Dunque, il mio ultimo blog-giro è finito con un corso accelerato di falconeria e una poiana di Harris che mi passeggiava fieramente sull’avambraccio mentre branchi di lemuri estremamente mobili saltellavano da tutte le parti. L’altro giorno, invece, mi sono data all’arte. E al caffé. Ciao Tegamini, vuoi venire a Verona a visitare in magica anteprima la mostra sul paesaggio dal Seicento al Novecento che si chiama Verso Monet? Apre il 26 ottobre e finisce il 9 febbraio, al Palazzo della Gran Guardia. Ma a te e a un piccolo gregge di altri BLOGGHER facciamo vedere tutto prima, con lo spiegone del curatore, le coccolette nostre e la possibilità di fare le foto. Gli altri mica potranno farle, le foto, spezzeremo mani e frantumeremo aggeggi elettronici. Insomma, vieni? Ci farebbe un sacco piacere. Ciao Segafredo, a che ora si comincia?
Ho preso ferie – che a quanto pare, nel blog-mondo, solo io ho un lavoro col cartellino da timbrare. Timbro QUATTRO volte al giorno e sempre, quando mi avvicino alla bollatrice, è come ammirare la baia di San Francisco… dall’isola di Alcatraz -, sono salita su un treno alle 7 e 35 – scoprendo che i sedili dei Frecciabianca sono tipo delle assi da stiro – e sono approdata nella pacifica Verona, con tanto di truc sulla testa e iPad di riserva, per gentile concessione di Amore del Cuore. Per quelli con preoccupazioni da spostamento, dirò che dalla stazione di Verona Porta Nuova al Palazzo della Gran Guardia – perbacco, che luogo incantevole e maestoso – c’è da deambulare per dieci minuti scarsi. E c’è l’Arena proprio lì davanti, presidiata da manipoli di valorosi centurioni coi leggings.
Monsieur Monet ci insegna che le ruches donano anche a chi ha un ventre esuberante.
Ma facciamo le cosone per bene.
La mostra è un viaggio nella storia della rappresentazione del paesaggio. Inizia con il Seicento e finisce con i salici del giardino di Monet, ai primi del Novecento. Un centinaio di opere esposte (quadri, quadri, quadri e una decina di splendidi disegni, tutti quanti illustrissimi prestiti dai museoni più importanti del mondo) e un percorso fatto così:
1. Il Seicento. Il vero e il falso della natura
2. Il Settecento. L’età della veduta
3. Romanticismi e realismi
4. L’impressionismo e il paesaggio
5. Monet e la natura nuova
Una delle molte cose mirabili della mostra è che il Verso Monet del titolo non è una superfuffa. Ah, figuriamoci, ci saranno due Monet in croce, incastrati in un angolo alla fine, ma l’hanno chiamata così perché la gente corre e si spintona appena sente un vago odore di impressionismo. Ecco, proprio no. Non solo c’è una super narrazione, ma la mostra è imbottita di capolavori – compresi i miracoli che avevate sul libro di storia dell’arte. C’è Van Gogh, c’è Cézanne, c’è Renoir, ci sono i fiamminghi, Canaletto, Gustave Courbet, Sisley… e un intero stagno di dipinti di Monet.
Ma che abbiamo fatto, alla fine? Per una mezz’oretta, liberi e ignoranti come caproni, ci siamo messi a vagare per la mostra. Poi siamo tornati al campo-base ed è iniziato il giro serio, con Marco Goldin – il curatore – a farci da guida. Che non so voi, ma non capita proprio spesso di avere il personaggio che ha messo insieme una mostra a spiegarti che cosa sta succedendo. Sono anche momenti di tragica auto-consapevolezza. Tegamini, te da sola questo collegamento artistico-concettual-metodologico non l’avresti mai colto. Ed è vero, che carine sono tutte le personcine che si affollano sui ponticelli delle vedute del Canaletto, ma perché mai il Canaletto ha sentito il bisogno di mettercele? Diamine, da dove arriva tutta questa smania di precisione fotografica? E perché cinque minuti prima la natura o il paesaggio erano solo un fondale, l’ambientazione per ben altre storie? E la linea dell’orizzonte? E la forma delle nuvole? E’ un casino.
Mini-marinai, che cosa volete dirci?
Turner, ma dov’è andato a finire tutto quanto?
Cézanne, perché dipingere di continuo questa benedetta montagna?
Questo è messer Goldin, pronto a illuminarci (con grande pazienza).
Comunque. Il viaggio del paesaggio e della natura nell’arte è molto avventuroso. Si comincia nel Seicento, epoca di grandi scene con un sacco di gente e di alberi. Nei dipinti si raccontano storie, allegorie ed episodi più o meno mitologici… e tutti questi accadimenti non possono capitare nel vuoto. Grazie al buon Tintoretto – che un giorno si svegliò e decise che i personaggi dovevano stare in mezzo al mondo naturale e non davanti -, la natura diventa ambientazione, un palcoscenico idealizzato, che non ha bisogno di essere realistico. Gli olandesi, però, sono gente pratica. Vivono in un territorio in trasformazione, costruiscono in mezzo all’acqua, modificano il loro mondo, osservano la natura come dei piccoli scienziati coi pennelli. Gaspar van Wittel arriva a Roma per documentare la deviazione del Tevere e, magimagia, si inventa la veduta: precisione fiamminga, illuminismo dilagante e meraviglia dell’architettura italiana. Finire a Venezia, che era un posto di gran transito e importanza geopolitica, era inevitabile. E allora ciao a Canaletto e Bellotto.
Questa è la signorina che ha aggiunto a mano tutti i puntini sulle i che vedrete sui muri della mostra.
Abbracci alla maestra indiscussa del puntinismo didascalico-testuale.
Una cosa mirabile che ho scoperto è che, nel Settecento, le vedute venivano utilizzate come cartoline dai baldi viaggiatori impegnati nel Grand Tour. Un’altra cosa che ho scoperto è che, non troppo tempo dopo, i pittori “romantici” si mettono a spennellare gigantesche cartoline dell’anima. Eruttano vulcani, la luna illumina pianure desolate e i fenomeni della meteorologia diventano fenomeni del cuore. Ah, lo spazio infinito! Ah, le tempeste! Nell’Ottocento il paesaggio diventa stato d’animo. Anzi, visione dell’anima. A chi non ne ha una viene sconsigliato di dipingere. E poi? E poi, in giro per le foreste francesi, si comincia a pensare che “vedere” la natura, osservarla e rappresentare la “verità delle cose” in un preciso istante sia il prossimo grande passo dell’arte pittorica. Questi signori sono – circa – i realisti, la scuola di Barbizon – che è un villaggetto appena fuori dalla foresta di Fontainebleau. Nel 1838, poi, arriva un gentiluomo di nome Daguerre con un’invenzione nuova nuova: il dagherrotipo, un aggeggio che “consiste nella riproduzione spontanea delle immagini della natura, ricevute nella camera oscura”. Ah è così, monsieur Daguerre? Bene, tutti in giro per i prati col cavalletto! Impressionisti, all’attacco!
Monet, che lì per lì aveva deciso di dipingere tutta la verità e nient’altro che la verità, con la pioggia e col vento, lavorando a una tela diversa per ogni ora del giorno – per catturare LIVE i cambiamenti dell’atmosfera e della sua luminescenza avvincentissima – ad un certo punto decide che la luce che filtra leggiadra tra le foglie di una foresta assolutamente perfetta non è poi così fondamentale. “Se le mie Cattedrali, le mie Londra e altre tele siano state fatte dal vero oppure no, non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”. Monet si compra un paio di occhiali da sole veramente spacconi e, insieme a Cézanne, si carica l’impressionismo sulle spalle per portarlo a prendere un po’ d’aria fresca… non necessariamente all’aperto, anzi.
Ninfee, farò di voi delle rockstarZ! Vi dipingerò in un milione di modi, mi inventerò l’idea di “serie” e vi farò quasi scomparire in una meraviglia di rosini azzurrati e di verdini, vi osserverò così da vicino che non sembrerete nemmeno più delle ninfee, ma luminosi spiriti di vegetazione galleggiante. Tié.
Questa è la mia parete preferita di tutta la mostra. Diamine, è la parete definitiva.
Temo di aver fatto un casino, col ricapitolone artistico… ma ho comunque un asso nella manica, un ultimo Pikachu da far saltare fuori dalla sfera Poké, un megazord di ninfee e salici acquatici. Perché già arrivate super felici nell’ultima sala, quella col festival mondiale di Monet, ma quando siete sulla porta vi accorgete anche che in fondo c’è una gloriosa nicchia davvero teatrale. Che uno ci rimarrebbe di sasso anche se il quadro fosse una roba scialba come la minestrina, figurati poi con quello che c’è dentro.
Foto sghemba con tanto di stipite, al solo scopo di creare inutile SUSPANS.
TADAAA!
La gioiosa giornata – resa ancora più gioiosa dall’impagabile compagnia di Stailuan (l’uomo che disegnò il logo di Tegamini e che ora, se lo incontrate per strada, vi risponderà solo se gli gridate CATZAPPROVED) e Nadia di Gazduna (l’unica donna, dopo Charlize Theron, che sta davvero bene coi capelli corti) – è proseguita con un ruzzolone collettivo all’Aquila Nera, dove siamo stati abbondantemente nutriti e rifocillati e dove tutti quanti si sono pubblicamente presentati tranne me. Nadia ha esordito con Ciao, sono Nadia di Gazduna, fantastico sito che, di tanto in tanto, pubblica anche delle cose scritte da Francesca… e niente, ci hanno considerate un’unica entità e sono stata dispensata dalla presentazione ufficiale. Il che è positivo, che descrivere Tegamini è sempre un casino. Lo faccio adesso, magari. Ciao a tutti e grazie di cuore per l’invito. La mostra è splendida ed è stato un onore ascoltare Marco Goldin. Mi chiamo Francesca, lavoro al marketing in una casa editrice e la sera traduco dei libri. Tegamini è un blog buffo dove parlo di quel che mi piace e mi fa contenta. Credo di essere una propagatrice di entusiasmi. E spero proprio che questo mio superpotere possa essere utile a far venire una quantità vergognosa di gente alla mostra, di solito funziona. Bene, grazie a tutti. Dov’è che posso avere un altro po’ di prosecco?
Uno specchio, uno specchio! Presto, foto-bimbominkia! Eccoci. C’è Nadia, poi c’è Stailuan – che regge con coraggio l’oca Luisa, l’oggetto meno ergonomico di sempre – e ci sono io, che mi contorco per non finire risucchiata dall’imponente vaso di fiori.
E niente, non mi hanno fatto tenere il braccio una poiana di Harris ma direi che non è andata male. Prima di vantarmi di tutte le donerie elargite da Segafredo – che dopo la mostra, lì in dieci con Gesù in persona a farci da guida, io ero anche già contenta così – vi rimando al sitino di Verso Monet e al trailer del nostro blog-giro (che ci riprendevano come le star, con una specie di accecante raggio alieno). Nei prossimi giorni dovrebbe emergere dell’altro, tra foto e imbarazzanti scene filmate, quindi buttate un occhio sulle altre web-propaggini di Tegamini per ridere tantissimo di me.
Non mi avevano ancora donato una tovaglietta. Per dire, ho ricevuto dei frisbee, una canzone scritta apposta per me da una boyband e una poltrona-canotto arancione, ma una tovaglietta non ancora.
Generi di prima necessità! Grazie!
Anche il libro-catalogo è da considerare un genere di prima necessità.
Orbene. Credo di aver finito. Spero di avervi messo addosso un minimo dell’entusiasmo che questa mostra merita. Diciamo che i quadri sono così belloni che vi faranno del bene anche senza la spiegazione del curatore, ma vi consiglio di lasciarvi raccontare la storia dalla guida. Che quando si scopre da dove viene una collina, o un mare con le ondine o uno stagno di ninfee, ecco, è un po’ come galleggiarci sopra, spalancando gli occhioni.
Cuccioli della gratitudine a Segafredo per invito, l’ospitalità e i dononi. E buona mostra a chi ci vorrà andare.
🙂