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tegamini

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TEGAMINI – Mamma mamma mamma possiamo avere un gatto?
MADRE – …a me piacerebbe molto, lo sai, ma devi chiedere a tuo padre.
TEGAMINI – Papà papà papà possiamo avere un gatto?
PAPA’ – No.
TEGAMINI – Ma perché!
PAPA’ – Perché no.
TEGAMINI – Ma la mamma…
PAPA’ – No.

Una ventina d’anni dopo:

AMORE DEL CUORE – Per Natale non ci facciamo i regali.
TEGAMINI – …ma come non ci facciamo i regali. Il cazzo! Io lo voglio il regalo di Natale, che cosa vuol dire che non ci facciamo i regali, dobbiamo anche fare il primo albero di Natale insieme, vuoi non metterci sotto niente, io non…
AMORE DEL CUORE – Non ci facciamo i regali perché adesso ci mettiamo qua e cerchiamo un gattino. E visto che sei allergica dobbiamo prendere il siberiano. Quindi no, niente regali, ci regaliamo il gatto. Volevo farti la sorpresa, ma poi ho pensato che era meglio se lo sceglievamo insieme… Ecco.

Ora, prima che qualche paladino dei deboli s’indigni perché “con tutti i gatti abbandonati e pieni di croste che ci sono in giro io non capisco che bisogno ci sia di prendere un siberiano con genitori provvisti di pedigree e di questo passo dove andremo a finire e piovegovernoladro e tutti i giovani sono dei drogati”, ci terrei molto a precisare che, per ragioni d’allergia, il siberiano è un po’ l’unica alternativa (CHE DISGRAZIA!). Questo nobile gatto nasce (senza bisogno d’interventi di scienziati pazzi) con una minor concentrazione nella saliva della proteina responsabile delle allergie. Che non è il pelo che fa starnutire, è la proteina distribuita sul pelo a vigorose leccate che gli conferisce questo potere di far lacrimare gli occhi e ponfare le cavità nasali. Va così.

E così sono partite le audizioni per trovare il Gattini del Cuore.

La prima concorrente provinata è stata una gattini tutta nera. Per arrivare alla sua dimora abbiamo cambiato in tutto tre tram, finendo poi in un complesso residenziale simile al labirinto del Minotauro, un posto circondato dal nulla, coi palazzi con le porte impossibili da trovare, i lampioni fiochissimi e la nebbiolina umida ad altezza polpaccio, tipo b-movie dell’orrore. Comunque, nella casa della gattini nera vivevano circa altri milleduecento gatti siberiani. Coricati ovunque, dai pensili della cucina alla cima dei lampadari, in un vorticare di pelo, polvere e crocchette masticate. La nostra potenziale gatta era un po’ secca e di pelo non molto poffoso. E pure iettatrice, forse. Ora, non ho mai avuto particolari pregiudizi verso i gatti neri, prima d’incontrare questa gattini. È anche vero che mai nella vita avevo preso una multa per non aver timbrato il biglietto su un mezzo pubblico. Poi niente, scendiamo dal millesimo tram e incappiamo in una falange armata di controllori ATM che, dovendo scegliere chi fermare tra me, un ciclope, una coppia di troll di caverna, un sosia di Kratos lo spartano, un borseggiatore con tanto di terzo braccio finto a tracolla, scelgono me. E al “signorina posso vedere il suo biglietto?” mi accorgo di aver dimenticato di timbrare. Ventisei euro di multa e l’insindacabile decisione che no, la gattini nera se la potevano pure tenere.

Il giorno successivo, animati da una fiducia quasi profetica, veniamo ricevuti dal gatto più bello e affabile mai vissuto – nero pure lui. E sulla via di casa decidiamo che si dovrà chiamare Ottone von Asgard, Ironcat Supremo.

Al secondo giorno dal suo insediamento sul trono, Ottone contempla il suo regno, coccolando i cuscini-frollini.

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Il venerdì, giorno designato per il ritiro di Ottone, Amore del Cuore – già nel mood padre-modello – si reca al negozio di animali e acquista:

– cassettina pipìpupù con filtro antiodore, setaccio e porticina basculante
– lettiera magica (in pratica funziona che se un gatto fa una cacca o una pisciatina, la deiezione attira verso di sè tutta la sabbia che, formando una palla, si auto-isola dal resto della sabbietta pulita e può essere così agevolmente eliminata. Son questi i momenti in cui adoro la scienza)
– tiragraffi a due piani con topino penzolante incorporato
– due chili di crocchette
– venti scatolette al tonno e al pollo
– spazzola
– pupazzetto di topino frinfrillante
– trasportino…

AMORE DEL CUORE – Eh, avrei anche bisogno del trasportino.
ANIMALAIO – Ne ho di tre misure. Piccolo, medio e grande.
AMORE DEL CUORE – Quello piccolo potrebbe andare? È un gattino di quasi quattro mesi…
ANIMALAIO – Ma di che razza è?
AMORE DEL CUORE – Siberiano.
ANIMALAIO – HAHAHAHAHAHA, quello piccolo, HAHAHAHAHA! Ti dovrei già dare la misura grande!
AMORE DEL CUORE – …vabè, facciamo il medio.

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The cat is on the table.

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Eventi salienti e casistica casuale delle prime due settimane di convivenza con Ottone von Asgard.

– A Lotto Fiera, in un bel vagone affollato della metropolitana, Ottone von Asgard – ben avvolto in una copertina di PAIL rosso e inserito nel trasportino medio – decide di fare la pipì.

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Ottone, il gatto più preso male della Lombardia, appena giunto nella magione dei Tegamini del Cuore.

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– La prima sera, atterrito dall’ambiente sconosciuto, Ottone von Asgard respira velocissimo e sfiora più e più volte l’infarto. La mattina successiva lo troviamo incastrato nella nicchia delle scope e dell’aspirapolvere, luogo ritenuto molto più comodo e salubre del cestino imbottito predisposto per il suo sonno. E comunque, quando l’ho visto incagliato tra spazzole e palette, immobile e addormentato, ho gridato la seguente cosa ad Amore del Cuore: “È MORTO! ODDEEEEEO, È MORTOOOOOOOOOOH”. Poi ho pianto, perché era vivo.

– Ottone von Asgard elegge gli scaffali rasoterra della scala-libreria come nascondiglio strategico e dimostra di avere molto giudizio in fatto di letteratura: tra tutto quel che c’è, sceglie di masticare solo il Supercorallo di Accabadora di Michela Murgia.

La letteratura offre un salvifico riparo a Ottone von Asgard. E un po’ a tutti quanti, valà.

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– Ottone von Asgard non miagola, emette dei pigolii. Ogni volta che salta giù da qualcosa, i pigolii diventano molto simili agli SQUIK che fanno quei giocattoli gommosi schiacciabili e trombettanti . A ogni atterraggio corrisponde uno SQUIK. I suoni mutano nuovamente quando Ottone von Asgard deve imprimere una certa accelerazione al suo incedere: se inizia a correre o deve fare la scala in salita, Ottone von Asgard farà FRRRUIUIUIUI.
Tutta questa collezione d’espressioni sonore risulta più vicina ai versi di un qualsiasi Pokemon rispetto a quanto ci si potrebbe ragionevolmente aspettare da un gatto.

– Ogni volta che ti giri e vedi che c’è Ottone von Asgard, lo ami un po’ di più.

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Giorno 2: Ottone non riesce più a nascondere il suo buon carattere e passa la mattina a farsi avvolgere nell’amica vestaglietta.


Sempre nel glorioso giorno 2, Ottone si rovescia senza ritegno sui miei ospitali arti inferiori.
Và, non c’è nemmeno bisogno di usare Instagram, per far venire bene questo sublime felino.

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– Ottone von Asgard produce fusa istantanee appena lo tocchi e, in generale, si comporta come un pupazzo vivo. Sta in braccio, si ribalta in terra per farsi strafugnare la pancia ed è intimamente convinto di essere una pagnotta di pane.

– I film più graditi da Ottone von Asgard, in questo periodo, sono stati Zodiac e The Hurt Locker.

– Ottone von Asgard è riuscito nel miracolo di suscitare telefonate spontanee da parte di MADRE. Lei, che mai al mondo si sogna di chiamare per prima ma anzi, si lamenta sonoramente se non mi faccio sentire due volte al giorno, ebbene, da quando c’è Ottone, MADRE mi telefona. Per sapere come sta il gatto, ovviamente. Non paga, ha intimato a mio padre di utilizzare più spesso Face Time e ora, a giorni alterni, passiamo le serate e giocare con Ottone in videoconferenza.

– Ottone von Asgard, a seguito di un regolare consumo di scatolette inestimabili, è in grado di produrre flatulenze portentose. E sempre nelle immediate vicinanze del cranio di Amore del Cuore. O in presenza di amici e ospiti.

– Se una palla (da tennis, di carta o d’alluminio… basta che rotoli) finisce incastrata in qualche disagevole pertugio, Ottone non si sforza di tirarla fuori ma, semplicemente, la osserva con risentimento, attendendo che qualche servitore accorra per restituirgliela. Se ciò non accade, Ottone ne piange brevemente la scomparsa e torna a farsi le unghie nel tappeto.

– Quando è arrivato, Ottone pesava 2.1 chilogrammi. Ora siamo ingrassati di un etto. Da grande dovrebbe arrivare a pesare otto o nove chili (di cicciotte, pelo e fulgido amore).

– Nessun omino di Fifa12 può sfuggire agli artigli di Ottone von Asgard.

– Siamo tutti quanti percepiti come giganteschi giocattoli. Soprattutto io, in tenuta domestica con mocassino indiano fiocchettato e vestaglietta con cintura penzolante. La vestaglietta, anche se non mi contiene, è comunque amatissima.

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Ottone, sempre pronto ad aiutare nei lavori domestici.

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– Ottone von Asgard è l’unico che sa quel che deve fare quando suona la mia sveglia, alle 7. Quando suona, Ottone si presenta e salta sul letto, dando ufficialmente il via al festival delle coccolerie. Da una parte, Amore del Cuore ruzzola nella mia direzione e, oltre a dispensare abbracci e incoraggiamenti, tenta di gettarmi giù dal letto – importantissimo servizio – e, dall’altra, il gatto calpesta il telefono, mastica il filo della lampada, si capotta, mi assesta piccole craniate e unghia la trapunta.

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Ti svegli, e vicino alle pantofole c’è questa situazione.

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– Tutta la bellezza del mondo, per Ottone von Asgard, si può trovare nel polistirolo espanso.


Il gatto Maru dovrebbe iniziare a temerci.

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– Data la particolare conformazione delle zampe – cuscinettate e foderate a ciuffoni di pelo anche sotto -, Ottone von Asgard non ha molta aderenza sul legno. Dopo alcune derapate poco dignitose, però, sembra aver compreso come sconfiggere la forza centrifuga e calibrare il proprio impeto per rimanere in carreggiata. MADRE, preoccupata per gli sbandamenti del nipote, si è comunque offerta di confezionare per Ottone dei guantini col gommino antiscivolo e lo spazio per cacciare comunque fuori le unghie.
Ve lo giuro.

– La prima volta che mi è salito sulla pancia e ha iniziato a fare la pasta con le zampe davanti ho gridato ad Amore del Cuore: “GUARDAAAAAAAAAA STA FACENDO LA PASTAAAAAA È TUTTA LA VITA CHE ASPETTO QUESTO MOMENTO!”.

– Se sei un umano e non sai che cosa fare, spazzola il gatto.

– Se sei un gatto e non sai cosa fare, mettiti comodo e contempla il declino della civiltà occidentale.

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Insomma.
Amiamo follemente Ottoncino.
Lui crediamo ci tolleri.

Per chi fosse (giustamente) ignaro di tutto, dirò che sono andata a fare un giro a Oslo, qualche settimana fa. Pessima idea, andare in vacanza all’inizio del mese, a stipendio praticamente intatto. Vai in giro in mezzo ai fiordi e ti convinci di avere addirittura un po’ di potere d’acquisto… ma poi torni a casa e ti viene in mente che non hai ancora pagato l’affitto e, mentre ancora trascini il trolley nell’androne, scopri anche che sono arrivate le bollette. Amore del Cuore vive un perpetuo lapsus, quando c’è da pagare la luce e il gas:

TEGAMINI – Ma quand’è che c’è da pagarle, insomma?
AMORE DEL CUORE – Che cosa, le multe?

Comunque.
Per chi volesse leggersi tutta l’avventura e vedere un mucchio di foto bizzarre e gioiose, c’è tutto un post pieno di cose divertenti e indicazioni > Oslo: una mini-guida per gente buffa.
Per chi sa già tutto, invece, procedo senza indugi con lo sbandieramento degli irrinunciabili articoli acquistati in Norvegia. Perché se mai qualcuno proporrà di interdirmi, sarà ben necessario fornire alle autorità un ragguardevole malloppo di tangibili prove di squilibrio e scarsa attitudine allo stare al mondo.

Splendido.

Il primo palpitante oggetto trascinato in patria dalle terre di Odino è un capiente, pratico e inutile lunchbox di foresta.

Il cerbiattino parla con lo scoiattolo, mentre moltitudini di uccellini festanti e altri scoiattolini – sicuramente sodali di quello che chiacchiera – si agitano senza posa tra la rigogliosa vegetazione. Perché è vero che in ognuna di noi c’è una principessa Disney.

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Siamo anche entrati in un negozio dell’usato. Mai visto tanti piatti di porcellana arzigogolata in vita mia. Ho addirittura pensato che mi sarebbe piaciuto moltissimo sceglierne a caso una dozzina e apparecchiarci la tavola per sempre. Che si sa, gli assortimenti vintage che simulano disordine fanno tanto “guarda che stile, e non ci sforziamo neanche”. Date le costrizioni sul bagaglio a mano, però, ho lasciato perdere piatti e piattini per lanciarmi su una coppia di incomprensibili uccellini. Burberi e gonfi come cornamuse.

VICHINGO DELL’USATO – Are you getting the birds, then?
TEGAMINI – Absolutely, they’re so pretty!
VICHINGO DELL’USATO – I know. They remind me of my grandma.
AMORE DEL CUORE – …seh, altroché ricordi, questi qua erano proprio quelli di sua nonna!

Mi chiedo da quanto sia morta, quest’anziana sconosciuta.

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Ma il vero tesoro, ripescato da un vascello spezzato a metà dal tentacolo di un kraken di fiordo, è ben altro. Perché nei negozi di giocattoli norvegesi si trova di tutto. E ci sono anche i polli arrosto di peluche.

Nota bene, sia le ali che i cosciotti sono staccabili. C’è il velcro, così li puoi riappiccicare e mettere da parte gli avanzi… metti che qualcuno non riesca a finire quello che ha nel piatto (uno scandalo, con tutti i bambini che muoiono di fame in Africa). Per una corretta conservazione del pollo-pupazzo, poi, vi consiglio animatamente di cacciarlo in frigo.

Per tirarla ancora un po’ per le lunghe, vi racconterò anche che questo pollo era destinato a me. Lo scorso anno, in un negozio di giocattoli di Amsterdam – anche là, negozi di giocattoli straordinari, devono avere qualcosa, i nordici, per i giochi… che sia la maggiore prossimità geografica con Babbo Natale a ispirarli? – avevo visto un pollo di peluche uguale uguale. Stupidamente, però, avevo evitato di comprarlo. Sarà che stavamo andando a visitare la casa di Anna Frank… e probabilmente avrò pensato “non puoi andare alla casa di Anna Frank con un pollo di pezza in mano”. E niente, l’ho lasciato dov’era, rimpiangendolo amaramente per mesi. Poi niente, si è verificato questo miracolo norreno. Ed era pure l’ultimo rimasto. Insomma, il fato ha voluto che io e il pollo ci incontrassimo di nuovo. E questa volta non ho vacillato.

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Ci eravamo anche presi benissimo con questi esotici cranio-pupazzi ma, si sa, Ryanair ti dissangua, se osi proporti al check-in con un bagaglio anche di poco più grande di una risma di fogli A4.
Il bufalo!
Parliamo del bufalo!
È straordinario, lontanissimo da casa mia, ma straordinario.

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero. Del resto, cos’è una rappresentazione realistica se non una forma di rappresentazione convenzionale come tante altre? Non è radicalmente diversa, né costituisce un progresso. Se non si cogliesse questo aspetto, non si capirebbe niente né dell’arte medievale né della storia delle immagini. Nell’immagine tutto è convenzione, compreso il “realismo”.

Michel Pastoureau
Bestiari del Medioevo

Saggi – Einaudi

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La meraviglia. Questo libro è la meraviglia.
Sul nostro pianeta, Michel Pastoureau è la persona che più sa di zoologia medievale. Ed è anche la persona che te la sa raccontare meglio.
Suddiviso in sezioni che rispecchiano le classificazioni originarie dei bestiari miniati –  quadrupedi selvatici, quadrupedi domestici, uccelli, pesci e creature acquatiche, serpenti e vermi -, il super saggio di Pastoureau è divertentissimo da leggere e straordinario da guardare: ogni animale viene presentato ricostruendone le proprietà, i vizi, le virtù e le valenze simboliche che gli erano attribuite nel Medioevo. E ogni bestia-capitolo è accompagnato da una miriade di illustrazioni e riproduzioni di venerabili pagine. Le illustrazioni non solo aiutano a comprendere meglio l’universo di significati che ruota intorno all’animale rappresentato, ma vengono utilizzate da Pastoureau per espandere il discorso e avvicinarlo, allo stesso tempo, all’uso dell’illustrazione così com’era inteso nel Medioevo. Per dire, il cervo, reso impetuoso dal suo sangue caldo, non riesce quasi mai a star fermo dentro i bordi di una miniatura… e c’è sempre qualcosa che esce, uno zoccolo che spunta, un corno che sconfina. Il testo di ogni Bestiario continua a raccontare delle cose (utili e didattiche per l’uomo Medievale) anche attraverso le immagini, che non sono solo un ornamento, ma un necessario proseguimento della trattazione.
Quadrupedi selvatici e domestici, uccelli, pesci, serpenti e vermi, si diceva. In questo libro, così come nei Bestiari europei che Pastoureau ha analizzato, troviamo bestie comuni, o meglio, bestie comuni per la sensibilità dell’uomo Medievale, con sporadiche incursioni di creature mitologiche. Ci sono l’aquila, l’asino, il bue, il gatto, la lupa… ma pure il leone, l’elefante. Animali che per noi, oggi, sono esotici abitatori della savana, nel Medioevo erano o molto presenti nell’iconografia – e quindi reali, roba da tutti i giorni – o attrazioni formidabili che poteva capitare di vedere, almeno una volta nella vita. I sovrani si scambiavano doni di ogni genere, inclusi orsi polari – dispensati con grande generosità dal re di Norvegia -, e l’arrivo di queste creaturone era spesso un evento per gli abitanti di sterminati territori, attraversati spesso e volentieri anche da serragli itineranti, gioia infinita per grandi e piccini. Insieme a queste apparizioni da documentario, i Bestiari, anche quelli di zoologia “standard”, non specializzati in mostri e mitologia, includevano spesso gli animali leggendari come l’unicono, la manticora, il centauro… capitava perché un milione di diverse tradizioni e variegate testimonianze dirette – da Plinio in poi – ne parlava e li raffigurava come il più reale dei conigli da cortile, giudicandoli al massimo un po’ più “rari” e difficili da scorgere del benedetto coniglio. Altro fattore, a rendere del tutto equivalenti gli animali (per noi) veri da quelli (per noi) mitologici, è l’onnipresente strato di insegnamenti e significati religiosi che la società Medievale utilizzava per interpretare il comportamento degli animali, trasformandoli in esempi di vizio o virtù.

Cavolo, se ho studiato.

Al di là di tutta questa erudizione, Pastoureau rende avvincentissimo anche il più scalognato dei serpenti di mare. Ogni animale è una minera di divertimento e stupefacenti rivelazioni, tra incredibili metafore cristiane, orribili pregiudizi e grande disapprovazione per gli appetiti sessuali più smodati (peste vi colga, se vi comportate come la lupa!).

Qualche pagina, così vi innamorate pure voi.
Và, che storia.

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Per i bestiari, (il riccio) è una bestia “nociva”, “avida e piena di spine”, che cerca di rubare l’uva dalle vigne. Quando è matura, il riccio si dirige furtivamente nel vigneto, scuote i pampini, fa cadere i chicchi e ci si rotola sopra: gli acini gli si conficcano negli aculei, conferendogli l’aspetto di un pesante grappolo; il riccio, allora, torna nella tana col bottino e si rimpinza a volontà. E’ un ladro che, come il cinghiale biblico, “devasta le vigne del Signore”. I bestiari ne fanno un ritratto negativo, molto lontano dall’immagine che ne abbiamo noi oggi.

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Altre proprietà restano più enigmatiche, non essendo state commentate a sufficienza. Secondo i bestiari, il leone ha paura di un unico animale, il gallo bianco, e due cose sole lo spaventano: il fuoco e il cigolio delle ruote di un carro. Da dove viene questa credenza, presente già in Solino? Che senso ha? Non lo sappiamo. E poi, perché il gallo bianco, e solo lui, fa paura al leone? I bestiari non ce lo rivelano direttamente, ma ricordano che fu un gallo ad accompagnare per tre volte con il suo canto il rinnegamento di Pietro (associato al leone) e che, da allora, tutti i galli accompagnano con il loro verso lo scoccare delle ore del giorno in onore di Dio. Al crepuscolo, quando il gallo tace, scende la notte con il suo corteo di demoni malefici: la notte è nera, il gallo è bianco.
Il leone si distingue anche per altre caratteristiche, meno diffuse. Quando è arrabbiato, pesta per terra: è Dio che colpisce gli uomini per allontanarli dal male; castiga coloro che ama. Quando vuole andare a caccia, traccia un cerchio con la coda; tutte le bestie che vi entrano non vogliono più uscirne: il cerchio è il paradiso; la coda la giustizia divina; le bestie gli eletti chiamati in Cielo.

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Quelli a sinistra, anche se non si direbbe, sono struzzi. E non importa che non somiglino a com’è davvero lo struzzo, per dire: “la maggior parte degli autori presenta lo struzzo con testa e corpo da uccello, ma gli attribuisce zampe da cammello. Altri lo assimilano al misterioso camaleonte, creatura polimorfa che cambia colore a suo piacimento. Del resto, non soltanto non vola, ma non costruisce nemmeno il nido. Non può essere un uccello!”
Altre magimagie dello struzzo:

Stando ai bestiari, lo struzzo può ingoiare qualsiasi cosa. Il suo stomaco è in grado di digerire tutto, anche il metallo: la sua natura calda fa sciogliere ciò che vi si introduce, come in una pentola. Di qui, nelle immagini, la scelta di un attributo metallico che aiuta a riconoscere lo struzzo: un chiodo o un ferro di cavallo nel becco.

Lo struzzo depone uova enormi, che non cova: le nasconde sotto la sabbia del deserto, poi le dimentica, preferendo passare il tempo a guardare le stelle. Per alcuni autori, la femmina è una cattiva madre, pigra, smemorata, indifferente. Altri le trovano qualche giustificazione: è così pesante che schiaccerebbe le uova, se le covasse; spetta dunque al sole riscaldarle con i suoi raggi.

Quelle a destra, invece, sono gru. Occhio a quella davanti, col sasso nella zampa.

Tutti i bestiari raccontano che durante i loro lunghi viaggi le gru si posano a terra per dormire. Una sola monta la guardia, e per non scivolare nel sonno stringe un sasso con una zampa. Se si addormenta, la pietra cadrebbe sull’altra zampa e la sveglierebbe.

La gru, paladina dei Metronotte.

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Sembra un libro di favole. Ed è anche scritto come un libro di favole. Solo che è anche un saggio storico, una bellissima collezione di immagini che mai al mondo avrei sospettato che i miniatori del 1200 potessero fare pavoni così “moderni”, un’avventura artistica, un trionfo per i curiosoni e uno spaccato di vita quotidiana in un tempo lontano… molto meno buio di quanto siamo abituati a pensare.
Insomma, io mi sono divertita immensamente. E ho anche scoperto che le donnole venivano ritenute molto più abili dei gatti a cacciare i topi. E ora so anche perché i delatori li chiamiamo “corvi”. Ma è lunga da spiegare, bisognerebbe avvalersi di una volpe e di una foresta… e poi Pastoureau è molto più bravo a raccontarvelo. Vi affido a lui, senza indugi.
Fatevi un regalo. E campate mille anni, come il cervo.

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Le collaborerie di Tegamini con variegate entità che mi mandano dei sorprendenti Pasqualoni proseguono con avventure salottiere. A questo giro, Doimo ha deciso di farmi sporcare un divano… e non ci sono riuscita, nonostante anni e anni di sfolgoranti successi.


Che cosa mai conterrà, questo conturbante scatolone?
Confesso che all’inizio speravo fosse un POUF, ma poi mi sono divertita lo stesso.

Il Paccozzo del Mistero di Doimo, pieno zeppo di altri Paccozzi del Mistero. Quel tessuto lì, sotto al fascicoletto nero, è probabilmente già utilizzato dalla NASA per foderare l’interno delle stazioni spaziali.

Bene. Sommamente intrigata dall’esperimento, ho letto ben bene le istruzioni della “sfida antimacchia” e mi sono messa a scartocciare i pacchetti con grande trepidazione. Ho anche bevuto un po’ della Coca Cola in dotazione, che per fare i vandali c’è bisogno di energia. Poi, però, ho deciso che il succo di frutta poteva essere più dannoso e mi sono allegramente preparata a produrre uno scempio senza precedenti.

Il tessutone magico e salvadivani inventato dal team di alchimisti di Doimo, pronto per essere devastato dall’arancia rossa. E vi dirò, mi sono improvvisamente sentita vicina a MADRE, sempiterna nemica delle macchie. Ogni volta che mi avvicinavo al divano con in mano qualcosa da bere o da mangiare, MADRE appariva da nulla per scaraventarmi lontano, manco fossi un Balrog fiammeggiante. Ecco, MADRE e papà hanno lo stesso divano da trent’anni, solo che abbiamo vissuto male.

Ho comunque scelto di mettere da parte i miei ricordi e ho obbedito alle istruzioni. Qua c’è il supertessutomagico pieno zeppo di succo di frutta. Solo che il succo di frutta, non chiedetemi per quale prodigio, non si è malignamente infiltrato, ma è rimasto a galleggiare in felici pozzangherine sulla superficie. Non a caso, le mie pozzanghere si sono distribuite in modo tale da produrre una chiarissima espressione di sconvolta sorpresa.

Và, che storia. Un’impermeabilità quasi inquietante… e molto ludica. Visto che non sono riuscita a produrre macchie definitive, son stata per un quarto d’ora carponi sul pavimento a spostare le pozzanghere di qua e di là. Insomma, ho capito che è un tessuto che va bene per salvarvi il divano ma anche per affascinarvi con effetti ipnotici di raro intrattenimento.

E poi niente, ho preso un fazzoletto – pure quello parte di un Paccozzo veramente ben assemblato – e ho risucchiato le multiformi pozzanghere di succo. Così, come se fosse una roba normale che mezzo litro di arancia rossa non riesca a sfigurare per sempre un divano. Un po’ speravo che ci rimanesse qualche schifoso alone, ma niente, basta ricordarsi di rincorrere anche le goccioline più piccole e tutti amici come prima.

Tiè, zero. E vi giuro che mi sono impegnata tantissimo.

Bene. Ringrazio Doimo per avermi fatto divertire e per le donerie d’accompagnamento al kit del piccolo chimico sporcadivani. L’aggeggio arancione lo devo ancora gonfiare… o meglio, lo deve gonfiare Amore del Cuore, se mai si riprenderà dal materassino di quest’estate. Divani fatati, chi l’avrebbe mai detto.

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Dunque, con Amore del Cuore abbiamo sviluppato questa specialità di andare in inverno dove c’è freddo. Un talento che ci ha portati a Berlino nel 2010 – durante la tempesta di neve più impetuosa che l’Europa ricordi -, ad Amsterdam nel 2011 – coi cigni che agonizzavano, incastrati nel ghiaccio dei canali – e a Oslo, pochi giorni fa. C’è da dire che c’era da ibernare molto meno del previsto (zero gradi, cinque gradi, tre… narvali in bermuda), il che ci ha un po’ spiazzati, anche se la nostra delusione da (relativa)  mitezza del clima è stata più che compensata dal crepuscolo perenne. Ma se inizio a divagare subito è un disastro, perché ho tutta questa idea di proiettarvi con massimo rigore cronologico un numero impressionante di foto delle ferie e mi son segnata che dell’oscurità delle tre del pomeriggio dovrei parlare dopo. Direi quindi di non indugiare oltre e di procedere con coraggio, come veloci pinguini che scivolano di pancia giù per un bel canalone surgelato.

Avventure!
Panorami!
Cibo che costa come un anno d’università!
Fiordi giganti!
Gatti grossi!
Mal di talloni!
Fortezze sorvegliate da burattini!
Animali che mai dovrebbero essere mangiati!
Slitte di regine vichinghe!
Norvegia!
…!

Comunque, per dimostrarvi la mia serietà di travel blogger, parto subito con l’intramontabile classico della foto alle nuvole dal finestrino dell’aereo. Così, tanto per farvi presente che la roba peggiore l’avete già smaltita all’inizio del post.

…sorvoliamo, valà.

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A Oslo ogni porta è una cassaforte. Sono riuscita a imbroccare tutti i numeretti senza sbirciare il bigliettino solo l’ultima volta che ho dovuto aprire il grevissimo uscio della camera, al terzo giorno di permanenza. Che poi non era una camera, era un appartamento, vicino a un fiume pieno di papere chiacchierone. Va bene, c’erano dentro sei mobili in tutto – più un barattolo di gelato, gusto fragola-cheesecake, da noi aggiunto strada facendo -, ma il salotto poteva tranquillamente ospitare una lezione di aerobica, una di quelle ambite, con l’istruttore severo ma giusto.
A questo punto, mi chiedo che cosa spinga un popolo così civile, un popolo capace di dimostrare una tale prodigalità nell’edificazione di spaziose dimore a rifiutarsi di trovare quattro misere piastrelle su cui incastrare un bidet. Che vi ha fatto, il povero bidet. E ci stava pure lui, ve lo assicuro.

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Amore del Cuore cartografo, armato di sestante e bussola, si impegna moltissimo per aumentare il livello medio di senso dell’orientamento della coppia. Lui sa sempre dove si trova. Io cerco di individuare il nord cercando il muschio in terra (anche in città) ed evidenzio in giallo solo le cose inutili della guida, tipo “nei mesi caldi, ricordate di portare un contenitore per raccogliere i mirtilli”.

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Il delicatissimo e cruciale momento della vestizione, reso ancor più impervio dai quarantasei gradi centigradi della stanza. Poi esci che ce ne sono 2.5 e ti si squarcia la pelle, come nel terzo Alien, quello con Ripley nel carcere di massima sicurezza adibito ad allegra fonderia.

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Il primo momento di travolgente entusiasmo ci ha assaliti in mezzo alla piazza della cattedrale, di fronte a tre galline moschettiere. Una roba bella di Oslo è che la città è piena di queste sculture zoologiche che spuntano in giro, senza un apparente perché. Oltre alle adorate gallinone ci siamo imbattuti in una foca, un orso polare, un cervo, una cantante lirica e due leoni. I due leoni stavano a guardia di un posto chiamato Mini Bottle Gallery, un tempio dedicato al culto delle mignon. Dalla vetrina siamo riusciti a scorgere diversi armadietti pieni di bottiglie vestite nei modi più disparati (la bottiglia in frac, la bottiglia scout, la bottiglina ballerina), un acquario lungo un dieci metri buoni – pieno zeppo di pesci enormi, tipo lucci – e un lampadario con tutte queste bottigline appese come preziosi cristalli. Che vi devo dire. In compenso, uno dei due leoni a guardia dell’uscio aveva la coda rotta. E Amore del Cuore mi ha impedito di salirgli in groppa, anche se era palesemente lì per quello.

Per quanto riguarda il secondo momento d’entusiasmo, invece, direi che si potrebbe parlare del palazzo reale che fa capolino in fondo a un viale che bisognerebbe percorrere esclusivamente a bordo di carrozze-slitta. La rigorosa prospettiva del disegno urbanistico rende ancor più bizzarre ed evidenti le mie gambe storte. E mi sento di consigliare a chi fosse afflitto dal medesimo problema a mettersi in posa un po’ di profilo, magari con un piedino all’insù e un fazzoletto bianco in mano, come nella miglior tradizione dei sovrani che fanno ciao alle moltitudini.

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Cafè Skansen – Radhusgata 32

Straziata da un improvviso moto di nostalgia per le straordinarie uova con speck e patate che si mangiano in settimana bianca, ho ingurgitato con grande allegria la variante norvegese dello stimatissimo piatto altoatesino. Nonostante la sublime nobiltà del luogo, le patate erano un po’ buffe.

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Nasjonalgalleriet

Che siamo gente di cultura.
E finché riesco a farmi passare per studentessa universitaria persevero nel chiedere il biglietto ridotto.


Edvard Munch is in da house.

Allora, la sala di Edvard Munch fa paura sul serio. A parte l’infinita e sincera angoscia che ti assale davanti all’Urlo, ci sono anche tutte queste persone inseguite da ombre giganti, signore rigidissime, che ti fissano come se sapessero che stai per essere colpito da una catastrofica sventura, letti di morte, feste danzanti sul punto di finire male, imponenti siepi verdissime, a forma di panettone, che chissà cosa c’è dentro (e forse nemmeno lo vuoi sapere). Tutti i colori, compresi quelli allegri, hanno qualcosa di opaco e sinistro. E le tizie con lo sguardo fisso somigliano pure un po’ a come m’immagino diventerà Bianca Balti da vecchia.

Insomma, ci siamo spaventati, nella sala di Munch. E abbiamo anche deciso di andare a vedere il museo one-man-show, ospitato dal ridente sobborgo di Grünerløkka e messo lì apposta per popolare gli incubi del vicinato. Comunque, la mia vera e adorata scoperta alla Galleria Nazionale è il pittore e illustratore norvegese Gerhard Munthe, uno che aveva tre pannelli appesi nel luogo più scalognato dell’intero museo ma che ha comunque colmato il mio cuore di autentica meraviglia. Perchè il Munthe è un artista di miticherie e un esploratore delle leggende della tradizione norvegese. Ci sono i draghi, i cavalieri, le decorazioni che somigliano a manoscritti miniati, i troll nelle caverne, le principesse da salvare, le armature luccicanti e delle belle brocche molto arzigogolate. E chi lo sapeva, che là fuori c’era un Munthe. Insomma, iniziamo ad amarlo tutti in coro.


Un angolino dei pannelli (scalognatamente appesi) di Munthe.

Un’altra roba, trovata SULL’Internet, delle bellissime bestie molto aerodinamiche di Munthe.

Che felicità.
E un paio di altre ciccionate della galleria:

 

 


Una sala conferenze-concerti in cui non riuscirei mai a stare attenta perché ho un debole per le gigantesche Vittorie alate.


Un ritratto molto ben riuscito di Harry Potter.


Gatti furtivi che rallegrano scene di pesante macelleria.


Amore del Cuore mi asseconda pazientemente, in mezzo ai funzionalissimi armadietti-guardaroba.

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Passeggiatine all’Aker Brygge

Si sa, le banchine portuali tutte rimesse a nuovo sono molto TRENDI, anche nel bel mezzo del crepuscolo degli dèi e con tutti i negozi chiusi, che in Norvegia alle 16-17 si sbaracca e si va a cena. E sono belle, con le lucine calde e gli edifici di vetro nuovi di pacca, i ristoranti e i bar con i tavoli fuori e le seggiole con copertina in dotazione. E già, l’Aker Brygge è un luogo molto fascinoso, nonostante riesca a insinuare nella tua mente il dubbio di esserti smarrito nel quarto livello di sogno di un qualche sventurato protagonista di Inception. All’Aker Brygge, poi, partono traghetti di ogni genere e attraccano pescherecchi, portati a riva da garruli marinai che – sosteneva la guida – hanno l’abitudine di lanciare gamberi appena pescati sulla folla. Noi di gamberi croccanti non ne abbiamo visti, ma siamo andati al banco informazioni per capire se la remota penisola dei musei – perché c’è una penisola con su mille musei – fosse raggiungibile, in qualche modo, anche solcando le onde del mare novembrino.

TEGAMINI – Hi!
THOR DELLE INFORMAZIONI – Hello there!
TEGAMINI – We have a question on how to reach the Bygdøy peninsula… we would like to go to the Viking Ship Museum and we read on our guide that it’s possible to get there by ferry…
THOR DELLE INFORMAZIONI – Oh, I see. Well, no, not at this time of the year.
TEGAMINI – I was afraid you’d said so. But the guide… they say that ferries are still traveling, just on a shorter schedule…
THOR DELLE INFORMAZIONI (con infinito sdegno) – THERE IS ICE IN THE FJORD!!! …but you can take the bus number 30, at the Theatre.

Diamine, avvenente vichingo biondo delle informazioni, mica ce l’ho messo io il ghiaccio nel fiordo! Mi sono sentita come Loki dopo una sgridata di Odino. Che ne so che al 4 di novembre dovete navigare ramponando in mezzo ai lastroni. Insomma, il servizio traghetti si interrompe in settembre, più per una sensata valutazione sull’afflusso turistico invernale che per effettiva glaciazione del fiordo. Che ce n’erano semila, di imbarcazioni che lo solcavano serenamente, le ho viste con questi occhi.
Comunque.


Non è detto che edifici che somigliano all’incontro fatale tra dei panbauletto e un manicomio criminale siano fonte di melodie inquietanti. Tipo, questo qua suonava come un bel carillon.

Tra i mille ristoranti sulla passeggiata finto-rustica dell’Aker Brygge, poi, abbiamo preso due decisioni. A) Domani sera veniamo qua a mangiare il pesce, anche se appena entri hanno la teca con le aragoste vive e c’è pure la cucina a vista, che son sempre cose che ti fanno capire che spenderai un casino di soldi – B) L’umidità mi sta demolendo le ossa, prendiamoci un bel tè del pomeriggio a questo Cafè Sorgenfri (Bryggetorget 4).


Tègamini.


Bella. Due tazze di tè, dieci euro.
Però l’assortimento di ciarpame fantastico che ricopriva ogni genere di superficie ciarpamabile era davvero molto coreografico. Questo qua sopra è il soffitto, con tutti i giocattoli, gli slittini, i lampadari e le paccottiglie vintage. Qua sotto, invece, c’è un angolo con un posatoio per colombe.

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Intermezzi di poca rilevanza

Ma smettiamola con queste scene di calore e ospitalità. Il gelo della sera è tragicamente incisivo… e ci si può difendere solo con cappucci a criniera di leone, spessi mezzo metro. Basta, voglio un titolo nobiliare russo. E un manicotto.


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Viking Ship Museum, per Odino!

Gloriosamente ospitato dalla penisola che non si può raggiungere via mare se non in due mesi dell’anno, il museo delle navi vichinghe è meraviglioso e anche super istruttivo. Per dire, io non lo sapevo che i re e le regine vichinghe venivano seppelliti dentro a una nave. Avevo quest’idea di piccole imbarcazioni spinte al largo con sopra un cadavere fiammeggiante, tipo chiatta-pira-funeraria, ma niente di più. E invece no, c’è tutta una gestione complicata dei morti importanti.
Il museo contiene tre navi-tomba – una BELLISSIMA e vezzosa, una bella e solida, una che è poco più di uno scheletro di legno -, più buona parte dei tesori che vichinghi molto previdenti avevano deciso di far portare al defunto nell’aldilà, comprese delle slitte fascinosissime, piene di decorazioni, mostri aggrovigliati e metallo che brilla.


La prua a ricciolone della nave della regina. Vascello bellissimo ma poco coriaceo, veniva utilizzato per gitarelle nel fiordo e placide escursioni. Mi ci farei seppellire anch’io, dentro a una roba del genere.

Meno carinerie, più legno da battaglia.

I vichinghi sono i vincitori morali di ogni olimpiade di slittino mai disputata al mondo.

I veri costruttori di vascelli iniziano ad esercitarsi da piccoli.

 

 


Modeste dimore di abitatori della penisola di Bygdøy.

 

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Intermezzi di poca rilevanza

I gatti norvegesi delle foreste vivono anche in città. Tu sei lì bello contentone, perché stai camminando verso un posto che nella vita non hai ancora visto e senti un albero che miagola forte. Poi ti giri e ti accorgi che su questo albero c’è un gatto grossissimo e che sta miagolando proprio a te. Che fai, gattone pelosissimo, in bilico sull’albero? Devo chiamare un pompiere biondo perché ti aiuti a scendere? Ti sei incagliato? Macché. Il gatto grosso norvegese delle foreste cittadine ti miagola dietro solo perché è simpatico e vuole essere osservato mentre salta giù, senza un problema al mondo. E poi che devi fare, t’inginocchi in terra, in mezzo alle foglie umide e pasticci il gatto gigante più socievole della Scandinavia con infinita contentezza. Gli vuoi già così bene che ti accorgi di non avere nemmeno un po’ di voglia di starnutire o grattarti gli occhi… e allora capisci che ai gatti scrausi e spelacchiati sarai anche allergica, ma a quelli meravigliosi e costosissimi no.


Natura morta con gatto espansivo che cambia ramo.

 


Natura vivissima e allegra con coccole estemporanee.

 

 


La perentoria reazione di MADRE  – del tutto ignara delle politiche Ryanair in fatto di bagagli – all’avvistamento del gatto megapoffoso di Norvegia.

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Il Vigeland Park

Questo posto è titanico, imponente, insieme molto aggrovigliato e razionalissimo. Le statue tondeggiano, tutto il resto è regolare e squadrato. Tutto il parco scolpito da Vigeland è una metafora del ciclo della vita e ovunque ti giri c’è gente di granito, ferro e bronzo alta due metri che ride, piange, si sbraccia verso il cielo, si raggomitola o salta in groppa a qualcuno. Vi dirò, io sono una ragazza semplice… mi piace Canova. Mi piacciono i marmi candidi, gli eroi, i serpenti di mare, i ponti pieni di angeli guerrieri, le tombe nella basilica di San Pietro, i drappeggi e le vene delle mani che affiorano delicatamente dalla pietra. Insomma, ho difficoltà a trovare soddisfazione estetica in figure come quelle di Vigeland, ma il parco mi ha molto impressionata. Mettetevi lì voi a tirar fuori tutta quella gente da dei sassoni. Trovate un posto a tutti e raccontate una storia. È brutto da far paura, il parco di Vigeland, ma è assolutamente maestoso.

Tegamini (ancora molto lontana dalle statue ciclopiche) saltella felice tra le foglie morte.


L’obelisco di Vigeland, nella mia personale hit-parade delle cose peggiori che potrebbe capitarmi di sognare in una notte di tempesta.


Stanchi delle vostre vecchie poltrone? Sedetevi su una renna.


Qua m’ero appena ricordata di avere mezzo litro di crema di whiskey nella borsa.

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Teatri a forma di iceberg

Perché c’è un teatro in centro, ma c’è anche un nuovo teatro dell’opera, che galleggia in mezzo a fantascientifici cantieri come un grosso zatterone di marmo bianco. L’idea è quella di farlo somigliare a un iceberg e, a giudicare dall’affluenza di felicissimi gabbiani, direi che ci sono riusciti. Il palazzo è fatto in modo da risultare completamente calpestabile: ci si può arrampicare da tutte le parti, tetto incluso… anche se non so bene come facciano quando ghiaccia, che se metti male un piede e inizi a scivolare è matematicamente impossibile fermarsi prima di raggiungere il mare. Forse prendono un cannone, lo posizionano a riva e iniziano a bombardare la struttura a salve di sale. Comunque, sul teatro dell’opera la gente di Norvegia ci porta a giocare i bambini, che impazziscono per piani inclinati e gradini. Son bambini con molta immaginazione, o bambini malvagi, che i genitori sperano di uccidere facendo passare tutta la faccenda del “qual disgrazia, la mia prole è rotolata nel gelido mare da una delle pendici del teatro” come un incidente.


Ormeggiato a poca distanza dal teatro (la distanza sufficiente a creare un effetto di straordinaria fotogenia), c’è un iceberg di vetro ancora più iceberg del teatro di marmo. Superman ci va dentro ad abitare quando si stufa della Fortezza della Solitudine.


Vietato ruzzolare. In effetti, avevo molta paura che Amore del Cuore ruzzolasse. Con la massa che ha sarebbe stato impossibile da fermare.


Tegamini realizza il sogno di riempire di ditate un teatro dell’opera.

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Andrò all’inferno – Lofoten Fiskerestaurant


Massì, uscire a cena in Norvegia è una roba che possono permettersi solo i trafficanti d’organi, ma chi se ne importa, si vive una volta sola, vuoi non andare a mangiare il pesce? E poi oggi non ci siamo nemmeno concessi il lusso di un beverone pomeridiano al caffè del teatro, un posto dove va solo la gente col monocolo, forza e coraggio, abbiamo pure prenotato… ora, però, urge una premessa.
Magda Szabó, che se non l’avete mai letta ve la consiglio molto, era una bambina un po’ gracile e malaticcia. All’improvviso, di fronte a un piatto di carne di non so bene che animale, capì che quella che stava per mangiare era stata una bestia viva e venne colta da una profonda disperazione. Niente, la carne – che così bene le avrebbe fatto – non la voleva più nemmeno veder passare. I suoi genitori, personaggi di meravigliosa fantasia e sensibilità fuori dal comune, le spiegarono pazientemente che certi animali, ad un certo punto della loro vita, si stancano di stare al mondo e decidono, in tutta libertà, di offrirsi volontari per finire sulla tavola degli esseri umani. La Szabó, tra una pertosse e l’altra, si lascia persuadere, e ricomincia a rimpinzarsi di salutari proteine.
Ecco.
Sono sicura che la balena che ho mangiato era una di quelle bestie lì, stanche della vita.

CAMERIERINA – So, our five courses fish menu starts with grilled whale, followed by a mussel soup with vegetables and cod, cooked in the oven with lentils and red wine sauce. After the fish…
TEGAMINI – Hold on, hold on. Whale, like a…
CAMERIERINA – Yes, whale, you know, the huge fish…
TEGAMINI – Technically it’s not a fish but… WHALE! Is it even legal?
CAMERIERINA –  In Norway and Japan.


Mi chiamo Ismaele: l’antipasto di balena grigliata.
E lo devo dire, poverona, la balena sa del più buon filetto che mai vi capiterà di inghiottire finché siete al mondo. Mi sento come Homer quando mangiò Pizzicottina. E anche se era una fettina grossa come un Oro Saiwa, mi sento ormai marchiata per sempre dall’anatema del dio Poseidone. Perché diamine, gli animali dei documentari non si dovrebbero mangiare.


La zuppa di pesce con cozze galleggianti.


Il merluzzo al forno, col vino rosso e le lenticchie.

E comunque una mia amica ha mangiato il delfino. Mangiare un delfino è molto peggio. I delfini salvano i naufraghi, fanno divertire i bambini e vengono a riva a farsi accarezzare.
La verità è che merito di essere trafitta da un narvalo vendicatore.

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Intermezzi di poca rilevanza


Anche in Norvegia si fa draping.

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Il Munch Museet – The Modern Eye

Anche qui, super scoperte. Nonostante al bookshop vendano la tristerrima tavolozza di Munch (composta unicamente da colori che non riesco a descrivere in altro modo che con l’immagine di uno spartito musicale fatto solo di note in bemolle), quello che si trova in The Modern Eye è davvero insolito, per quello che l’essere umano medio conosce dello strambo artista. Perché è vero, c’è poco da stare allegri, ma la collezione che sta fuori dalla Galleria Nazionale (e che abbiamo visto finire nella mostra di questo periodo) è vivace e stramba: ci sono stanze che raccolgono innumerevoli varianti dello stesso soggetto (dipinte a intervalli regolari per una vita intera), gli autoritratti fotografici e pittorici, strade in mezzo ai boschi (sepolte da una nevicata, ostruite da tronchi di un giallo brillantissimo o occupate da cadaveri e assassini che scappano), ossessioni per le trasparenze e le sovrapposizioni (nate, all’epoca, dai primi utilizzi dei raggi X), le scene cinematografiche dei lavoratori che camminano per strada (come nei primi esperimenti di fratelli Lumiére, che a Munch interessavano immensamente), gli interni che sembrano fotografie di scene di teatro (cose che succedono dopo il lavoro di Munch agli spettacoli di Ibsen) e tutto quel che accade quando a un artista scoppia una vena in un occhio.
E chi lo sapeva, che a Munch era esploso un occhio. Non solo cercò di ripigliarsi dall’accaduto immaginando il suo occhio come una specie di pianeta infestato da un uccello minaccioso, ma cominciò anche a dipingere esattamente quel che riusciva a vedere in quella nuova condizione. E ci sono quadri pieni di macchie pennute, ombre ancora più grosse, tinte distorte e buffe brillantezze.
Mamma mia, sono più divulgativa di Alberto Angela. Ma sarà uscito dal sottosuolo di Roma? Tutte le volte che accendo la tv e mi imbatto in Alberto Angela, sta vagando da qualche parte, nelle viscere di una catacomba capitolina. Ma solo a me succede, o lui effettivamente vive là sotto?
Comunque.


Matite di Munch, con l’alberello di vene rotte che diventa un cattivo mini-ibis.


Dentro alla testa di una persona preoccupata ce n’è sempre un’altra. E tutte le cose diventano anche un po’ trasparenti.


Cavalli che scappano nella nostra direzione.


Al bar del museo di Munch urlano anche le tortine. E visto che l’
Urlo è da un’altra parte, è l’unico urlo disponibile.

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Super Fortezze Volanti Fantastiche: Akershus Festning

Qua ci metterò le foto un po’ più grandi, valà, che c’è tutta una magia di cielo-acqua-mattoni. E vi risparmierò ogni tipo di autoscatto romantico, anche se Amore del Cuore che si staglia sul fiordo è un bel vedere.

TEGAMINI – …Amore del Cuore, ma non c’è nessuno!
AMORE DEL CUORE – Ma no dai, c’erano quelle due tizie del viale, quelle che si tiravano addosso le foglie per fare le foto.
TEGAMINI – Ma ho paura, è deserto! Metti che adesso spunta un cavaliere fantasma o qualcosa del genere…
Da dietro l’angolo fa la sua comparsa la guardia in alta uniforme, con tanto di braccio rigido che fa su e giù, fucile in spalla e sguardo fisso. Amore del Cuore e Tegamini si immobilizzano.
TEGAMINI – Non ce la faccio, non ce la faccio, mandalo via, mi viene da ridere!
AMORE DEL CUORE – Guarda, guarda, adesso batte i tacchi e torna indietro. Però dai, abbiamo avuto fortuna, è sicuramente il cambio della guardia. Vuoi che passi la giornata ad andare in giro così?
TEGAMINI – Ma poverino, chissà che freddo, non ha nemmeno una sciarpetta! Quanti anni avrà, poi?
AMORE DEL CUORE – Sedici.


Ancor meno rispettato delle guardie col cappello di gorilla della regina d’Inghilterra, l’indomito soldatino di piombo, ultimo baluardo difensivo della fortezza Arkershus e prima fonte di gaudio per i turisti più sadici.


Il super fiordo (se vedete dell’ICE IN THE FJORD vi prego di segnalarmelo) color piombo. L’impressione che ho avuto è che l’acqua, in questo posto qua, sia molto pesante, come se avesse una densità da petrolio. E poi fa quasi paura perché è fermissima, appena un po’ increspata. Insomma, molta meraviglia.


Qua è da dove si sparava quando i kraken cercavano di attaccare Oslo.


Le tegole sono fatte con le scaglie corazzate dei draghi.


Tegamini e doverose espressioni di grande e soavissimo stupore.

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Intermezzi di poca rilevanza

…anche perchè era un po’ che non si parlava di roba da mangiare.


Sarà anche un tapas bar (Delicatessen, Sondregate 8), ma la splendida legnosità minimal è tutta da paese dove ci son freddo e razionalità. E comunque, nessuno di noi ha preso tapas, per ragioni di costo-opportunità.

AMORE DEL CUORE – Secondo te quante tapas dovrei mangiare per non avere più fame?
TEGAMINI – Ah, sei, tipo.
AMORE DEL CUORE – Non si può fare. Costano troppo. Mangio il panino, guarda quella tizia lì, è grosso il suo panino. Te?
TEGAMINI – C’è la frittatina… e poi queste croquetas col prosciutto, secondo me sono buone. Toh, costano anche 20 corone.
AMORE DEL CUORE – 20 corone, te ne portano una.
TEGAMINI – Ma figurati, che roba è, una crocchetta.

Eh, una ne è arrivata.

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Negozi strambi e belli

Dunque, volevo moltissimo un maglione norvegese, di quelli con tutti i ricami a fogliette, fiocchi di neve, germogli dai colori squillanti e compagnia. Quando ho visto che il maglione norvegese più scalognato del negozio costava 250 euro ho pensato che magari potevo permettermi una sciarpa, che se c’è meno stoffa magari ci sto dentro. Niente, sciarpa, 140 euro. Per un attimo ho valutato la possibilità di acquistare un paio di guanti a muffola, ancora più piccoli, ma ho poi ricordato di essere fiera e orgogliosa, e ho mandato tutti a pagaiare sul fiordo, ripromettendomi di non mettere più piede in un negozio di abbigliamento, salvo strambe eccezioni in quel di Grünerløkka, che pare sia un po’ diventato il luogo YEAH-creativo-hipster della città.
Qualche angolo di negozietto… a quel che ho poi effettivamente comprato credo proprio che riserverò il gran finale. Anzi, ci dovrò fare un altro post, perché ci sono cose che splendono con troppo fulgore per rimanere confinate in un piccolo spazio.


Il negozio ACNE, che ha il pregio di metter fuori scarpe numero 41, il che conforta molto noi genti coi piedi del 39, mica come  in Italia, che si vedono solo dei graziosi 36-37 e poi quando ti arriva la scatola del numero giusto sembri sempre il pagliaccio del circo.


Inquietanti (e arianissimi) bambini, uno diverso per ogni lattina, sorridono come piccoli e malefici androidi. Quello che ci sia nelle lattine non è comunque ancora chiaro.


Battagliere falangi di animalini di plastica Schleich (Riktige Leker – Haakon VII’s gate 1)


Il paradiso del genitore hipster-multicolor (Sprell – Korsgata 24)


Inestimabili tisane che comprendono i tuoi sentimenti e vogliono essere bevute esattamente al momento giusto. Magari sanno tutte di fieno unto, ma le confezioni sono pregevoli.


Sano disordine in una libreria dell’usato. Dopo un po’ che vedi scaffali organizzati con squadra e righello, lavagnette e menu scritti a mano da eccelsi calligrafi (non professionisti) e adorabili muri di regolarissimi mattoni al vivo, insomma, le cose abbandonate in terra fanno molto piacere.


Suggerimenti per lavoretti natalizi da Norwegian Designs. Perchè là fuori c’è gente che usa le mani per mettere insieme biglietti d’auguri, deliziosi ornamenti e interi plotoni di folletti di carta. E poi ci sono io che uso le mani solo per cambiare canale quando salta fuori Paint Your Life. Barbara, vai a fare un bel giro in Norvegia e lascia in pace le povere sedie impagliate.


Scatole, cestini, contenitori, cosetti, non lo so, mi piacciono tantissimo. Tutte queste scatole dei mille colori dell’arcobaleno, poi, erano anche telate e morbidine. Il reparto carta di Norwegian Designs è ufficialmente il male.


Accessori svedesi per case di bambola. Perché la Svezia non arreda solo posti per umani, anche i giocattoli hanno diritto a un po’ di design scandinavo. C’erano milioni di lucette, impianti elettrici perfettamente funzionanti, microscopiche zuppiere, salotti, piastrelle… tutto svedese e ben separato dal normale mobilio per bambole, quello coi tavoli di legno con i piedi intarsiati e i piatti di ceramica col disegno blu. La meta-casa-Ikea, per una bambola che già abita nella casa Ikea della sua proprietaria. – (Riktige Leker – Haakon VII’s gate 1)


I gioielli di Bjorg, tutti belli tranne quello là in fondo che sembra una mezzaluna-spazzettone… o i bracciali a forma di spina dorsale (con costole), che però qua non ci sono. Meglio per voi che non li avete visti.

L’angolo delle farfalle di un negozio di vestiti usati per dive cadute in disgrazia. Stavo per provarmi un costume tradizionale norvegese quando mi sono domandata (rigorosamente in quest’ordine): ma, non sarà un po’ grande? E, ma poi, dov’è che ci vado, con questa roba qua?

TEGAMINI – Amore del Cuore, secondo te ce ne sta uno, nel bagaglio a mano?
AMORE DEL CUORE – Ma va, sono giganti.
TEGAMINI – Ma nemmeno il bisonte, che è tondeggiante? Non ha le corna, magari si riesce… eh?
AMORE DEL CUORE – Come fa a starci. Dai, ti porto via, che poi ti affezioni.
TEGAMINI – Lasciami qui, te vai avanti.
(Sprell – Korsgata 24)

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Fyret (Youngstorget 6): due etti e mezzo d’animale di foresta

Per concludere degnamente la scampagnata, abbiamo deciso di lanciarci sulla cucina tipica norvegese, al Fyret. Cibi sinceri, esuberanti, salmoni salterini, carte geografiche polari appese ai muri, gente che si squarta d’acquavite, birra scura e hamburger d’alce. Perché dopo aver mangiato una balena, nutrirsi d’alce diventa all’improvviso una cosa normale, soprattutto dopo aver constatato che a Babbo Natale la slitta la tirano le renne, che sono bestie di tutt’altro genere.

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Bene. Spero sia stato istruttivo. E magari anche un po’ ameno.
Per chi volesse amare tutto questo anche su Instagram, c’è parecchia roba anche lì.
Per chi crepa dalla curiosità di scoprire cos’ho comprato a Oslo, state sereni un attimo che arriva anche l’apposito post.
Per tutti quanti, viva i fiordi, ghiacciati e non!
E mettetevi due paia di calze, che è sempre saggio.


Ciao Norvegia, ciao soldatino di piombo della fortezza!


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Superfelicità, c’è il teaser trailer di Iron Man 3!
Esplosioni, Robert Downey Jr con le zeppe d’ordinanza (ben camuffate dagli astuti pantaloncini a zampa), i meravigliosi capelli di Pepper Potts, seimila armature cromatissime, roba che vola e spara. I supereroi mi strappano continuamente il cuore, soprattutto quando hanno barbette molto geometriche e un’indole sbodenfia.
Comunque, Iron Man 3 uscirà in Italia il 24 aprile 2013 e, se è vero che tutti quanti potremmo anche essere già morti, vale la pena esaminare questo trailer del trailer con grande perizia e scrupolosità. Perché c’è chi ama applicare le proprie doti analitiche a una professione ben remunerata e c’è invece chi le utilizza solo per perder tempo.
Facciamo così, qua c’è il filmatino… e dopo c’è quello che ho capito io.

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A Iron Man, stare disteso nella neve sporca e ghiacciata fa venire la malinconia.
L’immensa intelligenza di Tony Stark è arrivata a padroneggiare il millenario segreto della telecinesi. Vuoi metterti un guanto? Non temere, il guanto verrà a te.
L’insonnia affligge anche i geni-miliardari-playboy-filantropi. E voi che pensavate di essere speciali…
A Pepper non dispiace che Tony dorma con un’intera officina meccanica disseminata per il pavimento della camera da letto. L’importante è che il grasso da motore non insozzi il piumone di raso.
C’è sempre quello là, il militare nero, War Machine. Quello che nell’1 era diverso.
C’è della gente che va ad esplorare uno stanzone con delle brutte infiltrazioni sui muri. Forse sono imbianchini.
Guy Pearce è un viscidone.
Tony Stark ama prodursi in pose drammatiche di fronte ad anfiteatri pieni zeppi di armature ordinate cronologicamente.
L’Ark-cuore. Adesso è un po’ sull’azzurro. E Tony vaga per casa con la testa ricoperta di auricolari Bluetooth.
Le armature sono dispettose e ti vengono sempre a svegliare nel bel mezzo di un bel sogno.
Saranno anche belle belle in modo assurdo ed esposte cronologicamente ad anfiteatro, ma prima o poi le armature scoppiano tutte.
C’è uno con la scabbia che si scappuccia la testa.
C’è una tizia in terra che somiglia un po’ a Naomi Watts. Mora e con le Adidas, però.
Hanno fatto verniciare un’armatura a Steve Rogers.
Quella biscia melliflua di Guy Pearce si struscia alla guancia destra di Pepper Potts. Spero moltissimo che Pepper sia ben conscia di essere già fidanzata con il figo del secolo.
Tony Stark deve operarsi a qualcosa.
Iron Man piglia al volo un sacco di gente che schizza fuori da un aereo squarciato. Tutti quanti però forse non ci riesce a prenderli. Gli squali avranno di che mangiare per molti anni.
La Pepper soffre tantissimo dentro a una specie di struttura di metallo con le bretelle. Soffre e digrigna i denti, ma comunque non si spettina.
C’è un casco guercio di Ironman.
Ci sono le mani molto ingioiellate di quello con la scabbia, uno che ama molto anche i polsini pieni di perline. E dal taglio a pagoda dell’abito, direi che è il Mandarino.
Un’armatura sembra voler fare all’amore con Tony Stark.
Tony Stark le prende anche dalle donne.
Si capisce che il Mandarino non ha la scabbia, ma una treccia un po’ arrotolata sulla sommità del cranio.
Degli elicotteri imbottiti di missili distruggono la sobria villa discovolantesca di Tony e Pepper, paladini dell’understatement architettonico.
Mentre Tony e Pepper vengono sbalzati lontano dall’onda d’urto di un’arrogante esplosione, nel loro soggiorno si scorge un pupazzo gigante che somiglia in modo preoccupante a Jar Jar Binks. E se fosse vero, si meritano alla grandissima di diventare dei senzatetto.
Distruzione, distruzione, detriti bruciacchiati e cemento che rovina giù per la scogliera. Gli squali finiranno schiacciati sul fondo limaccioso del mare.
Iron Man è un po’ sfortunato e viene trascinato nell’abisso insieme al resto dei rottami. Trascinato per il collo, tra le altre cose. Non fa mai piacere.
Tutto è buio, alghe e oscurità senza fine.
E pure il logo è un po’ rugginoso e pessimista.
Però, però, poi c’è Tony Stark che tira una slitta in mezzo alla neve. Che sia Natale? Che sia un segno di meravigliosa circolarità narrativa? La neve all’inizio e la neve alla fine. E a Tony è anche un po’ passata la malinconia, anche se sbuffa come un muflone d’altura.

…e guardate che su Jar Jar non stavo mica scherzando:

 

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Là fuori capitano cose belle. Mentre siamo tutti a buttar via le nostre vite sul divano, quattro personaggi (Eli Horowitz, Russell Quinn, Matthew Derby e Kevin Moffett) si inventano The Silent History, un’app-romanzo che oltre ad essere di piacevole lettura è anche sommamente interessante.
L’antefatto è semplice: all’improvviso iniziano a nascere bambini che non emettono suoni e non sono in grado (o non vogliono?) comunicare verbalmente. Bambini perfettamente in salute, capaci di interagire emotivamente e di comprendere quello che capita intorno a loro, ma che, semplicemente, non fanno nemmeno BA. E diventano sempre di più, sparpagliandosi in una sorta di epidemia silenziosa che la scienza medica non sa spiegare e la società fatica a digerire. Questi bambini vanno a scuola, crescono, camminano per strada… e con questo loro impenetrabile silenzio cambiano per sempre il mondo che conosciamo.
L’app – per tutti quelli che come me stanno pagando un iCoso in trenta mesi -, è un super puzzle di testimonianze, dal 2011 al 2043. Sono capitoletti che si leggono in cinque minuti, rilasciati giorno per giorno. Ci sono i ricordi dei papà che portano la moglie in ospedale per il parto, le babysitter dei primi bambini silenziosi, le vicine di casa impiccione, i dottori che gettano le basi per gli studi all’inizio del fenomeno, maestre turbate, sorelline affettuose. Voci diverse da posti diversi, per scoprire che cosa sta davvero accadendo insieme al lettore.

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Oltre alle testimonianze, l’app prevede anche un secondo livello di lettura, con i field reports geolocalizzati. Si va in punto ben preciso e solo da quel punto, sventolando il proprio DEVAIS davanti a non so bene cosa, è possibile accedere a una testimonianza aggiuntiva, specificamente pensata per quel punto. I field reports non sono indispensabili alla comprensione generale della storia, ma sono una sorta di bonus interattivo, perchè oltre ad andarteli a leggere, se hai voglia puoi pure crearne uno. In Italia, per ora, non c’è granchè, ma sarebbe davvero bellissimo poterne trovare di più.

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Tutto il baraccone costa 6,99€. Si può anche decidere di scaricare il primo periodo a 1,99€ e poi vedere che succede ma, come per gli album, conviene davvero investire l’inestimabile somma e iniziare subito a leggere.
E’ bello perchè è una storia (una bella storia, tra le altre cose) che si adatta, finalmente, al supporto destinato a convogliarla. Gli iPhone e gli iPad non sono fatti per leggere libri come può molto meglio fare su un Kindle, su un Kobo o sugli altri fratellini della famiglia degli inchiostrini magici… e ben vengano, allora, i capitoli da cinque minuti. E ben vengano, soprattutto, i capitoli da cinque minuti che raccontano una storia gigantesca, combinando prospettive, mescolando registri differenti e invitandoti a fare dei chilometri a piedi, magari, tanto per andarti a vedere che è capitato. E come ogni app degna di questo nome, crea dipendenza.
Insomma, per chi può, The Silent History è una bella faccenda. Una storia che funziona e un meccanismo antico come il mondo (ah, il romanzone a puntate!) che si trasforma. Evviva.

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– Michele?
– Dimmi.
– Ti chiami Michele, giusto?
– Sì. Scusa. Otto anni.
– Sono otto anni che lavori qui?
– Otto anni e sette mesi.
– E ti trovi bene?
– Abbastanza.
– A me qui piace tantissimo.
Gervasini grattò con la punta della forchetta la base della collina giallognola. Niente da fare. Persino il purè era più forte di lui.
– Senti Adele, io non ti conosco. Ma…
– Facciamo finta che ci conosciamo. Così è più semplice.
– Ok. Allora, posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Sicura?
– Sicura.
– Come fa a piacerti tantissimo un posto dove la gente si ammazza?

Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile
Einaudi (i Coralli)

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Non si lavora. Si lavora troppo. Si lavora bene ma nessuno se ne accorge. Si fa finta di lavorare, tanto c’è sempre un pirla che si prende la colpa. Si timbra il cartellino quattro volte al giorno. Non si timbra perchè col progetto non c’è da timbrare. Ad agosto non si può accendere l’aria perchè la tua collega ha i bronchi di cristallo. Ad agosto devi stare a meno sei perchè la tua collega in menopausa deve tenere a bada le scalmane. Ci sono quelli che hanno la firma in fondo alla mail, quelli che scrivono mail come se fossero verbali dei carabinieri, quelli che si personalizzano il carattere perchè l’Arial 10 è da impiegato senz’anima. Scrivanie con foto di cani. Scrivanie con foto di bambini. Tutti hanno una tazza, te hai un portamatite di plastica. Il temperino non ce l’ha mai nessuno. Tutti attaccano qualcosa di straordinariamente originale alla chiavetta del caffè. La macchina del caffè non caccia latte neanche a pedate. Se c’è il latte, non vengono giù le palettine per mescolare la roba. La chiavetta del caffè le distribuisce sempre una persona importante, che non è mai quella che custodisce i buoni pasto. I buoni pasto li hanno gli stagisti e quelli col contratto. In ogni caso, sono sempre di almeno un euro sotto a quanto mangi effettivamente. Si scorgono tupperware pieni di pasta vecchia, i salamini Beretta nella pratica confezione con lo scompartino per i taralli, le piade del bar che ti fanno venire sonno, i cous-cous organico che non si capisce se vada mangiato caldo o freddo. La mensa c’è se lavori in uno di quei posti scomodissimi fuori città. Se lavori al confine tra la città e la non-città sei fregato, non c’è la mensa e l’unico bar dei dintorni è in mezzo a un deserto nucleare, punteggiato dalle ossa dei grandi rettili del passato. E la benzina costa. E i mezzi non funzionano. La metro è comoda, ma poi arrivi in ritardo perchè ci sono quelli che si gettano sulle rotaie. Leggi il Leggo. E in Metro leggi Metro. Alle fermate all’aperto leggi City. L’unica differenza è l’oroscopo. Passano sempre dei piccioni, poi volano via e te devi andare in ufficio e allora li guardi e ti ritrovi su un marciapiede a domandarti come sei riuscito a produrre un sentimento d’invidia per dei piccioni. E allora entri e passi il resto della giornata a cercare di capire perchè sei lì.

Non credevo che venisse così lungo, il benedetto preambolo. Sarà perchè l’ufficio confonde. E debilita anche un po’. Il fatto è che l’ufficio produce anche una girandola di emozioni e sentimenti assolutamente non richiesti. Sarà che ci si passa troppo tempo per far finta che non stia davvero capitando a te, alle tue variopinte occhiaie e alle tue lauree. Allora ti adatti, ti arrabbi, ti stanchi, qualche volta ti diverti e immancabilmente inveisci come un vichingo contro le trattenute. Ma poi capisci che ti è andata bene, perchè alla Montefoschi, nobile azienda a ex-conduzione familiare per la produzione di latte e derivati, c’è chi decide di darsi fuoco nell’armadio delle scope.

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Raggiunse lo schedario di alluminio verde alle spalle di Gervasini, infilò il faldone nel cassetto della lettera C. Tornò a sedersi, e concluse: – La paura, Gervasini. La nostra cara, umana, preziosa paura. L’unica forma di democrazia che resiste al tempo. Altrimenti perchè crede che la gente si uccida?
– Lucia Frangipani non aveva paura di niente.
– E lei cosa ne sa? I colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane.

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Nessuno è indispensabile è un libro pieno zeppo d’intelligentissimo e malvagio divertimento. Imperscrutabili mucche in vetroresina, gente che s’ammazza in ufficio, agghiaccianti siti per cuori solitari, stagiste col nasone che però se le guardi bene non sono poi così degli scaldabagni, integratori alimentari che spazzano via i risparmi di una vita, code sul raccordo, silos pieni di latte che luccica al chiaro di luna, case con dentro solo un’iguana, grezzoni col gessato che fanno i brillanti alla macchinetta del caffè e amministratori del personale con la katana appesa in ufficio… personaggi inespressivi e insensibili, che mandano mail direttamente dal cimitero dei tuoi sogni.

from: segreteria.hr@montefoschicorporate.it
to: m.gervasini@montefoschicorporate.it
subject: CONVOCAZIONE

Alla c.a. del sig. Michele Gervasini
La SV è invitata a presentarsi il giorno lunedì sg. corrente mese alle ore 17.00 presso l’Ufficio del personale, piano V, stanza 127 all’attenzione del dott. Stefano Bigazzi.

Si prega cortesemente di dare conferma di avvenuta ricezione della presente.

Cordiali saluti,

La Segreteria Direzione Human Resources

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E l’eroe? C’è, l’eroe?
Peppe Fiore ha deciso di scrivere un libro sul più sfortunato e goffo dei vostri colleghi. Quello che se anche si cambia vi sembra sempre vestito allo stesso modo e che la gente si tira dietro sul balcone perchè non c’è neanche un ficus su cui indirizzare il fumo della sigaretta. Una faccia che mai riuscirete ad associare a un nome… e non perchè siete rincoglioniti, ma perchè proprio non v’interessa.
E Michele Gervasini è lì, che fa il suo, sperando fortissimo che non gli capiti più niente di male.
Lo devono promuovere da quattro anni, ma non è mai il momento giusto. E quella totale assenza di eventi che contraddistingue la sua giornata lavorativa finisce pian piano per invadere anche il resto del tempo. Fa il contabile per mozzarelle e yogurt e, non pago, campa a mozzarelle e yogurt. Tollera orribili spostamenti mattutini nell’incubo del traffico di Roma, ma solo per andare in ufficio, che se lo invitano da qualche parte a farsi due risate non ci va perchè pigliare la macchina è troppo faticoso. Gervasini viene rimbalzato, ignorato, maltrattato e lasciato a marcire come un delfino disorientato sul bagnasciuga dell’ufficio contabilità. Zero carriera, mai una gioia… e i suoi conti sono un casino perchè l’unico che doveva dargli una risposta urgente s’è buttato dalla finestra. Gervasini un po’ ti fa tenerezza e un po’ lo prenderesti a sganassoni. E gli sganassoni sono per quelle innumerevoli piccole cose della sua personalità che ti fanno venire in mente anche la tua, di giornata lavorativa.

Insomma, panico, scrivanie, contabilità, cattiverie burocratiche ed estrema disperazione impiegatizia… sembrerebbe una roba che non potrebbe mai e poi mai far ridere (sia forte e allegramente che con amara pensosità), ma probabilmente Peppe Fiore è cascato in un ruscello magico da piccolo.

Insomma, è con passione e scompigliatissimo trasporto che vi consiglio questo libro. Ci sono pure dei piccoli lavoratori che si gettano ordinatamente nel vuoto dal codice a barre. Parliamone!

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Ai piedi delle due immagini c’era scritto cubitale LAVORARE UCCIDE! e più sotto ancora la convocazione di un’assemblea sindacale straordinaria per il martedì successivo. Gervasini, come tutti gli altri, si appallottolò il volantino in tasca, e si avviò a passo deciso verso l’ingresso degli uffici. Doveva lavorare, lui.
Anche il sindacalista, ovvio, doveva lavorare. Ma questo non gli impedì di presidiare il piazzale finchè non fu sicuro che il grosso dei dipendenti avesse avuto almeno un volantino. Avrebbe timbrato il cartellino in ritardo, ma amen: la rivoluzione non ha orari d’ufficio.

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E ricordate. Chi non legge Nessuno è indispensabile è un Michele Gervasini!

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Quel che è chiaro a molti è che non conviene offrirmi da bere. Offrirmi da bere è un investimento – ovviamente ripagato da momenti di straordinario spasso -, ma è pur sempre una mossa coraggiosa e intrepida. Non tutti possono ambire a un tale impegno di risorse e tempo, giorni feriali inclusi, non tutti scelgono consapevolmente di rompere il porcellino coi risparmi di una vita e invitarmi all’aperitivo. Ma poi, magicamente, succede che qualcuno tenti l’impresa. Ieri, per dire, i prodi di Fernandito hanno deciso che se la sentivano… e mi hanno mandato un pacco-dono per collaudare una bevanda festosa. E, visto che MADRE mi ha ben educata, non posso di certo non ringraziare, anche perchè abbiamo allegramente gradito.
Valà, che paccozzo:

Non so bene che cosa sia, la benedetta mezcla, ma non ci siamo formalizzati. Anzi, Amore del Cuore – altro noto astemio -, ha quasi rovinato la coreografia.

AMORE DEL CUORE – …ma l’hai già fatta la foto? No, perchè, insomma, l’ho bevuto praticamente tutto… lascia un bel freschino in gola.

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Ecco, grazie del regalo, cari Fernanditi. E cin-cin-pepperepé. E la bottiglina, attenzione, l’abbiamo messa nel vaso dei tappi che ci piace ricordare con affetto. Le mignon sono tanto carine.

 

C’era una volta un ragazzo che era troppo curioso. Se ne andò dalla fattoria di famiglia in cerca di fortuna. Prima ancora di dire addio al cane, proprio fuori dal cancello di casa, incontrò un serpente gigante. Aveva le squame color rubino, e gli disse: “Devi tornare dalla tua famiglia”. Il ragazzo rispose: “Ma io voglio vedere il mondo”. Il serpente disse: “Loro sono il sangue del tuo sangue. Loro sono tuoi, tu sei loro, per sempre”.

Steven Amsterdam
Ritratto di famiglia con superpoteri
Isbn edizioni (Special Books)

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Il titolo originale di questo libro è What the Family Needed. E anche se è un titolo allegro come un secchio pieno di alghe, c’informa esattamente di quel che succederà. Gli adorabili di Isbn, invece, hanno deciso di farci sapere che nelle innumerevoli possibilità concesse alle famiglie infelici di essere infelici a modo loro, c’è pure una modalità che prevede l’utilizzo di superpoteri. C’è Giordana che diventa invisibile, Ben che vola, Natalie che nuota velocissimo, Ruth che legge nel pensiero, Sasha che fa innamorare le persone, Peter che può far materializzare tutto quello che desidera. E poi c’è Alek, che si accolla tutta la tristezza e la confusione, che scompare, ritorna e cerca di non farsi mettere in gabbia, anche se è l’unico che non ha mai davvero abbandonato nessuno.
I superpoteri, in questa storia, non sono niente di strano. I personaggi li ricevono all’improvviso, in giornate che spesso non hanno niente di speciale, e diventano subito parte di loro, come il colore degli occhi o il temperamento. Sono superpoteri distribuiti con saggezza, doni che dovrebbero riuscire a risollevare da un momento buio, per infondere la determinazione necessaria a vedere che cosa riserverà la giornata successiva. Spesso appaiono col giusto tempismo, a volte peggiorano le cose o attirano una catastrofe peggiore di quella schivata nel presente, tutti innescano conseguenze difficili da governare. A tirare le fila, a scegliere quale sia il sentiero giusto per avvicinarsi alla felicità, c’è l’unico della famiglia ad avere davvero qualcosa di speciale. Non sapremo mai da dove arrivi il suo dono, ma credo ci si possa accontentare di osservarlo mentre mette insieme un puzzle molto complicato con le storie e il tempo di chi ama.

Che vi devo dire, evviva. E’ un degno Special Book, è una raccolta di scatole piene di quello che non ci piace dire ad alta voce. E’ una storia di famiglia e un interessante giocattolo di incastri. E se mentre lo leggete camminerete in un muro, credo riuscirete ad attraversarlo, senza impegnarvi.