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tegamini

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Non si capisce bene perché, ma l’unicorno è la bestia fantastica più cara alle culture di ogni tempo. Con la pioggia e col sole, dalle pianure falcidiate da Gengis Khan fino alle profumate corti rinascimentali, il mito dell’unicorno prospera, galoppa allegramente e s’ingarbuglia, alimentando strani commerci, imperversando nell’arte e arrivando persino a convertire un signore serio e precedentemente incredulo come Leibniz.

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Dando prova di tantissima incoscienza, SettePerUno continua ad ospitare con sconfinata grazia la mia rubrica mensile sulle creature fantastiche. Dopo Sleipnir – il fiero cavallo a otto zampe di Odino – e l’innocua Chimera – ingiustamente macellata da uno sbruffone volante -, la terza puntata svela le meraviglie dell’unicorno, bello bello in modo assurdo e pieno zeppo di proprietà medicinali. Per leggere tutto quanto, vi conviene dirigervi su Spezzatino d’unicorno, che qua devo cimentarmi in un insperato spin-off.

Allora, dopo aver messo insieme tutta la Miticheria – e PERDIANA, vorrei aggiungere -, @stefi_idlab mi ha segnalato l’esistenza di un testo fondamentale, ripescato dalle polverose profondità della British Library. L’inestimabile tomo, cercato per anni dal professor Brian Trump del British Medieval Cookbook Project, è il libro di ricette di Geoffrey Fule, cuoco della regina Philippa alla metà del quattordicesimo secolo. Con grande diletto per tutti noi, il buon Fule non si occupava solo di arrostire montoni e di lessare tuberi, ma proponeva estrosi manicaretti a base di animali fantastici, da marinare nell’aglio e cuocere allegramente sulla graticola, così come dimostrano le illuminanti miniature a margine del manoscritto.

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Barbecue d’unicorno


La robaccia inutile, tipo corni da collezione, zoccoli veloci e codine setose vanno a finire nel cestone della spazzatura. Mica si mangiano.

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Grazie a Fule ora sappiamo che è possibile. Sappiamo che il sogno dell’unicorno tonnato o della cotoletta d’unicorno è ormai dietro l’angolo. Perchè siamo gente raffinata, e la roba in scatola inizia anche un po’ a stancarci. In alto gli spiedi!

 

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L’articolo della British Library, in caso non vi accontentaste di magici destrieri e vi andasse di assaggiare un bell’istrice paffuto.

 

 

Non saprò far fare i salti ai sassi sul pelo dell’acqua, ma sono bravissima ad andare in giro.
C’è della gente che torna da qualsiasi tipo di esperienza gitesca con bagagli pieni di traumi, polemiche, recriminazioni e rimpianti… ma io no, zampetto felice mangiando ghiaccioli fotonici e mi guardo ben bene dal lamentarmi, anche se non mi porto mai i vestiti che davvero servirebbero e le giornate finiscono nel disagio della cecità, con le lenti a contatto croccanti e piene di polvere.
Ma chi se ne importa, vagare è un talento, c’è da essere capaci e ci vuole tutta un’indole.
Visto però che vantarsi a vanvera è poco elegante, vi delizierò con roba di lago ed edificanti prove fotografiche. Anche perchè va di moda guardare le figure, in questo periodo.

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Questo è l’asino Ugo. L’asino Ugo è dipendente dalle carotine e vive in un recinto un po’ in salita con un altro asino – dal nome fru–fru e impossibile da memorizzare – e un’asina gravida, larga come lo stato del Maine. Ugo è molto ospitale, anche se frequentemente frainteso: se decidete di avvicinarvi al suo recinto, Ugo vi darà il benvenuto con cinque minuti di rantoli e ragliate. Una cosa strana a vedersi, oltre che spiacevole per le orecchie. Perchè noi non ci si pensa, ma l’asino ci mette l’anima quando deve ragliare. C’è tutta un fase di riscaldamento, respiri profondi e nitriti casuali, prima che arrivi il celeberrimo I-OOOH-I-OOOH. Sarà sempre utile, dunque, avvicinarsi al recinto di Ugo in compagnia del coraggioso Amore del Cuore, perchè un’asino che raglia fa paura. E di sicuro non si capisce se stia ragliando perchè è contento o perchè si prepara a sferrare un combo-attacco calcio in faccia/morsi alle mani.

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Può capitare che animali che vivono in recinti limitrofi decidano di farsi fotografare nella medesima posa da teenager. Nel caso della capretta, l’adolescente è anche vicino al satanismo amatoriale.

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Perchè i turbo-ciliegi d’incredibile beltà non ci sono solo in Giappone. E quella montagna là dietro, che non so come si chiama ma è comunque illuminata benissimo dalla luce tramontina, non sarà il monte Fuji, ma fa comunque la sua figura.
Come variante del ciliegio sbruffone abbiamo anche il ciliegio sbruffone con piccola luna. E siamo subito tutti fotografi.

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Amici. Stimati lettori. Compagni di mille battaglie. Questo qua seduto è Amore del Cuore. Per cortesia, che qualcuno si commuova.

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Idee bizzarre, inopportune ed esteticamente orribili che ti vengono prima di dormire.

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L’applique di vimini è la nuova frontiera del design. Hai un’orrenda lampada a risparmio energetico – quelle che fanno davvero luce solo dopo trenta minuti e comunque emanano quello sgradevole bagliore freddo, da neon di macelleria di periferia – e vuoi renderla più amichevole e temperata senza ricorrere ad ingenti investimenti? Schiaffaci su un cestino di vimini, l’interior-design ti sorriderà!

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“Ciao, sono una persona su un cioppo di legno”.

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“Ciao, sono una persona incredibilmente allegra che fluttua via dalla limitante staticità dell’imbronciato cioppo di legno”.
E sì, le mie scarpe son fatte di filettini di salmone.

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Questo posto bucolicissimo e stipato di incredibili cibarie è la trattoria Robustello. Ci si arriva solo dopo dialoghi viabilistici di questo tenore:

TOMMASO: Buongiorno signore! Senta, l’agriturismo Robustello… è qua vicino?
ANZIANO SU SEGGIOLA DI PAGLIA: Sì.
TOMMASO: Ma… da che parte?
ANZIANO SU SEGGIOLA DI PAGLIA:  Su di là, poi a destra. Dovete guadare il torrente.
TOMMASO: …con la macchina?!

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Non si capisce niente, ma sono tortelli di castagne con sugo funghettoso, sommersi di formaggio grattato e copiose erbette sconosciute.

Questi altri cosi qua sono crostini e verdure grigliate con mirabili bocconcini di cervo. I bocconcini di cervo sono pezzi di cervo avvolti in un qualche tipo di salume obeso e croccante.

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E basta, mi sono divertita tanto.
Che c’è, è un post casuale… non ci sarà nessun tipo di sconvolgente rivelazione conclusiva. Asini, capre, fiorellini e lampade a cestino, che vi aspettavate?

Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa. Di alcune caratteristiche fondamentali di questa casa si dirà più avanti. Il male dev’essere intollerabile, porti o non porti al suicidio; dove l’intollerabilità, si badi, dev’essere destinata a non scemare per scorrer di tempo ma, al contrario, a vieppiù incrudelire: e prima, e dopo il decesso.

Michele Mari
Fantasmagonia
Einaudi (Supercoralli)

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Un fantasma non succede per caso. Per fare un fantasma devono incastrarsi diciannove circostanze sciagurate, faccende che hanno a che fare con un posto – molto piccolo e spesso percorso dagli avanti e indietro di qualcuno che sia profondamente intento a rimuginare l’odio antico di un torto intollerabile – e con un “irrimarginabile squarcio” del cuore. Tra i due opposti estremi – l’essere vivo e l’essere uno spettro che infesta una casa – c’è tutta una storia di respiro, molecole che si fondono, polvere che si accumula e rancore che non si dimentica. Si chiama fantasmasi, o fantasmagonia… a Mari piacciono tutti e due i termini, ma io preferisco fantasmagonia, fa più teatro, con le botole che si spalancano in mezzo al palcoscenico. In questo libro bellissimo si aggira di tutto: c’è il mostro dei fratelli Grimm – che abita nel sotterraneo e racconta favole per loro -, ci sono dinamiche familiari distrutte dai tortelli, c’è Lord Shelley – pieno di bulloni e cuciture – e ci sono principesse impazzite a causa di rape che si rifiutano di vivere e sanguinare. C’è una creatura strana e sinistra per ogni ossessione creativa, c’è una storia per ogni angolo buio in cui ci siamo mai seduti. Perchè c’è chi si rannicchia in angolini morbidi e riparati e chi, invece, trova il suo angolino già occupato da qualcosa di vecchio e paziente, con molti occhi e molti artigli.

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Per ulteriori e avvincenti carinerie, c’è il Fantasmagonia-board che sto aggeggiando su Pinterest

 

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Non ho fatto un beatissimo niente per meritarmelo, ma ho ricevuto un regalo bello. Ma che dico, bello E istruttivo, utile e vorticosamente interessante. Perchè ci sono persone che si invasano con la collezione dei Carletto dei Sofficini e ci sono persone che sono felici da matti quando scoprono che, nell’arte, la lucertola è simbolo di resurrezione e rinascita, ma solo quando è da sola. Perchè se si dipinge una lucertola insieme ad altre bestie, tipo insetti, mosche e libellule, allora assume un’accezione negativa e maligna. E’ anche molto bello sapere che la bacca di ginepro, protetta com’è dalle sue foglie spinose, simboleggia la castità… ma è importante ricordare che i rami del ginepro riescono anche a far stramazzare di sonno un drago, così come fece Medea con il temibile mostro che custodiva il vello d’oro.
Che diamine, e ho solo aperto tre pagine a caso.
Ne giro un’altra, che sicuramente trovo qualche cosa d’inaudito.
Eccola: “Il centauro Folo era il custode del vaso misterico (l’otre di vino), simbolo di Dioniso”.
D’ora in avanti non voglio più sentir dire che una bottiglia di vino è una bottiglia di vino, perchè non è vero. La bottiglia di vino è un vaso misterico.
Bellissimo. Sono più contenta che a Natale.
Il libro dei simboli, ricevuto da Electa – che ricopro di doveroso e meritato affetto – è pieno zeppo di meraviglie, opere d’arte di ogni tempo e freccine avvincenti. Le freccine ti raccontano perchè sullo sfondo di un quadro c’è un gatto nero che scappa, perchè mai dovremmo capire che lo zibetto è da associare al senso dell’olfatto o sentirci poco stabili alla vista di un braciere. Mai bello, il braciere in primo piano: ci finisce dentro il tempo che brucia in fretta. E non capirci niente è consolante, se ci pensiamo, perchè a scuola ci hanno più o meno sempre raccontato che qualsiasi cosa ci sia sulla tela – che siano pane, pellicani, conchiglie, agnelli, pesci, gigantesche testuggini pluricefale o nacchere – ha a che vedere con Gesù… e francamente, dopo un po’, non riesci più a sorprenderti molto.
Un koala!
Cristo risorto.
Una pesca-noce!
Gesù Bambino.
Un clavicembalo!
Gesù che entra a Gerusalemme in groppa a un’asino.
Insomma, Gesù non mi ha fatto niente di male, ma c’è tutto un mondo là fuori. Ci sono complicatissime relazioni tra bestie, piante, frutta e flora, niente sta in mano a qualcuno per caso e pure i sandali dei personaggi secondari, quelli che ti sembrano messi in un angolo per riempire lo spazio, ecco, anche i sandali dell’ultima figura un po’ in ombra nascondono un’allegoria. E se non si capiscono è come mettersi a letto e farsi leggere una favola in islandese… con molta fantasia si potrebbe magari dire che ci garba il suono armonioso dell’islandese – forse ho scelto un brutto paragone -, ma mai al mondo sapremo che sta succedendo nella storia. Ed è un peccato, che le favole islandesi sono universalmente apprezzate per la loro arguzia e varietà di situazioni. Quello che volevo dire è che sto provando una felicità saltellina e curiosa, e che leggerò ben bene questo libro con tutte le sue freccine… finalmente capirò che cosa ci fa un re con la testa piena di ginestre e che problema ha la cristianità con le arance. E quando avrò imparato tutto, verrò qui a farvelo pesare.

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Matilde Battistini, Lucia Impelluso
Il libro dei simboli
Scoprire il significato delle opere d’arte
I dizionari dell’arte – Electa

Andare al lavoro a piedi mi fa contenta. Tanto per cominciare, dimezza le difficoltà principali della mattina. Prima, che abitavo in un posto più lontano e dovevo prendere il tram, le mie difficoltà mattutine erano almeno due, per citare le più gravi: trovare la volontà per alzarmi + fronteggiare l’indole volubile e incostante di un mezzo pubblico. Ti metti lì sotto la pensilina, vestita e pettinata come si può vestire e pettinare una persona che ha appena trascorso cinquanta minuti a schiacciare SNOOZE, ti metti lì e aspetti, senza sapere quel che succederà – perchè alla mia fermata di San Paolo mica c’era l’erotico display che ti dice quanto manca -, stai là e ti disponi all’attesa, senza poter decidere se arrivare o non arrivare in puntuali in ufficio. I mezzi pubblici sono un ricettacolo di calamità e, quel che è peggio, riescono a renderci persone detestabili. Una volta, ad esempio, avevo aspettato il 15 per fai venti minuti… ero salita, mi ero incastrata in fondo, tra una porta e il baracchino per obliterare, e stavo lì tranquilla, a metabolizzare quel che prevedevo sarebbe diventato un ritardo di cinque minuti, che mi andava ancora bene. Ecco perchè, quando una sconosciuta passeggera è svenuta come un cappone bollito nello snodo tra la prima e la seconda vettura, tutto quello che sono riuscita a pensare è stato “ma con tutti i tram che c’erano, la gente deve venire a morire proprio sul mio?”
Ecco, son cose brutte, che non si dovrebbero mai e poi mai nemmeno immaginare. E lo so, è comodo dare la colpa all’esasperazione prodotta dalla perenne inaffidabilità del trasporto pubblico, si inizia così e si finisce a tifare per la pena di morte e per i totalitarismi deresponsabilizzanti.
Comunque.
Quel che cercavo di dire è, come al solito, un’altra cosa. Se col mezzo pubblico le difficoltà della mattina sono A) alzarsi B) governare l’indeterminabile (lottando per la propria integrità morale), se si va a piedi l’odiato fattore B scompare per magia. Ho dovuto traslocare, per eliminare B, ma ne è valsa la pena. E non lo dico perchè mi piaccia particolarmente attraversare l’incrocio con l’aria più plumbea di Torino o perchè il camminare mi permetta di afferrare un qualche tipo di svolazzante sottotesto filosofico. La verità è che cammino volentieri verso l’ufficio perchè tutte le mattine posso incontrare il mio personaggio preferito di sempre: il portinaio marsupiale.

Il portinaio marsupiale – cinquant’anni o giù di lì, grossi baffi e corporatura di una certa imponenza – lavora in uno di quei distinti palazzi col super portone di legno e le vetrate da gente come si deve. L’androne, che poi è anche il passaggio per le macchine che devono entrare e uscire dal cortile, è tutto di pietra un po’ scavata dalle ruote di centinaia di veicoli benestanti. Il portinaio marsupiale sta lì, mezzo nell’androne e mezzo sul marciapiedi, con la scopa in mano e uno yorkshire terrier a tracolla.
Di quel cane io ho sempre visto solo la testa. Il portinaio lo tiene dentro a una borsa-secchiello e non se lo toglie mai dalla spalla. Spazza, lava, pulisce e commenta la viabilità sempre col cane a tracolla. La bestia è, ovviamente, bella solo per lui: è uno di quei barboncini unti, un po’ canuti e inespressivi, che somigliano tantissimo a dei piccoli moci-rasta. Non so che cosa ne pensi il cane, della prigonia nella tracolla, ma per il portinaio è fondamentale tenerlo lì, tra la costola e l’ascella. Gli parla continuamente, gli racconta che cosa lo fa arrabbiare e che cosa bisogna fare, lo usa da platea per rimbrottare chi gli butta le cicche davanti al portone e per commentare i culi delle tizie che passano. Il barboncino non fa una piega, ma si vede che il portinaio apprezza la sua silenziosa disponibilità all’ascolto. A modo loro, sono una coppia affiatata, una coppia da sit-com: con la pioggia e col sole, il portinaio marsupiale non è mai stato visto senza il suo cagnetto.
E questi sono i fatti, ma credo ci sia anche del mistero. Penso spesso al portinaio marsupiale e queste, all’incirca, sono le cose che ho ipotizzato:

– il cane non è un cane intero, è un cane che ha solo la testa. Il portinaio lo tiene nella borsina perchè è l’unico modo per trasportare in giro una testa di cane e farle conoscere il mondo.
– se il cane è tutto intero (anche se non credo), dove trova sollievo nelle sue funzioni corporali? Che la tracolla contenga un avanzatissimo sistema di smaltimento delle scorie, qualcosa che solo gli astronauti utilizzano correntemente? Che, dunque, il portinaio sia stato astronauta, riuscendo così a carpire tale mirabile tecnologia per convertirla ai suoi fini?
– se il cane è tutto intero (anche se non credo), sarebbe capace di camminare da solo, vista la perenne reclusione nella borsa con conseguente atrofizzazione dei quattro piccoli arti?
– è il cane (intero o non intero) a controllare il portinaio marsupiale, come uno di quei parassiti che manipolano la mente dell’ospite? Quest’ipotesi spiegherebbe la simbiosi (il controllo del parassita sull’ospite non stai in piedi, se le due entità non collimano) e il sovradimensionamento del cranio del barboncino rispetto al resto del suo – presunto – corpicino peloso (il controllo della mente è, di sicuro, reso possibile da una scatola cranica capiente, in grado di contenere un cervello più grande del normale).
– in subordine a tutte le altre – ben più plausibili – spiegazioni, potremmo osservare che quella tra portinaio e unticcio yorkshire terrier sia una sincera amicizia, una di quelle relazioni solide e consolanti che sbocciano solo dall’incontro tra anime affini e sensibili. Magari il portinaio ha perso ogni fiducia nella razza umana e trova conforto solo nella presenza fedele e disinteressata del cane. Magari il cane era un poco di buono e il portinaio l’ha salvato dalla strada, meritandosi l’eterna gratitudine della bestiola che è riuscito a redimere.

Non so bene che pensare, ma confido di proseguire alacremente nell’indagine… tanto vado sempre al lavoro a piedi. E lì davanti al portinaio marsupiale ci passo per forza.

 

Ci sono delle avversità.
Tipo:
– ho sognato una base spaziale invasa dagli zombie. Tutti avevano fuciloni al plasma, possenti balestre e scimitarre galattiche. Io avevo una forchetta.
– un tizio mi ha inseguita per strada cercando di spegnermi una sigaretta sulla fronte.
– MADRE è affabile.
– la Fornarina mi ha invitata alla sfilata di Milano, ben due ore prima che iniziasse.
– si stanno bruciando tutte le lampadine-farettine di casa. E farò prima a traslocare che a capire come si cambiano.
– ho solo ed esclusivamente vicini interisti.
– c’è un romanzo che si chiama Cristo polverizzato.
– ci sono gonne fatte di cravatte.
Nonostante tutto questo, ho la felicità in pugno, perchè è finalmente arrivata la mia sciarpavolpe. Amorevolmente assemblata da una sconosciuta annodatrice di lana di Cracovia, la sciarpavolpe scalderà il mio collo e rallegrerà le mie giornate per centinaia di anni. Perchè la sciarpavolpe ha tutto quel che di bello esiste al mondo, compresi quattro morbidi piedini e un nome di battesimo: Volpecula.

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borsa-Gallina, mi ciberò dei tuoi pingui cosciotti!

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Reginald, buon Dio, dov’è la mia tisana alla malva?

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sferruzza una volpe, salva un pollaio (?)

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Per chi volesse dare un senso a questa mia opera di fiera pubblicizzazione dell’artigianato polacco – anche se non ho il fidanzato che mi fotografa con la Reflex mentre scavalco con simulata leggiadria i binari del tram a Porta Romana -, le sciarpevolpe sono fabbricate da celapiu. Che Odino la protegga.

 

 

Vorrei dire subito che non ho ancora letto Infinite Jest e Il re pallido.
Di Infinite Jest ho sia l’edizione Fandango che quella Einaudi. Il re pallido sul mio scaffale è un Pale King, ma non giace intonso e sonnacchioso perchè ho paura di lottare con le tasse in inglese. La verità è che sono equipaggiatissima e che sarei anche pronta all’impresa, con tanto di bandana che garrisce al vento e cesti di frutta ammucchiati sul letto, ma non li voglio leggere, non subito. Finchè Infinite Jest sarà estraneo al mio cuore, finchè resterà lì ad aspettarmi con tutte le sue mille pagine – più note -, ecco, fino a quel momento potrò pensare che Wallace deve ancora raccontarmi delle storie. Il che mi autorizza anche a immaginarlo che festeggia il compleanno. E no, non credo di aver abbracciato un qualche tipo di culto dello scrittore-zombie… è solo davvero confortante sapere che una meraviglia sta facendo dei pisoli vicino a te. E che sarà paziente abbastanza da aspettare e tollerare un po’ di polvere che si ammucchia. Così, nonostante l’odio viscerale che nutro per ricorrenze, anniversari, celebrazioni più o meno postume e cerchietti sul calendario, farò gioiosamente gli auguri al genio che ha inseguito invano la cameriera Petra, che ha fatto crepare d’invidia Jonathan Franzen – con tutti gli occhiali – e che ha inventato, tra le altre cose, uno dei personaggi più strabilianti dell’universo tutto: Stonecipher LaVache Beadsman III, detto l’Anticristo.

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Sono molto fortunata perchè ho dei colleghi che si prodigano per ridurre la mia rotondissima ignoranza. Grazie al cielo, ad un certo punto mi hanno messo in mano La scopa del sistema. Come facessi a stare al mondo prima, per me è un mistero. In questo libro, che dovrei rileggere e tatuarmi addosso, si incontrano miracoli come il pappagallo Vlad l’Impalatore, si trovano favole, raganelle che si annidano tra le clavicole di ragazze timide e deserti di sabbia nera, costruiti assemblando il peggio della natura per temprare la volontà della popolazione dell’Ohio, gente piccia come la neve del pomeriggio. L’amico che non avete mai avuto, però, è LaVache.
Arriva così:

Che Stonecipher LaVache Beadsman avesse un aspetto luciferino era cosa innegabile. Aveva la pelle di un rosso cupo e lustro; e i capelli di un nero unto e ravviati all’indietro a liberare la fronte spaziosa su cui aggettava la V dell’attaccatura, e le sopracciglia di spessore brezneviano, che partivano alte quasi dalle tempie per poi piombare torvamente verso gli occhi, e la testa piccola e ovale e non proprio saldamente ancorata al collo e decisamente propensa a ciondolare di lato, come la testa di un calzascarpe snodabile. Felpa OBERLIN e bermuda a coste, e peli sul piede, quest’ultimo situato accanto a un paio di Converse nere modello alto. Aveva una lavagnetta attaccata alla gamba, e dalla lavagnetta pendeva una catenella con una penna, ed era seduto su una sedia a sdraio, e guardava la televisione, di profilo rispetto a Lenore ferma sulla soglia.

Vi servirà anche sapere che LaVache non possiede ufficialmente un telefono – ma un linfonodo – e che barcolla su un’astuta gamba di legno:

LaVache sollevò la lavagnetta, aprì un cassetto di plastica ricavato nella gamba artificiale, e ne cavò una canna già rollata, che lanciò a Heat.
– Un cassetto? – disse Lenore.
– Ce l’ho sin dai tempi del liceo,  – disse LaVache . – Solo che a casa metto quasi sempre i pantaloni lunghi. Dài, non dirmi che non sapevi del cassetto.

Il cassetto della gamba serve a raccogliere i tributi. LaVache è, infatti, un accorto benefattore e si prodiga affinchè schiere di studenti riescano a passare con dignità gli esami. Che si tratti di Hegel, Darwin o calcolo combinatorio, tutto quello che devono fare, per accedere alla sconfinata conoscenza di LaVache, è adagiare un obolo nel prezioso scomparto segreto. La magia del sapere è, nel suo caso, del tutto indipendente dalle lezioni:

– Io ho lezione, – disse LaVache. – Lo so per certo perchè così dice la mia agenda -. Si pulì un’unghia col fermaglio della lavagnetta.
– A me ha detto che in questo semestre seguirà almeno una lezione, – disse Heat a Lenore mentre si esibiva in una verticale sul pavimento, con la camicia che gli spioveva sulla faccia. – Ha deciso che almeno a una ci andrà.
– Bè, sono pur sempre un
disabile, – disse LaVache. – Non si può pretendere che un disabile arranchi fin lassù ogni santo giorno per seguire tutte le lezioni del semestre.

La magia del sapere è anche del tutto immune a Ciao Bob. Ciao Bob è un gioco di raffinatissimo sadismo, una cosa da Primo Testamento. LaVache e i suoi sventurati coinquilini guardano il “Bob Newhart Show” passandosi una bottiglia di vodka. Ogni volta che qualcuno dice “Ciao Bob”, chi ha la bottiglia in mano deve bere un sorso. Se “Ciao Bob” lo dice Bill Daley, chi ha la bottiglia deve berla tutta, in cinque minuti al massimo. Sopravvivere sembrerebbe impossibile, ma c’è una soluzione a qualsiasi disgrazia:

– Ormai non si vomita più, – disse LaVache. – Qui all’Amherst qualche anno fa c’è stato un tizio, un tizio veramente mitico, che ha introdotto l’usanza per cui invece di vomitare ci si mette a picchiare la testa contro il muro.
– A picchiare la testa?

– Molto forte.

Stupidaggini a parte, LaVache è un vero Beadsman, anche se gli piacerebbe dimenticarlo. Come chiunque nella sua famiglia, il linguaggio non serve solo a trovare un nome alle cose, ma esiste per trasformarle in quello che dovrebbero essere. Ecco perchè non sopporta di sentirsi chiamare Stoney.

– Stoney mi rammenta di aspettative irritanti. Stoney mi rammenta Papà. Come Stoney sono più o meno dedotto…
– Cosa?
– …mentre come l’Anticristo semplicemente
sono, – disse l’Anticristo, puntando enfaticamente la canna verso l’orizzonte rosso e nero. – Come l’Anticristo ho una cosa, ed è eroicamente chiaro dove finisca io e inizino gli altri, e nessuno si aspetta che io sia altro da ciò che sono, cioè una vita sprecata, uno che si fa in quattro per gli altri allo scopo di sostentare la propria gamba.

La gamba sarà anche la super-metafora di una mente brillante che si manda a far benedire da sola, ma serve anche a far giocare i bambini.

La bambina fissava un versante del lustro e scuro viso dell’Anticristo, notò Lenore. La bambina lo tirò per un lembo della felpa.
– Tu sei il diavolo? – gli chiese, a voce alta. I genitori parvero non sentire.
– Non in questo momento, – disse l’Anticristo alla bambina, affidandole del tutto la gamba, per un po’.

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Si potrebbe andare avanti per dei mesi, lunghissimi mesi d’insolita bellezza. E a leggervi/rileggervi La scopa del sistema ci mettereste di meno, quindi desisto, senza nemmeno dover ricorrere al pappagallo più vanitoso e blasfemo della letteratura. E visto che sono qua apposta, tanti begli auguri a David Foster Wallace, perchè oggi compie cinquant’anni. E andrà avanti a compierli, finchè non avrò letto Infinite Jest.

 


MADRE s’inerpica col fido bob

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Ormai ho capito: senza di me, i miei genitori si divertono pazzamente.
Danzano di fronte al fornello mentre aspettano di buttare la pasta, passeggiano in cerca di animalini del bosco, vanno in mezzo a un campo per veder passare la stazione spaziale, mangiano gelati e approdano al mare solo in settembre, quando il turismo diventa leggermente più civilizzato.
Ecco. Se la ridono, alla faccia mia… e col frigo pieno di culatello.
Ho anche capito che a voi MADRE piace tantissimo, ma che dico, preferite MADRE a me. E non vi biasimo. Anzi, per non farvi sentire in colpa per questa disdicevole faziosità, vi dimostrerò, una volta e per sempre, che MADRE merita ogni vostro sentimento.
Che sportività. Ho un cuore grande così.
È con orgoglio, dunque, che vi regalo qualcosa di epico, roba da proiettare al cinema e sulle facciate dei principali monumenti del nostro bel paese. Vi dono MADRE che va sul bob, con tutti e sessantaquattro i suoi anni. Grazie al coraggio di Padre – che all’inizio vi allieterà con le dita sull’obiettivo, cosa bizzarra per un mago dell’audiovideo ma giustificabile dato il principio di assideramento che probabilmente l’attanagliava -, la festosa discesa di MADRE è ora a disposizione del mondo. E vi prego di notare la toccante esortazione di Padre alla prudenza, con quel “VAI PIANO” allegramente ignorato dalla mia genitrice, che anzi, affronta l’insidia delle curve con la baldanza di una nobile zarina in slitta a cavalli.
Amate MADRE – senza smettere di aver paura -, perchè se lo merita.

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E se vi sembra che MADRE vada piano, siete degli stolti. Non solo è più veloce della vostra Clio, ma anche immensamente più contenta.

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MADRE umilia i veicoli motorizzati

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È con grande gioia e orgoglio che arrivo fin qui a strombazzare la nuovissima collaborazione di Tegamini con SettePerUno, che ha avuto l’ardire di affidarmi una rubrica. Di che si parlerà? Di creature fantastiche, perbacco. E visto che ho diligentemente prodotto una descrizione delle Miticherie, non vedo perchè non dovrei rifilarvela:

«La manticora soffia dalle narici lo spavento delle solitudini. Il baldanders cambia continuamente forma… e capita che diventi una salsiccia. Il gillygaloo depone uova quadrate sulle pendici delle montagne più scoscese. Il basilisco crea il deserto. La fenice campa mille anni, e poi prende fuoco. La remora è capace di rallentare le imbarcazioni e di trasformarsi in metafora, tutte le volte che vuole. Il drago occidentale è sempre malvagio, il drago cinese è sapiente, ma perde ogni forza se gli si toglie la perla che custodisce in bocca. L’idra ha molte teste, ma una sola è immortale.

Gli animali fantastici ci tengono occupatissimi da millenni, dato che “i mostri – c’insegna Borges – nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”. Miticherie va a disturbare creature inesistenti, bestie leggendarie e demoni dimenticati, un po’ perché è molto divertente, e un po’ perché conviene tenere in allenamento l’immaginazione».

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Insomma, ringrazio con un’esplosione di pubblica gioia SettePerUno per l’ospitalità: farei anche delle crostatine, ma non ho l’attrezzatura necessaria.
Ed ecco dove leggere tutto.

Il benvenuto di SettePerUno

Il primo post delle Miticherie > Sleipnir: il cavallo più veloce del Valhalla

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Io comunque sono una figura stupefacente, anche se non mi piace molto parlarne.

Daniil Charms
Disastri
marcos y marcos

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Poi ce l’ho fatta, a trovare qualcosa di Charms.
Questo libro l’avremo letto in quattro in Italia. Ci siamo io, la mia collega che ha sempre buongusto, Paolo Nori e il mio amico slavista, quello che ha i baffi belli e la sicura possibilità di stare bene vestito con l’uniforme. A dire la verità, il mio amico vale almeno per dieci, visto che con Charms ci si è laureato. Ritoccando la stima, quindi, ad aver letto questo libro saremo più o meno in tredici, più i baffi di Simone. Fa tredici e mezzo – visto che sono baffi serissimi – ma è comunque un po’ poco. Perchè in questo libro c’è confusione. Ci sono zuffe, percosse, sputi e ingiurie. Ci sono strani commerci col burro e pavimenti pieni di polvere. Arrivano personaggi armati di minestra da rovesciare addosso ai principi, ci s’imbatte in onesti cittadini che escono di casa per comprare la colla e finiscono per perdere la memoria – troppi mattoni che cadono – o per rincorrere indumenti smarriti – è sufficiente che sparisca l’orologio, poi è tutta un’inesorabile reazione a catena. C’è autentica passione per le donne rotonde, c’è furioso ribrezzo per i bambini – e per i pastori tedeschi. Ci si tramortisce con cetrioli giganti – perchè è l’articolo che va per la maggiore nei negozi – e si passeggia con una cornacchia sfortunata, zavorrata dal caffè e dal risentimento. S’incontrano i grandi della letteratura russa e si comincia a parlare di gente che non ha nulla di speciale… e giustamente si comincia e basta, perchè per finire un discorso ci vuole sempre qualcosa da dire.
Questo libro è pieno di scarpate in faccia, stivali che feriscono e tacchi che si conficcano nelle costole.
E non sembra, ma ogni scarpata è assestata con immenso giudizio.