirittura superare, i tre metri. (…) Le recenti analisi al microscopio elettronico hanno svelatola vera magia racchiusa nel dente del narvalo. La sua superficie,a differenza di quella dei denti normali, è attraversata da tubuli aperti verso l’esterno e connessi con i nervi interni.Il corno in pratica è un gigantesco organo sensoriale, fornito di decine di milioni di terminazioni nervose che permettono all’animale di registrare i piú lievi cambiamenti di temperatura e pressione. Si spiegherebbe cosí, tra l’altro, l’abitudine che hanno i narvali di sollevare il corno fuori dall’acqua, quasi annusassero l’aria. Altre ricerche hanno mostrato che questo dente, oltre a essere una sonda sensoriale, può anche fungere da trasmettitore e ricevitore acustico ed elettrico.

IL DENTE DEL NARVALO SERVE A MILLE COSE!
IL MONDO È UN POSTO MERAVIGLIOSO!

Ma ricomponiamoci, dopo questo momento d’euforia per il narvalo e le balene dell’Olartico – pagine bellissime, BELLISSIME, c’è persino il disegnone di un unicorno -, che bisogna concludere con dignità e un qualche genere di autorevolezza.

Leviatano mi è garbato immensamente. Philip Hoare è così felice di raccontarti tutte quelle storie sulle balene che finisci per appassionarti quanto lui. Io ho chiuso il libro e ho quasi pianto, consumata dal rimorso per essermi mangiata una bistecchina di balena quand’ero a Oslo. Philip Hoare, perdonami, non sapevo cosa facevo. Non conoscevo ancora la mirabile struttura del cranio del capodoglio o la complessità dei suoi rapporti sociali. Andrò all’inferno. Sprofonderò in un abisso pieno di furibondi calamari giganti. Comunque, se volete nuotare insieme al buon Hoare e alle musicalissime megattere, se volete partire per un viaggio con Ismaele – e capire, finalmente, anche le cose più astruse di Moby Dick – o anche solo imparare meraviglie sugli animali più grandi e difficili da studiare del nostro allegro pianeta, ecco, allora Leviatano vi garberà. Anzi, sarete tristi quando finirà… ecco una buona GIF in grado di riassumere i miei sentimenti:

***

P.S. Questa frase è straordinaria. Una cosa orribile, è vero, ma se cercherete di immaginarvi la scena sarà la fine.

A regnare sovrana era una palese indifferenza per la dignità degli animali, come illustra ancora il fatto che il personale delle stazioni antartiche di caccia alla balena era abituato a ravvivare il fuoco dei falò gettandoci sopra i pinguini come grasso da ardere.