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Dunque, l’universo costruito da Scott Alexander Howard per questo libro funziona così: nel cuore di una valle c’è una cittadina lambita da un grande lago e protetta dai monti. Non si hanno notizie di altri luoghi da raggiungere o di un mondo più vasto. Tutto quello che sappiamo è che alla “nostra” valle ne corrispondono altre, copie identiche traslate di vent’anni avanti o indietro nel tempo – e via così potenzialmente all’infinito, possiamo immaginare. Se dalla nostra valle “presente” ci spostiamo a ovest torniamo indietro di 20 anni – rivisitando il passato -, se ci spostiamo a est andiamo avanti di 20 anni – trovando il futuro. I confini tra le valli sono sorvegliatissimi dalla gendarmeria e le visite tra una valle e l’altra vengono autorizzate solo in casi eccezionali da un Consiglio che ha sia il compito di amministrare la cittadina che di salvaguardare il tessuto del tempo – come ci hanno insegnato Doc e Marty McFly, infatti, incontrare una propria versione passata/futura può produrre effetti devastanti e imprevedibili, così come provare ad alterare o cambiare il corso degli eventi.

La piccola comunità valligiana è organizzata secondo un sistema che sembra scoraggiare strutturalmente la mobilità sociale o i ripensamenti in corsa. Durante le superiori gli studenti sono chiamati a scegliere una “carriera” che li accompagnerà per tutta la vita. I panettieri saranno panettieri, i gendarmi saranno per sempre gendarmi e chi manifesta tendenze “antisociali” o una fondamentale incompatibilità con un compito preciso sarà relegato a vagabondare ai margini e reso teoricamente innocuo dall’indigenza e dall’invisibilità che ne consegue. Il Consiglio è l’unico organo che può sporadicamente permettere ai “meritevoli” di ascendere, con un programma didattico specifico che promette maggiori privilegi e anche un accesso ai meccanismi meno noti del tempo. La comunità sa il minimo indispensabile a mantenere l’ordine e si nutre di folclore e di moniti che paiono più adatti a tener buoni i bambini che a gestire un gruppo sociale consapevole.

La nostra protagonista è una studentessa poco appariscente, timida e taciturna. Di amici pare non averne e sua madre – che fa l’archivista per il Consiglio perché non è riuscita a superare le selezioni per sedersi al tavolo dei potenti – la sprona pesantemente a vendicare la sua sconfitta. Forza, Odile, provaci! So che saprai fare meglio di me! Riscattaci! E Odile ci prova, candidandosi per l’ambito programma speciale che dovrebbe garantire a lei – come a sua madre – una vita più confortevole e un destino diverso da quello di formichina muta e ignara che tocca alla maggior parte degli abitanti della valle.
I sedici anni di Odile saranno decisivi, perché quel tentativo di affacciarsi al mondo – che passa per la candidatura al Consiglio ma anche con la faticosa apertura a un piccolo gruppo di compagne e compagni di classe – coinciderà anche con la comparsa di un presagio e con una tragedia che cambierà per sempre il suo tempo “personale”… e forse anche quello delle valli in cui Odile esisterà.

Allora, le regole d’ingaggio e le condizioni di contesto/mondo che vengono apparecchiate per noi in L’altra valle – in libreria per la neonata casa editrice Mercurio con la traduzione di Veronica La Peccerella – sono di estremo fascino, credo. Meccanismo temporale a parte – che è fatto sfizioso senza ombra di dubbio -, c’è l’opacità del potere, l’asimmetria che si crea quando a decidere come una “massa” dovrà vivere sono solo alcune persone che si auto-proclamano migliori, illuminate, più adatte. Ci si chiede dove stia il confine tra bene comune e volontà pura di controllo e che cosa faremmo noi, trovandoci in un posto liminale che almeno in via teorica ci permette di vedere che cosa ne sarà di noi o di correggere quello che ci sembra di aver sbagliato. Per essere un romanzo che usa il tempo come tema centrale e dilemma etico, però, non c’è una gestione brillantissima del ritmo e il punto di vista di Odile non aiuta molto a “muovere” la narrazione. In un certo senso è un aspetto totalmente funzionale a trasmettere una certa idea di inesorabilità e di rassegnazione, di penitenza e di lento macerarsi tra rimorso o occasione sfumata, ma per quanto lo si possa motivare il risultato è a tratti frenato da una certa pesantezza di fondo. Ne riemergiamo con soddisfazione grazie a un buon finale e tanti sono gli interrogativi che ci aiutano a proseguire, ma spesso ci si ritrova a esaminare Odile, le valli e i suoi abitanti come farebbe uno scienziato gigantesco, molto efficiente e scarsamente empatico con un terrario pieno di cavie. E chissà che la natura autentica del paesaggio del romanzo non sia, in fondo, proprio quella…

Angela Izzo, io ti riconosco. Sono di Piacenza e a Napoli non possiamo vantare alcun parente, ma ti sento nelle ossa, ti sento nelle orecchie, capisco cosa dev’essere stato passarti davanti. Detestarti è stato bellissimo, in queste pagine. Forse meritavi di peggio, ma “‘o scrittore du’ cazz'” è figlio tuo e io non ho intenzione di intromettermi. Di te, però, devo ammettere d’aver ammirato l’aperta ostilità e la propensione nulla al commento obliquo, ma andiamo con ordine. Chi diavolo è Angela Izzo? Era la mamma di Antonio Franchini, che qui troviamo trasfigurata in personaggio nefasto e nemesi romanzesca, nel mostro che sta al centro del gorgo di famiglia. Angela risucchia tutto e sembra contaminare anche quello che non tocca, perché vastissima è la disapprovazione che proietta e inesauribili sono i debiti di cui è capace di caricarti.

Di figli e figlie che scrivono delle proprie madri è pieno il mondo, ma è raro imbattersi in un’avversione così schietta,  furibonda e circostanziata. Nel produrre questo ritratto “mediato” di Angela, Antonio Franchini intreccia piani temporali, registri e ricordi, restituendoci un intero sistema di disvalori, oltre che la parabola biografica di un rapporto di sangue. Angela è difficile da intrappolare e impossibile da neutralizzare, perché non tace mai e sgomita per deformare la realtà. Il suo dominio è lo spazio domestico – prima a Napoli e poi a Milano, dove segue due dei suoi figli ormai diventati adultissimi – ma il dove la si piazzi conta poco, perché Angela è impermeabile al mondo, alle opinioni altrui, all’italiano e alla temperanza.

Angela si esprime per sentenze, anatemi, rivendicazioni, dogmi, furori imprevedibili, sceneggiate interminabili, insulti. È vanagloriosa ma poveretta quando le fa comodo, prepotente ma vittima, sprezzante ma dipendente dagli altri, perché può affermarsi solo per opposizione diretta, in una continua rivendicazione di una superiorità farlocca, basata sul disvalore, sul pregiudizio e sul disprezzo. Le sue arringhe sono confuse e la sua invadenza totale: son tutti coglioni (o zoccole) tranne lei, che non si fida di nessuno e che tutti dovrebbero elevare a esempio supremo, anche se crede a intermittenza solo a quello che potrebbe tornarle utile o, per principio, solo al contrario di quello che pensi tu. Lo stato le deve l’accompagnamento, i suoi figli le devono tutto e noi, che possiamo solo limitarci a leggerla, siamo grati a Franchini per aver fatto da parafulmine.

Il fuoco che ti porti dentro – uscito per Marsilio e finalista al Premio Campiello – è un libro tremendo perché Angela è tremenda, ma Franchini riesce a restituirci quella simpatia immotivata che le conoscenze superficiali possono di tanto in tanto suscitare. Tutti gli amici o i colleghi di Milano che per qualche ragione di sono imbattuti in Angela l’hanno trovata folcloristica, insolita, affascinante e “fortissima”, nella sua inarrestabile follia. Il dramma è lì, in questa capacità di metamorfosi del mostro, ma in questo spazio sta anche l’abilità di scriverne donandoci il comico e il paradossale, senza scadere nella macchietta ma concedendole l’onore delle armi, come andrebbe fatto con ogni valente avversario. La storia di Angela è quella di una famiglia intera, di uno scontro eterno tra Nord e Sud, tra ricchi e zappatori, tra pesce “buono” e schifezze del supermercato, tra madri e figli… che scappano per salvarsi e, per fortuna, decidono a volte di raccontarcelo così.

Che rapporto avete con la spiritualità e il misticismo?
La compagnia è essenziale al vostro benessere?
Trovate che gli strumenti tecnologici a nostra disposizione siano, in fin dei conti, solo degli attrezzi o vi sentite in qualche modo modificati dalle possibilità di connessione perpetua del modernissimo mondo che abitiamo?
Cosa v’aspettate di trovare quando andate in albergo?
Cosa v’aspettate dalle vacanze, pure?

Ho deciso d’esordire con un po’ di domande (con implicita ammissione d’ignoranza sul contenuto dei vostri cuori e forse anche del mio) perché il posto in cui ho trascorso un paio di giorni – rispondendo volentieri e con grande curiosità a un cortese invito – è complicato da classificare e potrebbe risultare comunicabile (o “vendibile”, se vogliamo) in molti modi.
Corri qui a fare digital detox! Vieni da noi a ritrovare te stesso! Lasciati conquistare dalla natura incontaminata! Riscopri i grandi insegnamenti della tradizione monastica! Nutri le tue membra con tantissima verdura! Il lusso della lentezza! Il potere trasformativo del silenzio!
Ciascuno di questi “ganci” potrebbe produrre una galassia di cronache più o meno orientate a corroborare un impianto filosofico o una determinata visione dell’universo e a me, in tutta franchezza, non interessa. Sarei più che in grado di vestire il mio racconto optando per una di questa potenziali premesse, ma lo troverei poco onesto e utile, se si tratta di parlare di un luogo così cangiante e insolito. Perché sì, una roba che mi pare d’aver capito è che un posto simile si presta ad essere riempito con le risposte che siamo capaci di trovare. L’esperienza individuale, che già per definizione è estremamente specifica, è quella che qui finisce per espandersi e comprendere tutto quanto, dall’opinione che possiamo farci degli asciugamani a come ci sentiamo quando ripartiamo. L’esperienza “nostra” si dilata così tanto perché diventa quasi l’unica componente dell’esperienza complessiva: si galleggia in uno spazio ingegnerizzato per ridursi al minimo e “abbandonare” benevolmente chi c’è alle proprie risorse. Mia suocera, quando le ho spiegato dove stavo per passare un paio di giorni, ha commentato con un lapidario “io mi sparerei”, mentre mio marito temeva che volessi scappare di casa per unirmi a una setta. Ebbene, non sono incappata in una miracolosa conversione, non mi sono sparata e non mi sento particolarmente più illuminata di prima, ma posso dire di aver prosperato, a modo mio. Tutto questo panegirico per rispondere con un “dipende da te” alla seguente domanda campale: insomma, ma com’è l’Eremito?

Esordirei con una video-panoramica, che ci aiuta a livello atmosferico, e vi lascio leggere il resto di seguito.

 

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Un minimo di coordinate. L’Eremito è un ibrido tra un hotel e un eremo “moderno”. È in Umbria, vicino a Fabbro, e accoglie visitatori da ormai una decina d’anni. Marcello Murzilli, dopo aver gestito un fortunatissimo marchio di abbigliamento negli anni Novanta e aver aperto un hotel matto in Messico composto al 100% da palafitte – fatevi raccontare la storia, se vi capita – si è messo a vagare per il centro Italia alla ricerca di un luogo isolato ma non impensabile da raggiungere per sperimentare un’idea di ospitalità alternativa. Ha trovato dei ruderi in mezzo alle colline – e a una tenuta che ora è tutelata dall’Unesco – e ha costruito quello che oggi è l’Eremito, badando all’efficienza/autonomia energetica della struttura – sforzi recentemente premiati dall’ambito bollino B-Corp – e ricalcando il modello dei monasteri e degli eremi che fanno indissolubilmente parte del patrimonio cultural-architettonico umbro.
Nella pratica? Funziona così.

Si dorme nelle celluzze e ogni celluzza prende il nome da un santo. Io dormivo da San Benedetto, quindi mi son sentita importantissima. Minimalismo? Parecchio. Un letto a una piazza e mezza, uno scrittoio  col suo sedilino di pietra davanti alla finestra, il lavandino – con brocchetta e bicchiere per bere l’acqua del rubinetto – e un piccolo bagno con la doccia. Stop.

Il fatto che il telefono prenda molto poco fa parte del pacchetto e non c’è nessuna password del wi-fi da chiedere in reception. Chi arriva è invitato a spogliarsi dall’abitudine alla connessione perpetua, così come è scoraggiata la caciara negli spazi comuni. Nessuno vi molla un manrovescio o vi sgrida, se andate in giro col telefono o se vi ritirate sotto la pergola per chiamare i vostri figli, ma tanti degli automatismi che finiamo per sviluppare quando c’è segnale finiscono per atrofizzarsi in maniera piuttosto naturale, quando il segnale non c’è quasi da nessuna parte. Cosa le apri a fare le tue solite 35 app se le app non caricano niente di nuovo? È probabilissimo che tanti visitatori o visitatrici dell’Eremito scelgano di approdarci proprio per esigenze di “disintossicazione” digitale e, tra le contingenze pratiche e l’atmosfera complessiva, il contesto può certamente aiutare. Io, che facevo fotografie anche nell’epoca precedente all’avvento di Internet e che ho la consolidata abitudine di costruire un archivio visivo delle mie esperienze – postandone online uno scarso 2%, nonostante uno dei mestieri che svolgo – ho usato il telefono come un puro attrezzo. Fai le foto e i video, telefono? Benissimo, continua ad assistermi in questo modo, sarà più che sufficiente.

Mi son data della stupida per la pigrizia accumulata negli anni, però, perché mi sarei sentita molto più a mio agio e più rispondente alle usanze codificate della comunità dell’Eremito con una macchina fotografica in mano, ma pazienza. Per me attrezzo puro è stato e l’obiettivo di scacciare per un paio di giorni i tarli da feed da alimentare, contenuti da produrre, spunti da sfornare e brief da interpretare è stato felicemente raggiunto. Mi sono chiesta, però, quanto ignorare gli eventi del mondo per badare unicamente alla propria interiorità possa configurarsi come condizione totalmente auspicabile. Ma non tanto perché quello che produco io abbia il potere di virare le sorti del mondo, ma proprio perché associo l’informazione – quello che già filtro e che per me “conta”, facendo del mio meglio per separarla dal rumore di fondo irrilevante – alla possibilità di aumentare la mia consapevolezza. L’universo può fare a meno del mio flusso in uscita, insomma, ma estromettersi da quegli stimoli in entrata che possono attenuare la nostra ignoranza mi pare un lusso che anche sul breve termine è un po’ problematico concedersi. Già ci si sente inermi – o poco utili e  poco capaci di incidere sulla realtà -, non lo si diventa ancora di più se non si sa che succede e non si prova a decifrarlo? Non sono una creatura che gestisce con disinvoltura gli estremi, forse. O probabilmente mi son sentita in colpa per aver dormito fino alle dieci e mezza in un giorno infrasettimanale, per aver preso ferie, per aver avuto bisogno di riposarmi, chi può dirlo. O forse la radice del logoramento che percepisco nella quotidianità dipende meno dai flussi informativi ma più dal flusso delle incombenze “pratiche” dell’impalcatura domestica e dalla volgarissima necessità di dedicarmi a un impiego, anche. Ci penserò su, che le parentesi di distacco dal tran tran servono anche a quello.

Come si mangia? Bene. E anche parecchio, devo dire – tre portate e dolce. Cucina solo vegetariana, con materie prime ricavate dall’orto dell’Eremito o provenienti dai dintorni. Si mangia tutti insieme nel refettorio – e ci torniamo – o all’aperto sotto al pergolato. Come recita anche una funzionale lavagnetta, si mangia “quello che passa il convento”. Non c’è niente da scegliere, vi sedete e vi pigliate quello che arriva e non c’è nessuno che vi prepara un gin tonic, se ne sentite la necessità. A pranzo si discorre e l’atmosfera è convivialissima, mentre a cena bisogna rispettare il silenzio. Vi suonano una campanella, v’andate a prendere il vostro tovagliolo e vi sedete nel refettorio a lume di candela. Ecco, la cena è l’unico frangente in cui possono richiamarvi con affabile fermezza se vi mettete a chiacchierare e non ho nemmeno osato tirare fuori un libro – non si può, tecnicamente -, ma è di certo un’esperienza suggestiva. Sì, il vino c’è.

Che si può fare? Niente, tenderei a rivelarvi candidamente. E per fortuna.
A parte una sessione di yoga la mattina e dei momenti di lettura – totalmente facoltativi ed estremamente trasversali –  in una piccola cappella non ci sono animatori che vi iscrivono d’ufficio alla gara di canoa e non ci sono attività “organizzate”. Volete passeggiare? Dall’Eremito si snodano numerosi sentieri che possono condurvi in selve amene – io sono arrivata con successo al fiume, ascoltando i cinguettii più disparati -, nel vicino borgo di Parrano o ai ruderi che punteggiano la tenuta. Volete stare immobili? Sceglietevi un cantuccio e insediatevi dove preferite. Io, passeggiata a parte, ho letto, ho studiato, ho dormito, ho mangiato. E sono rimasta anche a mollo nel vascone riscaldato della piccola spa. C’è un bagno turco e c’è questa sorta di stanza di pietra col soffitto a volta e la vasca. Si va in reception a “prenotare” il proprio tempo alla spa, così non si incrocia mai nessuno e si fluttua in pace.

Che cos’ho trovato? L’illuminazione no, ma un momento di solitudine che mi ha fatto bene. Uno spicchio di tempo in cui dar retta solo al mio ritmo e una bolla di silenzio – a parte i caprioli che abbaiano nel bosco, ciao bestioline! – in cui spero di non aver russato troppo forte. L’Eremito ha indubbiamente qualcosa di speciale, penso. Possiamo attribuire meriti al panorama, alla ritualità accennata dei momenti comunitari, alla tipologia decisamente insolita della sistemazione, al fuoco la sera, alle storie che possono raccontarti gli altri, allo spazio che ti crea attorno mentre vai a zonzo – sentendoti più ospite della natura circostante che di una struttura ricettiva. Ci si mimetizza e si assorbe il ritmo caparbio di quello che cresce, molto adagio, da tutte le parti. Ogni “vacanza” ci decontestualizza e ci mette nelle condizioni di scoprire qualcosa di noi mentre esploriamo un qualche altrove, penso. Qua, l’altrove da esplorare sta più dentro che fuori da noi. E non è male, qua e là, imparare di nuovo a farsi compagnia.  

 

Filippo II di Spagna non se la passa benissimo e ancora peggiori sono le prospettive del suo segretario particolare, Antonio Pérez, scacciato dal servizio attivo e prontissimo a tramare per rientrare nelle grazie del re. L’implacabile catena alimentare che governa la nobiltà di Madrid, nel frattempo, non contribuisce di certo a rasserenare il clima e, su tutti, sembra imperversare incontrastata l’Inquisizione. Chi può dirsi al sicuro? Nemmeno l’ultima delle sguattere, ci racconterà Leigh Bardugo in questo romanzo storico-fantastico – in libreria per Mondadori con la traduzione di Roberta Verde che sta perfettamente in piedi senza prometterci seguiti, prequel o spin-off.

Luzia è a servizio in una casa piuttosto scalcagnata, per gli standard di sfarzo della nobiltà “vera”. La sua padrona è una donna incattivita da un matrimonio senza amore e dalle scarsissime speranze di ascesa sociale. Mentre gli inviti a cena si fanno sempre più sporadici e le carrozze altrui continuano a sfilarle sotto al naso, donna Valentina scopre un tesoro in cucina: Luzia è una milagrera. Sporca, all’apparenza ignorante come una ciabatta, goffa e manco troppo avvenente, la serva ha il dono della magia e potrebbe trasformarsi nello strumento perfetto per dare finalmente il via a quell’ascesa impensabile che Valentina tanto brama. I prodigi di Luzia sono estremamente “pratici” e le hanno permesso di tirare avanti fino a quel momento senza soccombere alla fatica estrema della vita a servizio – l’unica “opportunità” concessa a una bambina dalla discendenza problematica.

L’Inquisizione non vede di certo di buon occhio l’eresia, il peccato e la fornicazione ma da temere sono anche i giudei “convertiti” – hanno davvero abbracciato la grazia del battesimo o si sono adeguati per puro opportunismo, nella speranza di rovesciarci? La magia di Luzia viene dalla lunga eredità della sua storia familiare e tenerla nascosta è una questione di sopravvivenza. Ma potrebbe diventare un’arma efficace per compiacere il re e il Dio degli inquisitori? Valentina lo spera, Pérez ne ha disperatamente bisogno e Victor de Paredes – l’uomo più ricco e fortunato di Madrid – non vuole lasciarsi sfuggire l’occasione. Si offrirà di “sponsorizzare” Luzia nella competizione magica organizzata da Pérez per consegnare al re il santo paladino (o la santa paladina) che potrebbe risollevare le sorti della Spagna. Luzia collaborerà? Sarà all’altezza? Verrà smascherata dall’Inquisizione? Perché a Victor de Paredes fila tutto così liscio? Chi è lo spilungone spettrale che lo accompagna ovunque?

Bardugo si dimostra ancora una volta abilissima nella gestione di una coralità di intrighi, macchinazioni e destini. Gli elementi magici si incastrano in maniera molto fluida con i numerosi altri pezzi di contesto storico, religioso e “politico”, senza svuotare i personaggi di motivazioni individuali credibili. C’è molta carne al fuoco, ma l’economia interna della narrazione è quasi sempre ben gestita e Luzia è un personaggio per cui tifare con poche riserve. È una storia che parla di potere – declinato nelle sue innumerevoli anime: il potere magico è quello più “appariscente”, ma è l’ambizione che lega davvero ogni impresa e modifica irrimediabilmente le anime di cui si impadronisce. Luzia cerca riscatto, indipendenza, libertà, un amore che può far somigliare di più la sua vita a quella di un essere umano, senza padroni e senza paura. Il potere non è mai neutro o innocuo: perché lo si possa esercitare deve esistere qualcuno da controllare, qualcuno che perde qualcosa per permettere a noi di farci arbitri del suo destino, di amministrare anche quello che non ci appartiene. Che lo si faccia in nome della fede, di un regno o dell’avidità non lo rende meno iniquo. E per rompere le catene, certe volte, ci vuole un miracolo…

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie con la traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

I “libri-esperimento” mi piacciono quasi sempre. Che sono? Sono quei libri che raccontano un’impresa individuale e che, nel delinearne una sorta di cronaca o di diario di bordo, esplorano anche un tema specifico e cercano di documentare un percorso di trasformazione. L’esperimento che Pietro Minto si infligge in La seconda prova – in libreria per le Frontiere Einaudi – riguarda la matematica: da pessimo studente dello scientifico che è stato, Minto si mette in testa di imparare da capo e “da grande” la matematica delle superiori. Vuole scoprire che cos’è andato storto, vuole capire se ne sarà capace, vuole vendicarsi, cerca una rivincita o anche solo una risposta. Cos’è che non digerivo? Perché ho sempre fatto così fatica? Il mio cervello riuscirà finalmente a far pace con gli integrali?

Io e Minto abbiamo in comune la scelta scriteriata del liceo da frequentare. Era chiarissimo che le mie attitudini puntassero altrove e già dalle medie la matematica era la mia materia più debole, ma eccoci qua iscritte a una bella sperimentazione Brocca.
Vai, Francesca, vedrai che ti fortifica.
Mi son diplomata con 95 perché prendevo dei 6 risicati nelle materie d’indirizzo – con tanto di ripetizioni da due professoresse gemelle che insegnavano entrambe matematica e avevano sempre la casa piena di derelitti tipo me – ma andavo così bene in tutte le altre che in qualche modo ce la siamo cavata. In prima ho beccato il debito, in seconda no perché il professor Torre è andato in pensione e credo non avesse più voglia di pensare a noi. Dalla terza in poi son stata a galla riuscendo a padroneggiare il TEMA X esattamente un mese e mezzo dopo la verifica sul TEMA X. Insomma, non capivo col giusto tempismo e non ho mai capito niente, ma prima o poi riuscivo almeno a simulare una vaga padronanza dell’argomento: non so cosa sto facendo ma c’è della roba che posso imparare a memoria e piuttosto crepo ma è a quello che devo aggrapparmi. “Ma quindi… con voi è così? Scusatemi, non ci ho mai voluto credere” è stato a grande linee quel che ha detto la mia professoressa di italiano ai suoi colleghi delle materie d’indirizzo alla fine dell’orale della maturità. Io alla seconda prova ho preso un miracoloso 11/15, perché ho disegnato una funzione mostruosa ma immagino di aver avuto miglior fortuna coi problemi. E non ho pianto perché era già tutto totalmente irreparabile, cosa piangiamo a fare.

Insomma, questo sconclusionato amarcord serviva a esprimere la mia profonda vicinanza nei confronti di Pietro Minto. Io so chi sei, Pietro. Il tuo disorientamento è anche mio. Invece di farsi diagnosticare una sindrome discalculica – giuro, ci ho pensato, perché troverei conforto in una spiegazione clinica -, Minto ha deciso di riprovarci e si è messo a ristudiare da capo TUTTA la matematica della scuola. Pazzo? Masochista? Eroe? Chissà. E io, che con Ruffini al massimo mi sono scomposta la voglia di stare al mondo, ho letto con sincera partecipazione questa avventura assurda. Con una certa dose di tifo, addirittura. Mentirei se vi dicessi di aver capito delle cose che mi sono sfuggite in gioventù – mi dispiace, Pietro, tu sei stato molto chiaro nell’illustrare i concetti ma temo che il mio problema sia troppo profondo – ma ho apprezzato la componente “personale” e anche le incursioni storico-divulgative. Scorgere della passione, uno slancio risolutivo, il tentativo autentico di sconfiggere un demone antico è stato corroborante. Sono felice per Pietro Minto perché forse ha fatto – a scoppio ritardato – quello che mi è sempre stato rimproverato di non saper fare: metterci costanza, impegno, convinzione. Mai mi son sentita poco convinta come quando una ventina d’anni fa, alla lavagna, ho annunciato SCOMPONGO CON RUFFINI O ALMENO SPERO, ma che Minto lo sappia fare mi riempie di gioia. Io sto bene così. E spero che i miei bambini non mi chiedano mai di aiutarli coi compiti di matematica.

Dunque, ci sono delle signore di un sobborgo-bene di Charleston che bidonano un bookclub pretenzioso per fondarne uno “specializzato” lì per lì in true-crime, delitti efferati, cronaca nera e grandi misteri americani. Sono amiche, hanno tutte una manciata di figli a testa, dei mariti che lavorano mentre loro badano al tran tran domestico e delle casone col pratino da curare. Sono immerse in un contesto di “vicinato” a metà tra l’invadenza e l’estrema premura: qui ci vive solo gente come si deve, siamo una grande famiglia, la nostra comunità è genuina e virtuosa. Siamo negli anni ‘90 e Patricia Campbell è afflitta – come le sue amiche – da tutte le migliori intenzioni della Brava Moglie del Sud. Ma cosa succede quando in una comunità così affiatata e unita appare un elemento di rottura – e di potenziale stravolgimento?

Il “corpo estraneo”, per le nostre affiatate lettrici, è un nuovo vicino che arriva nel quartiere per prendersi cura – a suo dire – dell’anziana zia. Sembra un tizio a posto, ma non lo si vede mai in giro di giorno, guida un furgonaccio, pare sprovvisto di documenti, risponde con cordiale evasività (e palesi contraddizioni) a ogni domanda personale e resta sullo zerbino finché non lo si invita esplicitamente a entrare in casa. La suocera invalida di Patricia perde la brocca appena lo vede e sostiene a gran voce di averlo già incontrato da bambina: questo qui è il tizio che ha distrutto le nostre famiglie! Patricia non sa bene cosa pensare: Miss Mary è senza dubbio più di là che di qua, ma tanti altri piccoli incidenti cominciano a verificarsi attorno a James Harris… e forse vale la pena indagare.

Mentre Patricia si esercita a demolire le barriere del suo razionalissimo mondo per confrontarsi con qualcosa che sfida il senso condiviso della realtà, James Harris si guadagna la fiducia di mariti, figli e figlie, semplici passanti, ratti. Nel quartiere afroamericano cominciano a sparire dei bambini, ma nessuno – a parte Patricia e la badante di Miss Mary, che viene da lì – pare scomporsi. I nostri figli stanno bene, no? I ragazzini neri si mettono sempre nei guai, che sarà mai.
In un’alternanza di ipocrisie terrificanti – ma molto rivelatorie -, gaslighting sistematico, problemi strutturali di attendibilità – dovremmo forse dar retta a una casalinga suggestionata dal true-crime? Dove andremo a finire! -, uomini coglioni e foschi presagi, Grady Hendrix apparecchia una storia corale che batte un po’ sempre sugli stessi tasti ma che riesce a intrattenerci bene, insinuando il tarlo del sovrannaturale nella vita placida (e urbanamente meschina) del quartiere.

Peccato per James Harris – che dice poco e credo sia anche l’ipotetico mostro più noioso che mi sia capitato d’incontrare – ma un pollice su per l’abile stratificazione delle inquietudini e del senso di minaccia latente. L’indagine di Patricia non è degna della CIA, ma la dinamica dei personaggi fa il suo dovere e il fatto che le opinioni delle donne vengano sempre trattate con estrema condiscendenza e paternalismo fa arrabbiare, ma è anche il succo della questione.
Sì, qua e là c’è roba schifosa, macabra e splatter. Ma anche pulire la cameretta di un adolescente credo lo sia.

Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe è uscito per Mondadori nella traduzione di Rosa Prencipe, ma si può ascoltare anche su Storytel – come ho fatto io. Per collaudare Storytel con un bel mese gratuito, qua c’è il solito link.
Se volete approfondire le imprese di Hendrix, di suo ho letto anche Horrorstör, una roba mattissima e dal taglio OH CHE PAURA ancor più calcato. Che succede? Tutta la vicenda è ambientata in un megastore di arredamento che molto ricorda un arcinoto colosso svedese. È una via di mezzo tra un’escape-room e una discesa agli inferi ma, in maniera ancor più spiccata, è una riflessione sul consumo, sul capitalismo e sul lavoro come forma di dannazione eterna. Fa ridere, mette angoscia, è una chicca di astuta stranezza.

Lo squash è il vostro sport preferito? Ottimo.
Mai v’è interessato? Nessun problema.
Lo squash, in questo romanzo d’esordio, è una sorta di laboratorio emotivo e il campo – con le righe che tracciano la grande “T” del titolo – è il posto in cui si va quando le parole non bastano più. È buffo che per guarire dal vuoto lasciato da un lutto i personaggi superstiti di questa storia – un padre e le sue tre figlie – scelgano di gettarsi a capofitto in uno sport intrisecamente solitario, come parecchi di quelli che si fanno con una racchetta in mano, ma ci si arrangia con quel che c’è e con quello che si conosce. E si provano a rievocare atmosfere felici (o a stancarsi molto) mentre si aspetta che i fantasmi che amiamo ci mandino un segno.

Gopi e le sue sorelle hanno perso la mamma e si ritrovano per allenarsi, un giorno dopo l’altro, sotto l’occhio spento del padre su un campetto alla periferia di Londra. Farle giocare è l’unica cosa che sembra aiutarlo a tenersi a galla e loro lo assecondano, insieme e solissime, colpendo palle a ripetizione nella speranza di ritrovare il ritmo della normalità… o di lasciarsi ipnotizzare. C’è molto di meccanico, negli sport che si fanno con la racchetta, ma esiste uno specifico stato di felice straniamento che si innesca quando ti abbandoni all’automatismo. Si diventa fluidi, si diventa leggeri, ci si dimentica di sé, si fa tutto il giro e forse ci si ritrova.

La voce narrante di T di Chetna Maroo – splendidamente tradotto da Gioia Guerzoni per Adelphi – è proprio quella di Gopi, la più piccola e anche la più brava e promettente in campo. È una voce bizzarra, per una bambina di undici anni. Seria, profondissima, lapidaria. Gopi è una di quelle persone con cui è facile condividere un silenzio, perché chi ha pochi punti di riferimento tende ad ascoltare molto e a cercare indizi. Non che suo padre le offra molti appigli, a parte il salvagente – e l’ossessione – per lo sport. A squash, lì a Londra, sembra giocarci solo chi arriva dal Pakistan o dall’India, come loro. A tener vive le radici c’era la mamma – anche se le tre sorelle non parlavano bene il suo gujarati – e vuole riprovarci la zia, che le vede selvatiche e sperse, lontane dalla comunità e anche da lei, che vive a Edimburgo. Quanto allenamento occorre per crescere quando ti manca un pezzo? Quanta stanchezza serve accumulare per dimenticare? Chi ci aspetterà, quando resteremo indietro?

Bonus track: una chiacchiera di approfondimento – e di rara piacevolezza – con Nadeesha Uyangoda.

 

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Invidia è uscito a puntate sul quotidiano Tan nel 1937 e questa traduzione di Nicola Verderame per Crocetti è la prima a far capolino fuori dai confini della Turchia, dove Nahid Sirri Örik è al centro di una sorta di riscoperta collettiva dopo decenni di oblio. Cosa ne so io della produzione letteraria turca a cavallo tra la disgregazione dell’ordine imperiale Ottomano e l’insediamento della repubblica? Zero, ma da qualche parte è possibile cominciare, quindi perché non tentare con questo concentrato di cattiveria, passioni nefaste, scappatelle sciagurate, matrimoni mal architettati e città minerarie provincialotte che vogliono fingersi bel mondo? Alé.

Una buona domanda per cominciare è la seguente: che cos’è l’invidia? Quali conseguenze può produrre? Per quanto possiamo “coltivarla” prima che ci divori dall’interno? Örik architetta per la protagonista di questa storia delle pessime condizioni strutturali: è brutta – e ci viene ribadito brutalmente ogni tre righe proprio in quel modo lì: “è brutta” -, non è più giovane – secondo gli standard del tempo, almeno -, non ha un marito e dipende di fatto dal fratello, che è avviato a una buona carriera nel nuovo e fiorente settore estrattivo.
Ma poteva andare diversamente?
Secondo Seniha sì. Perché bella non è mai stata, ma c’è stato un tempo in cui avrebbe potuto studiare e prendere sul serio le proposte di potenziali pretendenti, ma in una famiglia in cui le risorse non sono più floride come prima – l’era dei Pascià è letteralmente e metaforicamente finita – si sceglie di investire sul figlio maschio di casa e non di sicuro su una femmina, che di prezioso ha solo la sua virtù. Halit studia e viaggia, insomma, mentre Seniha resta ferma ai blocchi di partenza, vedendosi portare via risorse che pensa le spettino e covando nel cuore un rancore devastante.

Quando Halit torna a casa con una moglie vispa e bella – a coronamento di una posizione sociale che si fa sempre più significativa -, a Seniha si chiude definitivamente la vena. Tu, che prosperi grazie a tutto quello che mi è stato tolto. Tu, che mi ignori e manco mi degni di uno sguardo, quando a ogni passo dovresti ringraziarmi perché è me che hanno sacrificato per darti tutte le possibilità che hai avuto. Tu, che hai deciso che dovrò farti di fatto da governante a vita invece di impegnarti a trovarmi un buon partito e una casa mia da gestire come avevi promesso di fare.
E via così.
Ma le recriminazioni di Seniha non si limitano a restare nello spazio astratto delle idee: a trasformare “la fanciulla sfiorita” – CHE CI TENGO A RICORDARVI SEMPRE E ANCHE QUA CHE È MOLTO BRUTTA, inciso mio – nell’antieroina totale di questo romanzo è la transizione dall’interiorità alla pratica. Seniha si fa artefice di un sabotaggio deliberato, di una lunga e meticolosa opera di manipolazione ai danni dell’anello più malleable della catena, quella giovanissima e splendida moglie che nessuna passione vera ha conosciuto e che ha sposato Halit per uscire dall’indigenza – l’ennesima tragedia “femminile” che Örik ci dona. Seniha trasforma Mükerrem in un’arma per danneggiare il fratello, anche a costo di non guadagnarci più niente – anzi, ben sapendo quanto poco le convenga turbare lo status quo.

L’aspetto più epico e terrificante dell’impresa di Seniha è proprio la natura intrinsecamente autolesionistica del suo progetto: l’invidia che la muove non è un sentimento che produrrà dei vantaggi per lei o che prevede almeno una soddisfazione personale. Non c’è rivincita, non c’è compensazione possibile. Quel che è perso è perso, ma quel che posso farti perdere io non mi restituirà niente e non renderà radioso il mio avvenire. Ma lo faccio lo stesso, perché demolirti è l’unico potere che mi hai lasciato, avendo escluso a priori di poter partecipare di buon grado alla tua prosperità. Scelgo di farti del male e spero di fartene il più possibile, perché è l’unico tizzone “vivo” che mi resta.

Insomma, se vi intrigano i territori storico-letterari fuori dai radar consueti e se siete in cerca di un libro fatto di interiorità tumultuose e gente sgradevolissima ma assai interessante nel suo nero spirito, Örik può essere un recupero curioso – per quanto amaro e fosco – da fare.

Dunque, di Ilaria Bernardini avevo letto con trasporto Faremo foresta e torno a frequentarla con Il dolore non esiste – uscito per Mondadori -, una storia incasellabile nel filone degli scrittori e delle scrittrici che terrorizzano la propria famiglia parlandone nei loro libri. Nel caso di Bernardini, però, scrivere del padre è un esperimento di “contatto”, di recupero del ruolo di figlia all’interno di una relazione che si è rotta, forse senza rimedio.
“Mio padre non mi parla”, dichiara all’istante Bernardini – e non lo fa da tanti anni. Però un padre che le parlava, che manifestava la sua presenza (per quanto scostante, diluita o regolata da confini precisi) nella vita della famiglia è esistito, fino a un certo punto.
Che è successo? Perché parla a tutti e a lei no? Perché si è tenuto alla larga anche dagli eventi più enormi dell’esistenza “adulta” di sua figlia? Perché non c’è più un posto per lei?
Per spiegarsi quello che mai le è stato spiegato, Bernardini cerca di ricostruire la vita di un padre che resta ingombrante, magnetico e fondamentale pur non partecipando mai allo scorrere di un presente che si fa sempre più lungo, dilatato e incomprensibile. Tu non mi vuoi parlare? Perfetto, parlerò io anche per te. È un modo come un altro per tenerti con me.

L’ombra del padre si intreccia a un presente di sceneggiature da consegnare, di bambini che smettono di avere un bisogno completo di noi, di isole, di isolamenti forzati e di pugni tirati. La boxe è un collante imprevedibile – per quanto in differita – tra padre e figlia. Bernardini si allena in vista di un match che dovrebbe finalmente ricomporre la frattura, ma anche per combattere bisogna essere in due… e non è detto che ci si voglia far male per davvero, quando già basta la lontananza ad allenarci al dolore. Negarlo rende più forti? Quanto possiamo incassare? Come si tira avanti quando abbiamo l’impressione di essere diventate superflue – per chi ci ha cresciute come per chi stiamo provando a crescere?

È una storia difficile da classificare. Avvolge pur parlando di distacco e penso sia anche un buon esempio di cosa significhi scrivere per colmare vuoti, neutralizzare assenze o confrontarci con quello che non capiamo. Non sempre si arriva a una risposta lineare. Per sentirci “presenti” bisogna registrare le scosse del quotidiano, osservarci mentre capita dell’altro, costruire una specie di sistema orbitale che tiene insieme piani diversi che funzionano tutti insieme – e seguono spesso moti irregolari. 

[Volete farvelo leggere da una portentosa Sabrina Impacciatore? Trovate l’audiolibro su Storytel. Non avete ancora collaudato Storytel? Ecco qua il “nostro” periodo di prova gratuito esteso.]