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tegamini

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Sono le 8.30 del mattino, a casa Tegamini. Visto che quattro mesi fa ha traslocato praticamente nell’ufficio, alle 8.30 Tegamini ancora se la dorme con una certa pesantezza, facendo pappappero.
Ma questa mattina no, questa mattina il campanello suona…

DRINNNNN
TEGAMINI – ….aaaaachecos’è.
DRINNNNNNN
T – Vattene!
DRINNNNNNNN
T – AAAAAAAA.
DRINNNNNNNNN
T – Si buongiorno.
UFFICIALE GIUDIZIARIO (con distintivo in mano) – Buongiorno signorina, sono l’ufficiale giudiziario, mi sa dire se “Leopardi Giacomo” abita qui?
T – Scusi?
UG – “Leopardi Giacomo”. Abita qui?
T – …eh, no?
UG – …ne è sicura?
T – Guardi, sono trentacinque metri quadri, se “Leopardi Giacomo” abitasse qui penso che me ne sarei accorta.
UG – Grazie.
T – Grazie a lei.
UG – Buona giornata.
T – Arrivederci.

TEGAMINI – …ma passami la mamma, che la saluto.
PADRE – Eh, è sul terrazzo.
T – Un luogo notorimente impervio ed irraggiungibile…
P – Ma no, è sul terrazzo che guarda l’upupa!
T – …ah. Ma poi avete capito che uccello era, quello dell’altro giorno?
P – Quello grosso come un piccione, blu, marrone e turchese?
T – Eh.
P – No. Infatti tua madre è molto agitata.
T – Secondo me, è una dendroica cerulea.
P – …che roba?
T – Una dendroica. Cerulea.
P – …
T – Papà?
P – Và và… c’è l’upupa davvero! Era passata anche ieri… e allora sono andato su internet e ho scoperto delle cose.
T – È carina l’upupa.
P – In realtà, la leggenda vuole che l’upupa sia l’uccello del malaugurio. Tradizionalmente è l’uccello del malaugurio. C’è su Wikipedia. E poi, ha una ghiandola che secerne delle sostanze di odore sgradevole, per difendersi.
T – Puzza e porta sfiga, insomma.
P – …si, forse è meglio se dico a tua madre di non darle da mangiare.

I miei genitori si stanno appassionando alla vita bucolica.
Mia madre – flagello dei mondi – si arrampica sulle piante per raccogliere le amarene per la marmellata e fa cataste perfette di legna. Mio padre brama un barbecue sotto il portico e ha scarciato ventisei applicazioni per l’iPhone – tutte uguali – che gli mappano il cielo notturno e, col buio pesto della campagna, si diverte come una Pasqua a vagare declamando i nomi latini delle stelle del firmamento.
Poi uno si chiede perchè sono venuta fuori così.

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Parliamo di Transformers. Perchè sono solo fittiziamente adulta e perchè sono andata a vedere il terzo film, Dio mi perdoni.
C’è un mio amico che ha tatuato sul collo del piede destro il simbolo degli Autobot e sul collo del piede sinistro quello dei Decepticon. Ma tatuaggi belli, con un sacco di dettagli, colori brillanti, cromature ed effetti speciali. Nonostante la validità artistica dei piedi del mio amico, credo che dovrebbe inizare a valutare una rimozione… perchè odio ammetterlo, ma gli esuli di Cybertron stanno diventando dei rugginosi rompiballe.
Mi ricordo che al primo film dei Transformers ero andata con a dir poco tutti i miei compagni di classe. Eravamo animati da uno stupore autentico, presi benissimo: ogni volta che qualcosa si trasformava – vuoi anche una caffettiera – finivamo per emettere sonori Ooooh e Aaaaah, ma proprio col cuore. Gli uomini poi erano perennemente a bocca aperta, perchè se l’OooooAaaaaah non era per una trasformazione, era per Megan Fox piegata a novanta su un cofano, baciata da un sole iper-contrastato e accarezzata dal vento.
Comunque. Se, a livello gnocca, l’appeal del franchise-Transformers resta pressochè inalterato – Shia LaBeouf riesce, sovvertendo ogni legge della natura e del buonsenso, a trombarsi un’altra creatura palesemente fuori dalla sua portata, la fidanzata di Jason Statham poi -, sul fronte robotico si procede spediti verso un baratro senza fondo. Sintomo evidente dello sfacelo, è il deterioramento dell’eroe della saga, il coraggioso paladino della concordia uomo-macchina, il piú grosso degli Autobot, quello col vocione piú tonante, quello da temere e riverire. Optimus Prime era tutto questo… E pure con qualche parafango in piú. Mi sarei buttata nel fuoco, se me l’avesse chiesto Optimus Prime. Avrei sfidato Megatron armata di minipimer, se me l’avesse chiesto Optimus Prime.
Ecco. In Transformers 3, Optimus Prime diventa un camion da trasporto pomodori.

Piazzale Loreto è un posto molto trafficato. È un gran casino a più corsie concentriche, dove la gente strombazza, cerca di insinuarsi a destra e a sinistra e si rende amaramente conto di non poter in alcun modo arrivare in orario dove dovrebbe arrivare. Quel che non sapevamo, almeno fino alla rivoluzionaria scoperta di oggi, è che non solo a Loreto una volta c’era il mare ma che, in qualche piano dimensionale normalmente celato all’occhio umano, il mare a Loreto c’è ancora.

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Se vai al bar e chiedi una birra in bottiglia, la pagherai un casino piú cara rispetto alla medesima birra comprata al supermercato. Se poi apri il minibar della tua sontuosa camera d’albergo, la solita bottiglia ti costerà ancora e ancora di piú, diciamo quanto un cucciolo di koala di contrabbando, col pelo ancora un po’ appiccicato d’eucalipto. Il fenomeno sarebbe facilmente spiegabile facendo appello alle piú elementari teorie economiche, ma non sarebbe per nulla divertente. Quello che si potrebbe invece dire è qualcosa tipo “piú piccolo è il bar, piú la birra è cara”. È un problema di contenitore.

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Il supermercato è in grado di contenere te, la tua mamma, il tuo papà, una falange intera di guerrieri macedoni – con cavalcature, vettovagliamenti e macchine da guerra, sempre utilissime quando si tratta di prendere qualcosa sullo scaffale alto -, creature nel passeggino, la sbruffonaggine del tuo fidanzato e, in buona sostanza, tutto quello che ti serve comprare. Ma di piú quello che non ti serve.
Il bar all’angolo è in grado di ospitare i vecchietti che si schiantano di banchini alle ore piú curiose del giorno – e che tra una bestemmia e l’altra sgomitano via le rispettive badanti perché la passeggiata sul viale alberato non la vogliono fare -, i tamarrini che segano scuola per tenere sulle ginocchia ragazzine con scarpe da ginnastica che non si capisce bene come riescano a sollevare da terra, con quelle gambette secche da cicogna. Il bar all’angolo ospita anche quelli che si trovano per un caffè, e basta. Questi consumano solo nei primi quindici secondi, rimanendo poi a raschiare la tazza con il cucchiaino per le sei ore successive, lagnandosi delle inguistizie della vita. A queste persone vorrei dire che potrebbero almeno fare lo sforzo di ordinare un succo, verso la terza ora e quaranta, cosí, come segno di benevolenza verso il gestore, ma anche come gesto carino nei confronti degli altri avventori, quelli che di riflesso saranno investiti dall’ostilità repressa di camerieri indispettiti e che riceveranno, con ogni probabilità, bevande e panini scaracchiati senza meritarlo. Comunque, nel bar all’angolo ci si sta, ma non cosí in tanti, anche perché ti sembra di no, ma i vecchietti occupano un casino di spazio e non puoi spintonarli per raggiungere il bancone o comprimerli in un angolo. Vivono di permalosità, sono delicati e di ossatura croccante, non li scolli da dove si piazzano.
E poi, c’è il minibar.
Nel minibar non ci entri. Non ci entra nessuno. È un posto talmente esclusivo che se non sei una bottiglia di qualcosa o un sacchetto di salatini sarai destinato all’emarginazione.
Il minibar non è nato per scopi di spasso o aggregazione, è un incrocio solipsistico tra un salvadanaio e un piccolo bunker, cioè una cassaforte. Della cassaforte, il minibar non condivide unicamente le dimensioni, ma anche la spiacevole sensazione di essere piú povero e vulnerabile ogni volta che la apri e tiri fuori qualcosa. Insomma, chiunque arrivi in camera alle due del mattino e si avventi su camparini e arachidi sarà soddisfatto e contento per un istante davvero fugace: dopo la prima sorsata e tre pistacchi, l’utente medio del minibar si metterà a pensare, si renderà conto di aver speso tipo quindici euro, da solo, sul terrazzo di un cazzo di albergo con il mare che manco si vede piú all’orizzonte perché è notte. È come quando qualcuno compra una fantasia a zigzag di Missoni, va a una festa col vestito nuovo e la gente non solo non capisce, ma sommerge sistematicamente di complimenti una scema ricoperta da uno zigzag molto simile, comprato da H&M per un qualche prezzo che termina per .99.
Grande stima per la scema di H&M, ci tengo a precisarlo.
Insomma, il minibar ti illude e ti inganna e non ti ci puoi nemmeno sedere dentro, al fresco. Prima ti fa sentire in qualche modo figo e poi ti ricorda con la spietatezza dei un bambino che tiene per il collo un criceto che sei un coglione senza speranza. Uno che si diverte ad aprire l’antina e a far tintinnare le mignon. Uno che magari trova spassoso il pranzo sull’aereo, perché l’efficienza di tutti quei piccoli contenitori di cibo è quasi commovente. I crackerini. I paninini. Le lasagnette in vaschettine ermetiche. Quelle minuscole carote. I panettini di burro. Il bricchino del latte da mettere nel caffè, che quando provi ad aprirlo ti rendi conto che in realtà è un petardo, e lo capisce anche il tuo vicino.
Quindi. L’ingiustificabile mark-up praticato dagli assortitori di minibar è in realtà frutto di una legge economico-comportamentale mirata a debellare il flagello della debosciaggine dal mondo attraverso il meccanismo della vergogna solitaria. E non c’è difesa, perché hai poco da sdrammatizzare disinvioltamente quando fai figure di merda con te stesso. Lo sai benissimo che non sei poi tutto questo gran burlone. Sai anche che non te lo dimenticherai, questo entusiasmo per gli adorabili succhetti di frutta, che guarda un po’ sono proprio dei tuoi gusti prediletti.
Pirla.
Pirla.
Pirla!

…è chiaro che, se siete in viaggio aziendale, tutto questo è un’eresia.

 

 

Che dire, la Pepsi soffre di un antico complesso d’inferiorità nei confronti della Coca Cola. E come potrebbe essere altrimenti? La Coca Cola ha l’ingrediente segreto (uuuuu mistero), la Coca Cola ha creato il moderno distributore automatico, la Coca Cola ha la bottiglietta più iconica e riconoscibile del mondo, la Coca Cola ha inventato Babbo Natale. Come fai a competere con l’invenzione di Babbo Natale, nemmeno Gesù è riuscito a superare la popolarità di Babbo Natale, figurati la Pepsi, che non fa nemmeno parte di un qualche genere di trio trino. La cosa triste è che quando la Pepsi è lì lì per risollevare il capo e passeggiare spedita verso il frigo di qualcuno, la Coca Cola è irrimediabilmente in agguato, cinica e spietata. Ma facciamo un esempio, trasportiamo la disputa nel mondo reale, anzi, facciamoci trasportare dalla disputa sull’Intercity Lecce-Torino, un treno che è stato maledetto nei secoli da generazioni di viaggiatori, e soprattutto da te, che sei a Piacenza e ci sali dopo che un’umanità molto varia ci ha passato su ore e ore, stringendo amicizie che dureranno per tutta la vita. Perchè è verissimo, sali su un treno simile e dopo due scompartimenti ti accorgi senza possibilità d’errore che sono diventati tutti amici, tutti si vogliono bene, si incoraggiano, si nutrono vicendevolmente a pane e salame, urlano IN BOCCA AL LUPO al vicino che si alza per andare in bagno e nemmeno aprono il finestrino, tanto arrivano ad adorare i compagni di viaggio e i loro affettuosi effluvi.
Insomma, è un treno che fa paura di spavento.
Ma sul Lecce-Torino ci sali lo stesso perchè non hai alternative, vai al tuo posto e di fronte, in tutta la sua confusa gloria, trovi il paladino delle bollicine zuccherose.

pistrine

Se ti tagli una tibia, cadendo da un gradino come una voluminosa oca, ti ritroverai seduta per terra con in mano un flacone d’acqua ossigenata e la testa affollata da ricordi e domande. Ti chiederai se i giganteschi frammenti di calza rimasti intrappolati nella ferita finiranno per scatenare una cancrena che provocherà l’amputazione del tuo utile arto, appena sotto il ginocchio. Ti chiederai anche, sempre che la gamba si salvi, se ti rimarrà il segno. Ti chiederai se devi in qualche modo intervenire nel processo di cicatrizzazione o se il tuo unico incarico sarà di non rompere le balle, lasciando che la natura faccia saggiamente il suo corso. Ma più di ogni altra cosa, ripenserai alle eroiche piastrine di Esplorando il corpo umano.

Un buon 90% di quel che so del mio organismo e di quello del mio prossimo si fonda su Esplorando il corpo umano. Non ne vado fiera, ma neanche mi vergogno. Mi vergogno solo di non aver mai avuto la santa pazienza di montare tutto lo scheletro, quello sì. Un giorno, non si sa come, lo stomaco è andato perso e da lì è iniziato lo sfacelo. Scapole ciondolanti, piedi al contrario e via così, non c’era più motivo di continuare. Nonostante la sconfitta modellistica, videocassette e fascicoli hanno plasmato la mia giovane mente, trasformandomi in una venticinquenne che ancora si immagina i mitocondri come dei fornetti a legna e i neurotrasmettitori che corrono di qua e di là con le pergamenine in mano. Ed è una cosa bella, perchè quando salta fuori una sana idea divulgativa, il sapere trasmesso riecheggia sereno nell’eternità. E da questa affermazione potremmo quasi generalizzare che Piero Angela non può morire, ma non è il momento.
Comunque, si parlava delle piastrine di Esplorando il corpo umano. Neanche alle Termopili si è vista una dedizione pari a quella delle piastrine di Esplorando il corpo umano. Se ci pensiamo bene, tutti gli altri abitanti dell’organismo svolgono sì il loro lavoro con impegno, ma un po’ come facciamo anche noi. Ci si lamenta, si trascinano i piedi, si sbuffa se c’è da faticare più di tanto, si guarda con insistenza l’orologio, si va dai colleghi a raccontare quanto stiamo lavorando e si fa a chi è più esausto, ci si iscrive a competizioni sulla profondità dell’occhiaia e cose del genere. Tornando al sistema circolatorio, esempio lampante e innegabile di questo diffuso malcostume è il Globulo Rosso Grasso. Un po’ sempre, ma soprattutto quando trasporta anidride carbonica, il Globulo Rosso Grasso è di una pesantezza inaudita. Non fa un micron senza infliggere ai globuli circostanti un preciso resoconto di quanto sia spossato, demotivato, scazzato,  infelice ed esaurito. Di quanto gli pesi l’anidride, di quanto voglia arrivare ai polmoni il prima possibile, perchè così non gliela fa più, perchè lui è grosso e quindi gli mettono sulla schiena più anidride degli altri e lui non se la merita, tutta quella roba da portare in giro e insomma, morirà secco di fatica. E basta, Globulo Grasso, hai vicino il Globulo Vecchio, che ha millemila anni e inciampa nella barba, ma si sobbarca la sua anidride senza fare tante storie, e che sarà mai, mica c’è in giro la leucemia, cammina e taci, trombone lamentoso che non sei altro.

Ecco, da una piastrina non si avrà mai e poi mai un comportamento da Globulo Grasso. La piastrina è al mondo per salvare tutti gli altri. La piastrina darà la mano alle altre piastrine per costruire un ponte o tappare una falla o sottrarre un vaso sanguigno dal collasso… e lo farà con gioia, lo farà con allegria ed efficienza, si arrampicherà e incastrerà finchè il solido muro di piastrine, con tutte le loro faccine ben disegnate una ad una diventerà una campitura rossa indistinta e vorrà dire che la singola piastrina non esiste più, ma è diventata una molecolina inscindibile in una cosa più grande e nobile.  E mi ricordo che da piccola, quando finalmente si creava questo impenetrabile muro indistinto e il corpo era salvo, mi mettevo a piangere a dirotto davanti alla tv. Piangevo forte per le eroiche e anonime piastrine, che si sacrificavano col sorriso sulle facciotte tonde, agitando le cinque sei o quante mani sono, perdendo se stesse senza sentire uno straccio di grazie, perchè quello era il destino della piastrina, creata per compattarsi alle altre e proteggere tutti dal dissanguamento.
Insomma, tutto questo sta capitando sulla mia tibia tagliuzzata.
Proprio lì… e ora sono molto commossa.

Da un punto di vista antropologico e linguistico, cercare casa può essere avvincente. Il mercato immobiliare è una di quelle realtà dove regna sovrana l’asimmetria informativa, dove tu vai a parlare con persone intrepide, impermeabili alla vergogna e al ritegno, persone che con olimpica flemma riescono a dirti che il rognoso monolocale di quindici metri quadri che stai visitando non è un monolocale, bensì un delizioso e modernissimo open space. E ti diranno anche che oltre al microonde, nello squisito e piccolo loft – anzi, “intimo” piccolo loft – ci sono sia lavatrice che lavastoviglie. Al che, ti guarderai speranzosamente in giro, ma lì per lì, incassati sotto al lavabo, questi preziosi elettrodomestici non li vedrai da nessuna parte… ma ti verrà presto detto che non ci sono perchè si trovano dov’è naturale che siano: alla fine dei tuoi avambracci.
Ma non tutto è viscido e subdolo. C’è speranza. E soprattutto, c’è comicità involontaria.

Il bilocale di Giulio Verne
In stabile anni 60 piano alto luminoso ottimo alloggio mq 80 composto da ingresso 2 camere tinello cucinino bagno. Doppia esposizione termoascensore.
Steampunk is not dead!

Alloggio per democristiani
Centralissimo ma molto silenzioso piccolo loft-ampio mono/bilocale circa 40 mq.
I padroni di casa che non vogliono deludere nessuno sono i migliori. Questa casa è un Transformer. E’ un monolocale, è un bilocale, è un loft, è un loft piccolo, è un monolocale ampio, è qualcosa che farà la mitosi per te, è una chimera dell’architettura moderna, è un non-luogo, è tutto quello che gli chiederai di essere. E anche di più.

Quell’allure cosmopolita
Appartamento non arredato di mq. 100 circa composto da: ampio ingresso, 2 camere, sala, cucina abitabile, bagno (sdoppiato alla francese).
Ah, fare la spola tra il cesso e il lavabo, sentendosi un po’ nella ville lumière. Ah, sgranocchiare macarons, contemplando il fascino inarrivabile di un bidet che non esiste. Ma poi, perchè chiamare una cosa con un nome francofono quando poi in Francia non c’è, il beneamato bidet?

Mr Scrooge
Richiedesi affidabilità economiche.
e anche
Richiedesi referenze economiche dimostrabili.
Perchè io sarò anche uno che costruisce frasi scorrette e poco scorrevoli, ma non sono un pezzente schifoso. Sono uno sgrammaticato possidente.

Maniglione antipanico
In interno cortile pedonale con ricovero biciclette, primo piano rialzato, porta blindata, inferriate alle finestre.
Vorrei precisare che il ricovero biciclette è in un bunker sotterraneo, con riconoscimento impronte digitali e scanning della retina all’ingresso. In caso di bisogno, l’appartamento è anche dotato di riflettori con lenti intercambiabili, per proiettare nei cieli il segnale d’emergenza del supereroe più indicato. Perchè non bisogna far fare a Batman una roba da Spiderman.

Scout e campeggiatori
Affittasi al piano rialzato monolocale con zona notte soppalcata e bagno interno; l’immobile è arredato senza zona cottura ma con frigorifero.
La gente disinformata e razzista disprezza chi si fa i Quattro salti in padella. I quattrosaltisti sono derisi da tutti quelli che non li mangiano, soprattutto dai coglioni qualsiasi che si sentono dei Gualtiero Marchesi in terra e che indossano il grembuile da cucina come i crociati con l’armatura. Questo qua, che affitta una roba dove non c’è nemmeno il fornello, è sicuramente un detrattore dei cuochi della scuola del surgelato. Avrà pensato, capirai, uno che può spendere solo 310 euro d’affitto che vuoi che si cucini, l’anatra all’arancia? Il dodo in carpione? Le crespelle d’anguilla tirolese? Figurati, si comprerà degl’infimi surgelati Selex – anche perché, nota bene, i Quattro salti costano quanto un trapianto di cornea, se ci pensiamo bene – da sbattere in una padella col teflon grattato, che fa male e che lo uccideranno lentamente, surgelato dopo surgelato: una morte orribile, come si merita. E allora sai che ti dico, ti metto il frigo col freezer, ma non ti metto il fornello, per schernirti, così impari, analfabeta alimentare. Dai, dai, voglio vederti adesso, inquilino del cazzo.

Godzilla… rhooooarrrr
99º piano. centro storico, Centro-Crocetta, Torino.
Le ipotesi sono svariate. Il palazzo di novantanove piani in pieno centro a Torino è invisibile. Il palazzo di novantanove piani è in realtà la Mole Antonelliana – e per soli 500 euro mensili ci puoi vivere dentro. Ma anche, il palazzo di novantanove piani nessuno l’ha mai visto, ma c’è davvero… e i condoni edilizi hanno fatto più danni del previsto.

E tutto questo solo oggi.

 

Beluga_premier.gov.ru-3

La rubrica revival definitiva.
I pensierini delle elementari, direttamente dal quaderno (uncensored, con strafalcioni e mega-parole usate a caso).
Perchè non è mai troppo presto per essere surreali.

***

16 novembre 1994
Riassumo il racconto a pag.116-117 del libro di lettura intitolato “La lotta per difendere il proprio piccolo”

In pieno oceano, sotto il circolo polare, pioveva ininterrottamente da tempo. Era uno di quei giorni di mare lungo, che le balene e le orche odiavano tanto, perchè soffrono di mal di mare.
Una balena ondeggiava lentamente, spossata, tenendo tra le pinne il suo piccolo. Cercava per lui dei mari calmi per insegnargli a nuotare.
A un certo punto apparve un’orca. La balena aveva paura, perchè sapeva di cosa erano capaci le orche. La loro strategia era di infastidire le balene e di morderle sotto la gola per costringerle a emettere un suono, a questo punto si avventavano sulla bocca delle balene e strappavano loro la lingua. Così loro se ne andavano tristi e mute per i mari senza poter più dire nulla.
L’orca era già a poca distanza dalla balena e dal balenottero, quando a un tratto dietro a un’onda si profilò il beluga, il grande delfino bianco.
L’orca si tuffò per cercarsi un nascondiglio, ma il delfino le aveva già tagliato la strada, e con un guizzo rapido la raggiunse e le morse la coda. La lotta fu aspra. Ma dopo poco ritornò la calma: il corpo ferito dell’orca ondeggiava trasportato lontano da un’onda.
La balena ringraziò commossa il beluga che aveva salvato il suo piccolo.
Il beluga raccomandò alla balena di non far prendere freddo al balenottero e la madre rispose che finchè rimaneva stretto a lei non correva rischio di raffreddarsi. Così si separarono e ognuno andò per la sua strada.

 

A casa mia c’era snobismo, quindi non si aspettava Babbo Natale ma avevamo Santa Lucia, una portatrice di regali di nicchia. E io credevo a Santa Lucia con una fervida, incrollabile e cieca fede, cieca almeno quanto lei.

Fondamentalmente, ci credevo così tanto perchè non avevo ben chiari i meccanismi dell’economia di mercato. Esempio lampante: ero una bambina convinta che il bancomat regalasse i soldi, ma allo stesso tempo non riuscivo a dare un valore a quello che c’era nei negozi, che mi sembrava assolutamente fuori dalla nostra portata. Di conseguenza, non era plausibile che ricevessi tutti quei giocattoli in una botta sola senza un aiuto sovrannatural-divino… tutti quei giocattoli avrebbero rovinato noi e la nostra discendenza, rendendo arida la terra, sterili gli armenti e secche le fonti.
Il fatto è che il denaro mi trascinava nella più assoluta confusione.