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Il primo approccio con Georgette Heyer ha prodotto del sano svago e, come molti miei esperimenti, è passato per Storytel – lì lo trovate letto da Claudia Cassani, ma potete anche reperirlo nel catalogo Astoria. Heyer è nata nel 1902 ed è scomparsa negli anni Settanta, lasciandoci una nutrita eredità letteraria che probabilmente verrà saccheggiata a scopi televisivi quando anche l’ultimo rampollo del Bridgerton-verso convolerà a (giuste?) nozze. I suoi libri più fortunati sono ambientati nei salotti buoni dell’Inghilterra regency e, come vuole il canone, son pieni di signore linguacciute, nobiluomini che tornano inzaccherati dalla caccia e cameriere a cui affidare confidenze potenzialmente indecorose. Tutto questo è presente in Una donna di classe? Decisamente sì. E con un discreto piglio.

In questo caso specifico, ci trasferiamo a Bath insieme alla signorina Wychwood che, ricca sfondata e stufa marcia di sorbirsi cognata, nipotini e un fratello maggiore che la tratta con asfissiante paternalismo, decide di fare i bagagli e traslocare nella dimora cittadina di famiglia. Per non destare scandalo – CIELO, UNA VENTINOVENNE NON ANCORA MARITATA CHE VIVE SOLA! – le appioppano una cugina pedantissima come dama di compagnia, ma l’allegra brigata è destinata ad allargarsi. Lungo la strada per Bath, infatti, Lady Wychwood si imbatte in una carrozza in panne (espressione non adatta all’epoca, ma rende l’idea) e si sorprenderà più che disposta ad assistere i passeggeri appiedati, una ragazza in fuga e il suo riluttante accompagnatore…

Lady Wychwood troverà l’amore o finirà per cavarsela più che bene anche da “zitella”? Quante signore cadranno vittima di letali infreddature? Come si annoda una cravatta? Perché si offendono tutti con così tanta facilità? Mi sono divertita? Direi di sì, anche se a tratti è estremamente ridondante – quante volte dobbiamo ricapitolare una disavventura o un legame di parentela? Mille, forse. Nonostante certe lungaggini, però, è un libro piacevolmente arguto e trito al punto giusto da risultare rassicurante. A Bath non c’è l’Esselunga, ma all’inesorabile “marriage plot” non si scappa.

Premio MalaparteIl Premio Malaparte 2023, che si assegna a Capri a personalità letterarie internazionali, è stato conquistato quest’anno da Benjamín Labatut, che da queste parti era già transitato con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il suo debutto per Adelphi. Fluttuando nei pressi dei Faraglioni ho vissuto una delle esperienze di mal di mare più devastanti e inconcepibili della mia vita ma, per fortuna, il Malaparte e i numerosi momenti d’incontro collegati al premio si svolgono sulla terraferma e le vertigini sono affidate unicamente alla letteratura. Gli autori e le autrici che se lo aggiudicano trascorrono un fine settimana isolano ricco di impegni, ragguardevoli momenti gastronomico-conviviali e dibattiti pubblici, compresa la cerimonia di accettazione del riconoscimento alla Certosa di San Giacomo. Per quest’edizione, la ventiseiesima dalla “fondazione” e la dodicesima dal rilancio a cura di Gabriella Buontempo e Ferrarelle Società Benefit, Labatut ha presentato Maniac, il suo nuovo lavoro, e ha dialogato con Guido Tonelli, fisico tra i più autorevoli del CERN e magnifico “duellante”. Perché sì, Labatut di base non concorda, ma anche la sua è una potentissima e abissale forma di ricerca. Ho avuto la vasta fortuna di poterci conversare e qui trovate la generosa intervista… con tanto di intervento divino, abbiamo ipotizzato. 


Uno dei temi che emerge più di frequente, quando si discute del tuo lavoro, è la relazione tra scienza, verità fattuale e letteratura. Quanto possiamo fidarci dei fatti e dove comincia la finzione? Perché partire proprio dalla scienza – che collettivamente suscita aspettative di certezza – per fare letteratura?

La scienza deve descrivere la realtà, ma non è quello il compito della letteratura. Il ruolo della letteratura è raggiungere i posti che la scienza non può raggiungere. Riguarda significati più oscuri, più insoliti, parla del mondo nella nostra testa. Qui non c’è esperimento che tenga o che possa condurci a una verità “psicologica”, come si può invece fare quando si indagano gli atomi. La scienza si basa sul principio che il mondo si possa comprendere, che sia ordinato e si possa decifrare, anche se ci sono molti aspetti che restano impossibili da afferrare. Per quel che ne so, non è possibile comprendere la fenomenologia dell’umano usando soltanto i fatti. Non è così che viviamo. Non è così che le nostre menti funzionano. Siamo esseri fatti di desiderio, dolori, sogni, incubi. Le nostre immaginazioni sono portentose, siamo inseguiti da strati e strati di significato, molti dei quali sono finzione pura, che scaturisce solo dalle nostre menti. Nei miei libri c’è una commistione voluta, non una distorsione della verità, perché la letteratura può arrivare ad aspetti che nessun altro metodo permette di scorgere. Ce lo siamo dimenticato, abbiamo finito per credere che da un lato ci sia la verità e che dall’altro ci sia l’immaginazione, quello che inventiamo – ma non funziona così. Ogni istante delle nostre vite è una mescolanza orrenda, spaventosa e caotica di tutto questo… e ci sono altri elementi ancora che si aggiungono. E la verità, la parte più importante del mio lavoro di scrittura riguarda questi elementi aggiuntivi che né la scienza né la letteratura possono gestire. Non abbiamo un linguaggio, un metodo per avvicinarli. L’incognito assoluto è qualcosa che esiste oltre la scienza, oltre la letteratura, oltre le parole. Ecco qual è il cuore di quello che provo a scrivere. So che è là, da qualche parte. Non posso descriverlo, ma so che c’è.

È da qualche parte, ma è anche dentro di noi?

Dentro e fuori di noi, ma più che altro fuori. Se guardiamo dentro di noi ci troveremo il mondo, il mondo con la M maiuscola. Il mondo è di una stranezza estrema e inconcepibile. Tendiamo a separarcene, ma quando torniamo a guardarlo – e quello è il fulcro di molte delle storie di Quando abbiamo smesso di capire il mondo – all’improvviso ritroviamo quello che pensavamo di aver perso strada facendo. Troviamo cose caotiche, indocili e incomprensibili che superano le capacità delle nostre menti. Siamo abituati a credere che i misteri abitino “fuori” – il mondo era popolato dagli déi, pullulava di spiriti -, ma ora pensiamo che sia tutto nella nostra testa. La verità è una via di mezzo fra questi due estremi e arrivarci è molto difficile.

In Quando abbiamo smesso di capire il mondo, i matematici e i fisici che utilizzi per esplorare questa frontiera si trovano spesso alle prese con un limite espressivo: le loro teorie sembrano difficilmente codificabili. La scoperta “profonda” rende necessari linguaggi nuovi?

No, in realtà. Usano i linguaggi che abbiamo già a disposizione. Le nostre menti funzionano manipolando dei simboli – possono essere parole o può essere la matematica – ma la nostra intelligenza ha a che fare con la manipolazione dei simboli. Certo, è solo una delle porzioni delle nostre menti, la parte con cui siamo in comunicazione e che riusciamo a spiegarci. Ma esistono anche creature come i corvi, che non usano simboli ma sono intelligenti, immagazzinano ricordi, hanno coscienza di sé. C’è una forma di intelligenza che scaturisce dall’attività connettiva dei neuroni – è un’intelligenza molto diversa dall’esperienza “conscia” ed è qualcosa che stiamo iniziando a costruire ora con le nuove tecnologie, come l’IA. L’IA funziona così, è un’intelligenza scorporata e senz’anima.
Insomma, non penso che si tratti della creazione di linguaggi nuovi, non so se esista una via capace di superare la matematica o le parole. Non lo so. Io posso arrivare solo fin lì… e non è che sia andato chissà quanto lontano.
Visto che scrivo, però, sono pienamente conscio – come ogni scrittore – di cosa sono le parole e di cosa possono fare, dell’impatto che producono su di noi. Ma sono anche tragicamente consapevole di quanto poco contino. È l’aspetto più superficiale e meno rilevante di chi siamo. Ci siamo del tutto consegnati alla ragione, al linguaggio, al pensiero – e oggi anche alla frangia più patetica di questo aspetto: l’opinione. Le opinioni sono come il buco del culo, tutti ne hanno una. Il centro di tutto diventa quello, ciascuno si preoccupa unicamente del proprio buco di culo. È incredibile. [ride] Ma le cose che ci interessano davvero, come esseri umani, sono le cose che sentiamo, che intuiamo, che patiamo, le cose che ci travolgono. Quello che cerco di fare nei miei libri, il motivo per cui i miei protagonisti si comportano così, è che sono invasi, posseduti, innamorati… ed è un’esperienza dolorosa.

E leggendo lo si avverte. Non c’è scienziato fra le tue pagine che non attraversi un momento di crisi profonda o che possa dirsi allineato ai ritmi del mondo. Sono ricerche che li assorbono completamente, isolandoli dalla realtà e facendoli sprofondare nell’ossessione.

L’ossessione è una forma d’attenzione potenziata, è l’attenzione che si trasforma in arma. E l’attenzione, per citare Roberto Calasso, è il potere che permette agli dèi di costruire l’universo. È ardore, calore, energia sessuale, oltre che intellettuale. È la mente che costruisce, pensiero dopo pensiero, qualcosa degno di sacrificio. Ecco perché porto i miei personaggi a quegli estremi, perché è lì, quando si patisce questa sorta di possessione, che rinunci a te stesso e che ti esponi al tormento. È il nucleo fondamentale, perché sfugge a ogni controllo ed è in quel momento che le cose nuove vengono messe al mondo. Ho incontrato persone così, parecchie. Ci si aspetta che gli artisti siano ossessivi… e quello che ammiravo negli artisti, crescendo, era proprio questo atteggiamento “religioso”. Ti consegni a qualcosa che è più grande di te e lo fai anche se sai che ti distruggerà. Quello per me era il fulcro della questione. Ci vuole coraggio.

E fede, magari?

No, la fede non basta.

[Siamo seduti sotto a un albero. In questo preciso istante un frutto si stacca da un ramo, chissà dove, e precipita in mezzo a noi sul tavolo. Non posso fare a meno di esclamare FLEABAG!]

Esatto! [ride]

La volpe di Fleabag, se ci pensiamo, è “il segugio dei cieli” – e sarà anche il titolo del mio discorso di accettazione del Premio Malaparte. Il segugio dei cieli è una figura molto importante per me: è Dio che insegue chi più ama, incalzandolo senza tregua. Quella è l’esperienza a cui voglio arrivare. Non sei tu che cerchi qualcosa, è quel qualcosa che insegue te. E le persone che mi interessano sono quelle inseguite dal segugio. La fede non basta. È la morte del pensiero, per me. Non si crede nell’amore, lo si subisce. Se hai fede puoi anche smettere di pensare. Ma il pensiero è doloroso proprio perché serve a dubitare, ti scava dentro come ogni cosa che è davvero importante. Il punto è non essere lasciati in pace, mai. Non siamo esseri intellettivi, siamo senzienti… cioè sentiamo, soffriamo e ogni conoscenza che otteniamo si guadagna con il dolore. Quanto vorrei che non fosse così… [sorride]

Anche il tuo processo di scrittura risponde a questa dinamica? Gli argomenti ti inseguono e ti impongono di trovare risposte? Si scrive per ossessioni?

Certo, non si può scrivere in altro modo. Cioè, dovresti essere capace di perdere momentaneamente la ragione, dovresti riuscire a scrivere senza distruggere chiunque ti circondi, dovresti riuscire a cercare la verità senza perdere te stesso, ma non è possibile… non veramente. Ci sono parti di te che perderai – e dovrai farci i conti. Se vuoi scrivere bene e se il libro è autentico, ti modificherà, se glielo permetterai. Ti mostrerà aspetti orribili di te e ti obbligherà a prenderne atto. Sfogliando quel libro non ti verrà mai in mente di esclamare “Oh, ma è meraviglioso!”… sarà proprio il contrario. La copertina italiana di Maniac mi piace moltissimo, perché esprime esattamente quello che dovremmo scorgere. Dobbiamo vedere l’ombra, questa tenebra che aleggia alle nostre spalle. La scrittura migliore viene dall’ombra e questo spiega perché così tanti miei colleghi sono disperati e finiscono per ammazzarsi.

E cosa succede a chi legge?

Non mi interessa. Voglio dire, i calciatori non prestano la minima attenzione agli spettatori in tribuna. Sono innamorati della palla e non pensano ad altro. Non ci si può concentrare, non si può fare gol altrimenti. Badare al resto non è nemmeno un’opzione. Chiaro, alcuni possono essere gentili con i loro fan e dar corda alle persone che li ammirano… e possono anche essere degli stronzi – entrambe le alternative sono assolutamente legittime, ma sono innamorati del gioco. Io sono innamorato della scrittura. I lettori leggono, ma io sono uno scrittore.

È interessante perché molti lettori cercano l’immedesimazione, invece. Vogliono ritrovarsi nei personaggi e capita che apprezzino di più le storie in cui si riconoscono…

Ma quello non è leggere. Quello è specchiarsi. Dovrebbero guardare la tv. Non parlo di buon cinema, intendo proprio la tv. Quella fa per loro. Perché nemmeno il cinema funziona in quel modo. Un libro non dovrebbe mostrarti chi sei. Dovrebbe mostrarti il mondo.

O quello che per conto tuo non sei capace di vedere.

Assolutamente, nel migliore dei casi. O dovrebbero mostrarti gli aspetti più terrificanti di te. C’è una meravigliosa tradizione di mostri, in letteratura. Uomini mostruosi e donne mostruose. È fondamentale che esistano anche libri scritti da mostri perché l’immagine del mostruoso ci mette di fronte a quello che davvero abbiamo più bisogno di vedere. Dovrebbe essere uno spettacolo difficile da guardare, dovrebbe spaventarci. I libri dovrebbero farci paura.

Pensi che questa ricerca di rassicurazioni e certezze riguardi anche la scienza? Scienza, spiegami il mondo. Dimmi in cosa devo credere e come funzionano le cose.

Non bisogna confondere il pubblico – e il consumo “generalista” della scienza – con la scienza in sé e per sé. La scienza funziona scavando dei buchini minuscoli nelle cose. Gli scienziati sono ossessionati da dettagli infinitesimali. Sono artigiani… anzi, rispetto agli altri esseri umani appartengono proprio a una specie diversa. I veri scienziati sono le persone più strambe che si possano incontrare. Ho un amico ossessionato dall’apparato riproduttivo degli scarafaggi. Ma quella è scienza. Può riguardare un dettaglio simile o l’origine dell’universo. Chiunque possa davvero definirsi scienziato è fin troppo conscio – in senso platonico e socratico – di quello che ancora non comprende, di quello che ancora non sa. E se sa qualcosa si chiederà quanto è approfondita la conoscenza che abbiamo accumulato, quanto ancora possiamo scoprire. È una disposizione estremamente diversa. Il consumo pubblico è religioso, semplicemente. Mostrami come funziona il mondo, giusto? Rassicurami. Va benissimo, anch’io mi sono prefissato di imparare il più possibile sul funzionamento del mondo. Non sto assolutamente deridendo l’impulso di chi vuole imparare qualcosa in più – lo facciamo tutti. Ma quello che mi interessa somiglia a un atto di magia, a un gioco di scatole cinesi: vogliamo afferrare gli aspetti dell’universo che superano la nostra comprensione… ed è quello che ci tiene in vita, che permette a tutto di evolversi. È il caos bizzarro che rende le nostre vite vivibili.

Abbiamo perso la magia? Intendendola come strumento “laterale” che può aiutarci ad allargare la prospettiva e a concepire l’assoluto.

La magia è incasinata e anche molto, molto pericolosa. È sempre stato così. Gli sciamani vivono fuori dalla comunità. Sono emarginati. Puzzano. La società li esclude. Ma il ruolo dello sciamano è proprio quello. Fanno paura, sono ossessionati dal sesso e mangiano i bambini. [ride]. Al giorno d’oggi non c’è spazio per la conoscenza occulta. Le persone vogliono sapere tutto, vogliono che ogni cosa venga loro spiegata, ma la magia non funziona così. Chiunque si avvicini anche solo tangenzialmente alla magia è disposto a mettere in pericolo la propria anima e non penso che in molti lo vogliano fare. Non oggi.

Anche la scrittura può diventare un pericolo per l’anima?

A volte. Voglio dire, dipende dal periodo specifico. Non lo si può fare sempre, altrimenti si finisce per diventare degli idioti pomposi. E so benissimo di cosa sto parlando perché anch’io sono un idiota pomposo. Ma bisognerebbe lasciar filtrare un pezzettino di mondo. Crescendo, si impara a sentirsi coraggiosi quando ci si imbatte in un’idea, si pensa di conoscersi perché sono tante le cose che si apprendono. Uno scrittore pensa anche di saperla più lunga della gente che lo circonda, ci cresci proprio. Leggi tutti i libri possibili e immaginabili… e poi ne leggi degli altri. Pensi di capire benissimo le cose. E poi la vita ti dimostrerà che non è vero. È durissima. Quando l’ego di uno scrittore viene calpestato è un’esperienza davvero lancinante, perché di solito è tutto quello che ha, è l’unica cosa che ha davvero sviluppato. Ha sviluppato il suo ego perché è con quello che si scrive. Non si scrive con chissà che altro, scrivi col tuo ego. Cerchi di lucidarlo per benino, ma quando viene calpestato – e se fai bene il tuo lavoro – corri un grande pericolo. In più, come chiunque, devi evitare l’alcolismo, l’egotismo, il narcisismo. Funziona così per tutti, ma gli scrittori ne sono più consci. Ce l’hai sempre in mente: rovinerò la mia vita se vado avanti così.

Ma si va avanti lo stesso?

Non lo so. Adoro gli scrittori che smettono di scrivere. Ho un giardino anch’io… magari mi dedicherò a quello.

Cosa succede quando scrivi? C’è un processo di ricerca e poi di stesura?

Preferisco non parlarne. Perché una grande componente è un po’ esoterica. Devi chiedere, devi implorare. Il nocciolo sta lì. La ricerca… [ride]… la ricerca è facile, è facilissima. Basta leggere! Bisogna leggere e sottolineare… quanto può essere complicato da fare per chi già legge per il piacere di farlo? Non è difficile. Il difficile sta nel raggiungere la verità della cose, ecco perché sono ossessionato da scrittori come Eliot Weinberger, Juan Forn, Roberto Calasso. Loro capiscono, che è molto diverso dall’accumulare documentazione. Un libro ben documentato può essere del tutto morto, ma cos’è che serve a un libro per essere vivo? Quella sì che è una questione complessa e ogni scrittore deve trovare una risposta, in qualche modo. Il processo, insomma, è caotico, prevede diversi rituali ma la costante è che bisogna sempre chiedere e implorare – in ginocchio, se possibile. [ride]

E Maniac dove ci porterà?

È un libro sull’intelligenza, raccontata attraverso tre storie. La prima è la storia vera di un fisico, Paul Ehrenfest, uno dei migliori amici di Einstein. Era un buon fisico… ma di “fascia media” in Europa, dove a quei tempi venivano svolte le ricerche più brillanti del Ventesimo secolo. Soffriva di depressione melanconica, aveva un figlio piccolo con la sindrome di Down ed era anche un ebreo che vedeva nazisti spuntare da tutte le parti. All’improvviso, sprofondò in una crisi enorme. Sparò a suo figlio e poi si suicidò. Nella parte del libro che è totalmente basata sui fatti, racconto di quella che Ehrenfest definì come “peste matematica”, un tipo preciso di razionalità che stava prendendo vita. Quel genere di razionalità, per me, si esprime pienamente nel vero protagonista del libro, il matematico John von Neumann. Era una specie di “dio infantile”. Per lui ho usato il linguaggio della religione perché sarebbe stato molto difficile descriverlo in un altro modo. Era un computer prima ancora che i computer venissero concepiti. La realtà è che è stato lui a creare il computer moderno. Era una mente di un’acutezza affilatissima. L’elemento che ha preso vita in von Neumann era la logica, il Dio della logica. E racconto la sua storia fino al giorno della sua morte, farneticante, con il cervello divorato dal cancro. Il libro si chiude con le partite disputate tra un’intelligenza artificiale – che all’epoca era la più avanzata che ci fosse – e un campione di go, un autentico artista che credeva nella bellezza come traguardo a cui aspirare. L’intelligenza artificiale lo distrugge, sebbene oggi il nostro problema non sia la distruzione… il problema è la creazione.


Vi rimando al sito Adelphi per appuntamenti e risorse di ulteriore approfondimento.
Il mio post su Quando abbiamo smesso di capire il mondo – che ho linkato anche in cima – è sempre qua.

 

 

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

In città si crepa di caldo, in campagna anche… ma almeno ci si augura che il cambio di scenario aiuti la creatività a fluire un po’ meglio. I dipendenti di Bomba Agency si riuniscono prima della chiusura ufficiale delle ostilità e dei “ci pensiamo a settembre” per mettere insieme una proposta di gara. Non conosciamo il cliente, non sappiamo che cosa vada in concreto inventato, ma in fondo non è necessario. Le gare sono tutte uguali e sono anche il simbolo perfetto di come gira il mondo: si lavora in uno scenario incerto con la speranza che quel lavoro lì produca in futuro altro lavoro, ma lievemente più solido. Nel frattempo gli orari si allungano, i confini tra vita professionale e vita privata si sfumano, tutto è urgente, fondamentale e indispensabile… ma non stiamo mica salvando vite umane, non scordiamocelo. Ironia, mi raccomando! Una birretta?

La casa di campagna che fa da sfondo vivo e presentissimo a Estate caldissima di Gabriella Dal Lago – in libreria per 66thand2nd – accoglierà per una settimana di lavoro e stretta convivenza i sette componenti di Bomba, più una gatta e un bambino di otto anni. È figlio di Gian, il padrone della casa e pure dell’agenzia – anche se quasi si vergogna a farsi trattare da capo – e della sua ex compagna. La compagna attuale è una collega che, prima ancora, era stata una sua studentessa. Le relazioni degli altri (e con gli altri) si sveleranno man mano, mentre si suda copiosamente, si prova a mettere insieme qualcosa di dignitoso da presentare all’ipotetico cliente e ci si rimbalza addosso con diversi gradi di intensità. La casa accoglie e nasconde, forse perché conosce già il futuro e sa rassegnarsi alla rovina. Non piove da un’eternità… ma pioverà e nessuno sarà pronto.

Di millennial impantanati e prigionieri delle proprie contraddizioni si sta cominciando a narrare con buona lena, di solito raccontandoli in preda a una rassegnazione statica o, a volte, facendoli proprio rinunciare a partecipare. Son strade reali, ma ce ne sono altre. Dal Lago non affligge ogni suo personaggio col medesimo dilemma “generazionale”, anzi, dosa il pesante e il leggero con occhio e sensibilità. Alcuni sono alle prese con delusioni senza tempo, altri si scoprono più flessibili del previsto, una vuol salvare l’universo intero ma è indifferente a chi le sta a un metro, un’altra sa che non avrà mai il coraggio di scappare. È una confusione ben orchestrata e soprattutto “attiva”, ci si scorge una forma di resistenza e un margine di manovra ancora accessibile. E probabilmente è questo che rende amara sul serio la sorte di Bomba.

La casa potrebbe essere l’ultimo rifugio prima di una catastrofe, ma si dimostra un crocevia decisivo che nessuno riconosce. E i disastri più grandi di noi – che arriviamo col nostro valigino di panni sporchi, dilemmi, compromessi e programmi a brevissimo termine da portare avanti con le persone che accettiamo come inevitabili – guadagnano terreno, si addensano all’orizzonte e si preparano a spazzare via quello che conosciamo… e che non siamo stati capaci di aggiustare. Come fai a salvare TUTTO, quando ti tieni a malapena a galla e ti è stato insegnato che conta far vincere un IO che restringe ogni confine? Come si fa a sentirsi abbastanza “potenti”, se non ci fidiamo nemmeno di noi stessi? Meglio lasciarsi dimenticare o imparare a vivere “nel mezzo”, perché il passato ci sconfigge per definizione e il futuro va costruito… ma i progetti li abbiamo persi.

Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Book cover

La gente di pianura diventa cattiva perché non ha niente da guardare: non c’è un ostacolo naturale capace di creare un limite ai desideri ma la vastità monotona di quello che ti circonda scoraggia l’iniziativa. Insomma, vuoi andare chissà dove perché il paesaggio appare “facile” – e pensi che l’orizzonte ti sia dovuto – ma per strada non ti ci metti perché il potenziale percorso è semplicemente eccessivo. Marta Cai esordisce per Einaudi con Centomilioni allestendo il suo teatro proprio in un’evanescente cittadina di pianura, affidando alle sue “vittime” di finzione il compito di raccontarci l’insoddisfazione, lo stallo perenne di chi molto vuole ma pochissimo crede di poter fare, la claustrofobia assoluta delle radici, della meschinità fatta passare per affetto, della cura come ricatto.

L’unica cosa che Teresa e Alessandro hanno in comune è forse la necessità viscerale di scappare. Lei non concepisce nemmeno la possibilità di comprare un vestito senza la supervisione della famiglia tutta, lui si piace da impazzire e non ritiene che serva altro. Lei ha ben superato i 40, lui ne ha poco più di 20. Lei è una via di mezzo tra una bambina decrepita e una zitella prigioniera, lui non ha mai trovato il modo di farsi prendere sul serio. Entrambi coltivano una sorta di esistenza parassitaria: lei ostaggio dei genitori anziani – “con tutto quello che abbiamo fatto per te non vorrai mica abbandonarci?” – e lui come zavorra per il Vecchio Porco che mantiene la madre. Lei lo ama come ci si innamora di un cantante alle medie… e lui l’ha capito.

Son poche pagine, ma il rancore che ci troverete dentro penso vi basterà per lungo tempo. Più che Teresa – che è una creatura paradossale che può far pena come rabbia – quel che colpisce è l’accuratezza della ricostruzione di quella miriade di grettezze quotidiane, abitudini impermeabili al cambiamento e superbie imbecilli che fanno “paese”… e che sono fin troppo vere. A tenere insieme tutto è l’eterno tema dei soldi: chi ne ha, chi se li merita, chi li butta, chi ne vuole di più, chi fa progetti senza averne, chi non ha nemmeno l’immaginazione per spenderli e chi li conta in tasca agli altri, incessantemente. Cento milioni, pensati in lire per farli sembrare di più – anche perché andranno divisi in tre: ecco il premio per il più mesto degli inganni. Sono pochi? Sono tanti? Non si sa, dipende da com’è il paesaggio di casa vostra. Teresa e Alessandro vivono in pianura. E vivere, per loro, è un debito insormontabile.

Allora, il libro “fonte” che Christopher Nolan ha usato per Oppenheimer è quello di Kai Bird e Martin J. Sherwin – in italiano è uscito per Garzanti. Io non l’ho letto e questo vuole essere un cenno puramente informativo. Se il tema vi intriga, però, La brigata dei bastardi è un suggerimento collaudatissimo e di sorprendente godibilità. E no, non parla solo di Oppenheimer.

Sam Kean scrive di scienza e di contese scientifiche col piglio di un avventuriero e con il godimento palpabile di chi adora un argomento e vuol renderlo fruibile anche a me che non ho mai preso più di 3 in una verifica di fisica.
La brigata dei bastardi – pubblicato da Adelphi con la traduzione di Luigi Civalleri è un librone molto ambizioso e intricato – sia per complessità del tema che per sterminata ricchezza delle fonti – che spazza via col piglio deciso ogni sospetto di noia o pedanteria. Di che parla? Della corsa alla bomba atomica e del perché gli Alleati ci siano “arrivati” prima, nonostante la Germania avesse inaugurato il suo programma con un paio d’anni buoni di vantaggio. Partendo dalla ricerca sull’atomo e dalla sequenza di scoperte strabilianti dell’era pre-bellica, Kean posiziona sulla scacchiera premi Nobel, generali, spie e guastatori per raccontarci un tassello decisivo della Seconda Guerra Mondiale e, nemmeno troppo incidentalmente, la perdita dell’innocenza della scienza.

Non vi tedierò con del name-dropping che risulterebbe molto più prolisso e meno interessante di come se la cava Kean nella descrizione dei personaggi chiave – fenomenali, anche i più biechi – e non vi tedierò neanche col bigino del testa a testa tra Club dell’Uranio e Progetto Manhattan, ma spero vi basterà sapere che qua dentro troverete la degna cronaca di un’impresa umana di rara complessità, sia per l’estrema difficoltà “concettuale” ma anche per l’abisso etico che ha spalancato. Mai forse nella storia tante menti eccelse, tanti soldi e tanti sforzi produttivi si sono coagulati attorno a un unico obiettivo. Quel che ne è uscito è un terrore fuori scala e un atto inventivo che ha cambiato per sempre il nostro modo di intendere i conflitti, il potere, la civiltà, la responsabilità e il mondo intero.


Un altro paio di spunti?
La storia della bomba atomica in versione graphic-novel – con un approccio che non mi è parso troppo dissimile da quello di Kean: La bomba di Alcante, Bollée e Rodier, uscito per l’Ippocampo.
E un romanzo corale che racconta il progetto Manhattan dal punto di vista delle consorti degli scienziati impegnati nelle ricerche in New Mexico: Le mogli di Los Alamos di Tarashea Nesbit.

 

Ogni famiglia è infelice a modo suo, abbiamo collettivamente metabolizzato. Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde – in libreria per Neri Pozza – è la cronaca secca e precisissima dell’insoddisfazione di una specifica famiglia, di un vuoto civilissimo e agiato, di una diminuzione perenne dell’amore che finisce poi per “personificarsi” in una figlia che sceglie di farsi spettatrice, topolino che si aggira ai margini dei crucci altrui – sempre silenziosi, sempre segreti, sempre senza speranza.

Nipote e figlia di femmine scandalose, troppo vive per essere opportune, “pazze” e nemmeno troppo tacitamente disapprovate dalla brava cittadinanza, Annetta diminuisce di pagina in pagina – un po’ perché non cresce, un po’ perché quello che pensa le spetti è poco e un po’ perché sua madre non c’è mai quando dovrebbe, non la ripara dalle ingiustizie più stupide e grette, non le lascia nemmeno immaginare un paesaggio in cui correre da sola (su gambe lunghe e forti).

È un esordio insolito e molto ben eseguito, misuratissimo e pieno di crudeltà tristi. Somiglia a un pezzo di musica da camera che si ascolta bene ma da studiare è un baratro di difficoltà o a un quadro piccolissimo ma zeppo di dettagli che in mezzo centimetro di tela lasciano intravedere un “oltre” sconfinato – ma noi siamo prigionieri di quella cornice, come Annetta, come sua madre.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

Un nuovo esperimento sul fronte “millennial tristi e piene di menate”? Eccoci qua con La nuova me di Halle Butler – in libreria per Neri Pozza con la traduzione di Annalisa Di Liddo.

Millie ha trent’anni e vive a Chicago. L’agenzia interinale che cerca a ripetizione di impiegarla le ha trovato un lavoro da assistente alla reception in uno showroom che coltiva con grande attenzione un’aura sofisticata. Le mansioni non sembrano troppo complicate: deve rispondere al telefono, pinzare delle brochure, tritare dei documenti e fare il possibile per attenuare la dissonanza che sembra separarla costantemente dai membri “funzionanti” di ogni contesto in cui le capita di inserirsi. C’è qualcosa che stride, sempre. Millie non sa quando tacere, non sa come vestirsi, disprezza quasi tutto (e analizza quel che le capita con un astio triste e desolato) ma vorrebbe scivolare leggera verso un futuro che sente di meritarsi ma che continua a respingerla, finendo soltanto per rendere ancora più palesi le sue mancanze.

I genitori le hanno fornito una rete di salvataggio – le pagano l’affitto e, da misura temporanea in vista di un lavoro che l’avrebbe aiutata a stare in piedi da sola, è diventata una scorciatoia strutturale. Millie un po’ se ne vergogna e un po’ si rifiuta di pensarci e ogni ufficio in cui ricomincia da capo è una nuova speranza, che si tira dietro una lunga lista di nobili aspirazioni. Mangiare meglio, lavarsi di più, tenere in ordine, arredare con gusto, fare sport, leggere, bere meno, volersi bene. Ma è dura costruire un castello splendente quando le fondamenta traballano di continuo e Millie tira avanti rabbiosa, sfidando il tedio in una polarizzazione di desideri: vorrebbe un contratto “vero”, ma chi è che vorrebbe fare per sempre un lavoro così mesto? E che senso ha tirare a lucido una casa piena di cianfrusaglie da quattro soldi?  Da un lato, Millie ha il lusso relativo di poter scegliere – e un minimo di spalle coperte – ma, dall’altro, le alternative a disposizione sono misere e di certo incompatibili con sogni di gloria e realizzazioni conclamate.

Dunque, pensavo meglio. Mi rendo conto che ci sia una forma di ripetitività che serve a infilarci nel vicolo cieco che intrappola anche Millie, a farci percepire in maniera viva l’estrema futilità di quello che le tocca (e alla sua – e mia – generazione tocca) per campare, ma per quanto lo stratagemma sia efficace risulta anche un po’ pesante. Millie è interessante perché è sgradevolissima. È sciatta, vendicativa, meschina e a suo modo vanesia, ma è anche un’architetta di illusioni e autoinganni molto potenti da leggere. La vuoi menare ma ti fa anche tenerezza, percepisci la sua difficoltà ma senti anche che è troppa per fartene carico, la percepisci come lo specchio deformante di un’attrazione del luna park che ti ha messo più ansia che divertimento – e non sai perché ci sei salita o perché Millie faccia così fatica a uscire. Millie è uno dei tanti “peggio” che ci sono capitati o che continuano a capitarci. Ci ricorda che siamo di una debolezza disarmante, ma anche che non è più necessario fallire con grazia. Anzi. Dovremmo cominciare a farlo rovinando la festa a tutti.