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Assegnato ogni anno a Capri a una personalità notevolissima del mondo letterario internazionale, il Premio Malaparte è stato conquistato nel 2024 da Rachel Cusk, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero e particolarmente amata e nota per la trilogia di Resoconto – titolo a cui sono poi seguiti TransitiOnori

A Cusk piacerebbe molto trasformarsi in purissima immagine astratta ma, per il momento, possiamo ancora chiacchierare con lei. Da Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura – raccolta di saggi e riflessioni autobiografiche di fresca uscita – al suo discusso memoir sulla maternità – Il lavoro di una vita, di cui ho già riflettuto qui – fino alle tante superfici parlanti a disposizione della narratrice quasi invisibile della trilogia, ecco un angolino di tempo che abbiamo trascorso insieme, durante le due giornate fittissime del Malaparte. Conversare con Cusk è come vederla scrivere… e spero che un po’ di quell’esattezza limpidissima mi rimanga appiccicata addosso.

[Al fondo o qui trovate una versione video dell’intervista. Vi va di leggerla? Proseguite in serenità qua di seguito.]


Leggendo e ripensando complessivamente al suo lavoro, ho trovato molto calzante la presenza di Natalia Ginzburg in uno dei saggi raccolti in Coventry. Credo che ci sia qualcosa che vi accomuna, quello sforzo di estrarre dai dettagli più minuti della realtà e dei fatti della quotidianità un collegamento più vasto a quel che può significare vivere ed esistere nel mondo. Ma anche negli aspetti legati alla posizione che vogliamo assumere, a cosa significa creare e scrivere per spiegarci meglio quello che non è immediatamente comprensibile o semplice da afferrare. Si sente vicina all’approccio di Ginzburg? E quanto spesso si convince di non essere abbastanza “brava”, come spesso capitava a lei? 

Vero, lo diceva sempre! [sorride]

A me è sempre sembrato molto bizzarro, perché per quanto lo ripeta – e se lo ripeta di continuo – l’ho sempre trovata saggissima e mai presuntuosa o pretenziosa…

Credo che la mancanza di presunzione sia probabilmente la chiave dell’unicità della sua voce. Perché penso che, spesso, il sé intralci le sue stesse percezioni. E questa è davvero – e posso dirlo in base alla quantità notevole di libri che ho scritto – una presa di coscienza crescente: si vorrebbe assolutamente ridurre al minimo la presenza del sé, in un libro. Ad alcune persone – e lei era sicuramente una di queste – riusciva in maniera piuttosto naturale. L’umiltà è davvero una qualità artistica fondamentale, ed è un altro degli aspetti che si percepisce di lei. Perché ti consente di osservare ogni cosa e ogni luogo con un’obiettività straordinaria. Non cerchi di inserire te stessa e nemmeno di ritrovare necessariamente dei riflessi di te stessa, o di affermare la tua rilevanza. C’è qualcosa di davvero naturale nella sua presenza in un testo che nasce da questa posizione di umiltà.

Penso dipenda anche dal tono. Non “suona” mai minacciosa e sembra sempre fare uno sforzo sincero per mettere a proprio agio chi legge, ma senza scadere nella condiscendenza. Da dove può arrivare una scelta di modulazione così equilibrata dell’ego nella scrittura? 

Mi chiedo se si sia trattato di una questione di semplice sopravvivenza. Sopravvivere a determinate esperienze può smorzare gli eccessi, immagino, eliminando ogni traccia di esagerazione dalla tua voce e da quello che stai creando. Suppongo che il fatto che sia sopravvissuta abbia generato una sorta di senso del dovere, immagino, per continuare a farsi testimone delle cose.

A proposito di ego… la leggenda vuole che la scrittura sia una mastodontica questione d’ego. L’autore arriva per mostrarti quello che non vedi! Ecco una pagina che illuminerà la tua anima! Ringraziami, lettrice, per la verità assoluta che ti sto rivelando! Scrittori e scrittrici ne sono ben consapevoli e penso che di tanto in tanto si approfittino con disinvoltura di questa leggenda. Specialmente nella trilogia di Resoconto, però, la sua scrittrice si trasforma in una sorta di contenitore per una molteplicità di opinioni, eventi e punti di vista che ci vengono presentati senza giudizi o senza la necessità di proporre risposte “guidate” o di far necessariamente “vincere” le sue convinzioni. La protagonista della trilogia è e rimane un’osservatrice, che ascolta senza il minimo desiderio di prevalere. Che fine fa, allora, tutto quel famigerato ego? È diventato finalmente superfluo?

[Ride.]
Ciascuno di noi può individuare delle esperienze nella propria vita che hanno radicalmente minacciato o messo in discussione o ridotto il proprio ego. Quindi, forse, è qualcosa con cui si nasce e che ci viene dato, o riguarda il processo di formazione del carattere, qualcosa che la vita a un certo punto ti comunica.
Per certi versi, fa anche un po’ paura pensare che gli scrittori – e anche gli artisti, ovviamente – siano in realtà protetti da quel processo, in qualche modo. E che il loro ego resti intatto ben oltre il momento in cui dovrebbe essere stato eroso almeno in parte dalla vita. [ride]
Ora credo di essermi del tutto staccata da quello scenario. E lo descriverei, immagino, come un processo di perdita di fede nella realtà – intendendo la realtà come qualcosa che il sé struttura deliberatamente e in cui crede. E quando si spegne davvero questo motore di fede che cosa ti rimane? Ti rimangono delle superfici che puoi interpretare, che non sono affatto al servizio della trama della tua vita e che magari restituiscono il tuo riflesso e il riflesso della storia della tua vita in maniera indipendente.

Dove scrive, ora? In Coventry si discute della famosa “stanza tutta per sé” e degli spazi in cui si esercita la creatività o ci si cala in diversi ruoli – dal lavoro alla maternità. Tradizionalmente siamo abituate ad attribuire un luogo specifico a ogni diverso ruolo che siamo chiamate ad assumere. Per lei esiste uno spazio creativo dedicato? Ce l’ha, questa “stanza”?

Ce l’ho, ho finalmente una stanza tutta per me. E lì dentro lavoro davvero. [sorride]
Uno dei temi che affronto in Coventry è quest’immagine che mi ha tormentata parecchio. La si trovava in quarta di copertina nei romanzi pubblicati nella seconda metà del XX Secolo e ci sono sempre degli uomini in poltrona, con le loro scrivanie rivestite in pelle e lo sguardo puntato verso l’alto…
Il problema delle stanze tutte per sé è che devi essere tu a metterti al servizio di quelle stanze, devi fare in modo che abbiano quell’aspetto e devi sederti in poltrona e presentarti anche come la persona che scrive.
C’è un racconto meraviglioso di Doris Lessing… parla essenzialmente di una donna che sta provando a creare qualcosa e si sposta per casa da una stanza all’altra cercando un posto che non sia pieno di faccende che deve sbrigare, di gente che la insegue per chiederle di fare delle cose e, appena trova un cantuccio adatto, tutti quanti decidono che anche a loro piacerebbe molto stare lì e usare quello spazio.
Nel mio nuovo libro si parla parecchio non solo di scrittrici donne ma anche di artiste donne e di come ci siano esigenze di spazio estremamente diverse – perché lo spazio in cui si crea un oggetto è ben diverso. Nel libro parlo di un’artista americana che aveva cinque figli e li teneva sempre nel suo studio. C’erano sempre dei bambini piccoli in giro e ogni tanto creavano qualcosa per conto loro, altre volte aiutavano lei e, in un certo senso, la soluzione al problema era diventata quella: incorporare i bambini nell’atto creativo. Capirai bene che con la scrittura non funziona e, nel libro, la persona che racconta questo aneddoto afferma che, per quanto adori quella storia, resta solo un’immagine… e che non si possa realmente fare così.

Volevo concludere con un ringraziamento per Il lavoro di una vita. Mi ha aiutata a venire a patti con quel tipo molto specifico di solitudine che può toccare le neo-madri. La riassumerei come una forma di scollamento dai ritmi e dalle esperienze del resto del “mondo” accompagnata da una metamorfosi identitaria molto onerosa da elaborare. Nel libro ho trovato una voce che parlava a me – … e non solo del bambino o di cosa dovevo fare per il bambino – e restituiva dignità alle mie domande meno “pratiche”, meno legate agli aspetti funzionali del mio nuovo ruolo. Con quel libro mi è stata amica, insomma, anche se nemmeno io sapevo troppo bene di averne bisogno. 

Il lavoro di una vita è un libro interessante, per me. Mi ha insegnato che, nonostante tutti i discorsi che facciamo su come possiamo far leggere le persone, all’improvviso un libro riscuote grande successo e lo troviamo meraviglioso e tutti quanti si mettono a leggere questo libro… ma in fin dei conti continuo a credere che esista un libro in particolare per una persona specifica che si trova nella situazione in cui il libro che ha bisogno di leggere è proprio quello – e non l’ultima novità che stanno leggendo tutti gli altri. Il lavoro di una vita troverà sempre una donna che se la sta cavando da sola perché, in quell’esperienza, si è davvero da sole… e mi ricorda sempre di continuare ad avere fede, in un certo senso, in quell’idea. Non si tratta di inseguire la popolarità, ma di centrare il bersaglio a livello individuale.

 


Vi va di ascoltare tutto quanto dalla viva voce di Cusk? Ecco una versione video della nostra conversazione:

 

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Vi va di scoprire qualcosa in più sull’atmosfera del Premio Malaparte e su quello che è accaduto quest’anno in compagnia di Cusk? Ecco qua un “diario” basato su un ottimo esercizio d’osservazione che arriva per direttissima da Resoconto. 🙂

 

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Vi va di ascoltare ancora un po’ di Cusk? Ecco la puntata speciale di Comodinoil podcast del Post curato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti – dedicata all’autrice e registrata sempre a Capri per il Malaparte. Ho avuto il privilegio di godermi la chiacchierata in diretta, come potrei non linkarla? 🙂

Premio MalaparteIl Premio Malaparte 2023, che si assegna a Capri a personalità letterarie internazionali, è stato conquistato quest’anno da Benjamín Labatut, che da queste parti era già transitato con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il suo debutto per Adelphi. Fluttuando nei pressi dei Faraglioni ho vissuto una delle esperienze di mal di mare più devastanti e inconcepibili della mia vita ma, per fortuna, il Malaparte e i numerosi momenti d’incontro collegati al premio si svolgono sulla terraferma e le vertigini sono affidate unicamente alla letteratura. Gli autori e le autrici che se lo aggiudicano trascorrono un fine settimana isolano ricco di impegni, ragguardevoli momenti gastronomico-conviviali e dibattiti pubblici, compresa la cerimonia di accettazione del riconoscimento alla Certosa di San Giacomo. Per quest’edizione, la ventiseiesima dalla “fondazione” e la dodicesima dal rilancio a cura di Gabriella Buontempo e Ferrarelle Società Benefit, Labatut ha presentato Maniac, il suo nuovo lavoro, e ha dialogato con Guido Tonelli, fisico tra i più autorevoli del CERN e magnifico “duellante”. Perché sì, Labatut di base non concorda, ma anche la sua è una potentissima e abissale forma di ricerca. Ho avuto la vasta fortuna di poterci conversare e qui trovate la generosa intervista… con tanto di intervento divino, abbiamo ipotizzato. 


Uno dei temi che emerge più di frequente, quando si discute del tuo lavoro, è la relazione tra scienza, verità fattuale e letteratura. Quanto possiamo fidarci dei fatti e dove comincia la finzione? Perché partire proprio dalla scienza – che collettivamente suscita aspettative di certezza – per fare letteratura?

La scienza deve descrivere la realtà, ma non è quello il compito della letteratura. Il ruolo della letteratura è raggiungere i posti che la scienza non può raggiungere. Riguarda significati più oscuri, più insoliti, parla del mondo nella nostra testa. Qui non c’è esperimento che tenga o che possa condurci a una verità “psicologica”, come si può invece fare quando si indagano gli atomi. La scienza si basa sul principio che il mondo si possa comprendere, che sia ordinato e si possa decifrare, anche se ci sono molti aspetti che restano impossibili da afferrare. Per quel che ne so, non è possibile comprendere la fenomenologia dell’umano usando soltanto i fatti. Non è così che viviamo. Non è così che le nostre menti funzionano. Siamo esseri fatti di desiderio, dolori, sogni, incubi. Le nostre immaginazioni sono portentose, siamo inseguiti da strati e strati di significato, molti dei quali sono finzione pura, che scaturisce solo dalle nostre menti. Nei miei libri c’è una commistione voluta, non una distorsione della verità, perché la letteratura può arrivare ad aspetti che nessun altro metodo permette di scorgere. Ce lo siamo dimenticato, abbiamo finito per credere che da un lato ci sia la verità e che dall’altro ci sia l’immaginazione, quello che inventiamo – ma non funziona così. Ogni istante delle nostre vite è una mescolanza orrenda, spaventosa e caotica di tutto questo… e ci sono altri elementi ancora che si aggiungono. E la verità, la parte più importante del mio lavoro di scrittura riguarda questi elementi aggiuntivi che né la scienza né la letteratura possono gestire. Non abbiamo un linguaggio, un metodo per avvicinarli. L’incognito assoluto è qualcosa che esiste oltre la scienza, oltre la letteratura, oltre le parole. Ecco qual è il cuore di quello che provo a scrivere. So che è là, da qualche parte. Non posso descriverlo, ma so che c’è.

È da qualche parte, ma è anche dentro di noi?

Dentro e fuori di noi, ma più che altro fuori. Se guardiamo dentro di noi ci troveremo il mondo, il mondo con la M maiuscola. Il mondo è di una stranezza estrema e inconcepibile. Tendiamo a separarcene, ma quando torniamo a guardarlo – e quello è il fulcro di molte delle storie di Quando abbiamo smesso di capire il mondo – all’improvviso ritroviamo quello che pensavamo di aver perso strada facendo. Troviamo cose caotiche, indocili e incomprensibili che superano le capacità delle nostre menti. Siamo abituati a credere che i misteri abitino “fuori” – il mondo era popolato dagli déi, pullulava di spiriti -, ma ora pensiamo che sia tutto nella nostra testa. La verità è una via di mezzo fra questi due estremi e arrivarci è molto difficile.

In Quando abbiamo smesso di capire il mondo, i matematici e i fisici che utilizzi per esplorare questa frontiera si trovano spesso alle prese con un limite espressivo: le loro teorie sembrano difficilmente codificabili. La scoperta “profonda” rende necessari linguaggi nuovi?

No, in realtà. Usano i linguaggi che abbiamo già a disposizione. Le nostre menti funzionano manipolando dei simboli – possono essere parole o può essere la matematica – ma la nostra intelligenza ha a che fare con la manipolazione dei simboli. Certo, è solo una delle porzioni delle nostre menti, la parte con cui siamo in comunicazione e che riusciamo a spiegarci. Ma esistono anche creature come i corvi, che non usano simboli ma sono intelligenti, immagazzinano ricordi, hanno coscienza di sé. C’è una forma di intelligenza che scaturisce dall’attività connettiva dei neuroni – è un’intelligenza molto diversa dall’esperienza “conscia” ed è qualcosa che stiamo iniziando a costruire ora con le nuove tecnologie, come l’IA. L’IA funziona così, è un’intelligenza scorporata e senz’anima.
Insomma, non penso che si tratti della creazione di linguaggi nuovi, non so se esista una via capace di superare la matematica o le parole. Non lo so. Io posso arrivare solo fin lì… e non è che sia andato chissà quanto lontano.
Visto che scrivo, però, sono pienamente conscio – come ogni scrittore – di cosa sono le parole e di cosa possono fare, dell’impatto che producono su di noi. Ma sono anche tragicamente consapevole di quanto poco contino. È l’aspetto più superficiale e meno rilevante di chi siamo. Ci siamo del tutto consegnati alla ragione, al linguaggio, al pensiero – e oggi anche alla frangia più patetica di questo aspetto: l’opinione. Le opinioni sono come il buco del culo, tutti ne hanno una. Il centro di tutto diventa quello, ciascuno si preoccupa unicamente del proprio buco di culo. È incredibile. [ride] Ma le cose che ci interessano davvero, come esseri umani, sono le cose che sentiamo, che intuiamo, che patiamo, le cose che ci travolgono. Quello che cerco di fare nei miei libri, il motivo per cui i miei protagonisti si comportano così, è che sono invasi, posseduti, innamorati… ed è un’esperienza dolorosa.

E leggendo lo si avverte. Non c’è scienziato fra le tue pagine che non attraversi un momento di crisi profonda o che possa dirsi allineato ai ritmi del mondo. Sono ricerche che li assorbono completamente, isolandoli dalla realtà e facendoli sprofondare nell’ossessione.

L’ossessione è una forma d’attenzione potenziata, è l’attenzione che si trasforma in arma. E l’attenzione, per citare Roberto Calasso, è il potere che permette agli dèi di costruire l’universo. È ardore, calore, energia sessuale, oltre che intellettuale. È la mente che costruisce, pensiero dopo pensiero, qualcosa degno di sacrificio. Ecco perché porto i miei personaggi a quegli estremi, perché è lì, quando si patisce questa sorta di possessione, che rinunci a te stesso e che ti esponi al tormento. È il nucleo fondamentale, perché sfugge a ogni controllo ed è in quel momento che le cose nuove vengono messe al mondo. Ho incontrato persone così, parecchie. Ci si aspetta che gli artisti siano ossessivi… e quello che ammiravo negli artisti, crescendo, era proprio questo atteggiamento “religioso”. Ti consegni a qualcosa che è più grande di te e lo fai anche se sai che ti distruggerà. Quello per me era il fulcro della questione. Ci vuole coraggio.

E fede, magari?

No, la fede non basta.

[Siamo seduti sotto a un albero. In questo preciso istante un frutto si stacca da un ramo, chissà dove, e precipita in mezzo a noi sul tavolo. Non posso fare a meno di esclamare FLEABAG!]

Esatto! [ride]

La volpe di Fleabag, se ci pensiamo, è “il segugio dei cieli” – e sarà anche il titolo del mio discorso di accettazione del Premio Malaparte. Il segugio dei cieli è una figura molto importante per me: è Dio che insegue chi più ama, incalzandolo senza tregua. Quella è l’esperienza a cui voglio arrivare. Non sei tu che cerchi qualcosa, è quel qualcosa che insegue te. E le persone che mi interessano sono quelle inseguite dal segugio. La fede non basta. È la morte del pensiero, per me. Non si crede nell’amore, lo si subisce. Se hai fede puoi anche smettere di pensare. Ma il pensiero è doloroso proprio perché serve a dubitare, ti scava dentro come ogni cosa che è davvero importante. Il punto è non essere lasciati in pace, mai. Non siamo esseri intellettivi, siamo senzienti… cioè sentiamo, soffriamo e ogni conoscenza che otteniamo si guadagna con il dolore. Quanto vorrei che non fosse così… [sorride]

Anche il tuo processo di scrittura risponde a questa dinamica? Gli argomenti ti inseguono e ti impongono di trovare risposte? Si scrive per ossessioni?

Certo, non si può scrivere in altro modo. Cioè, dovresti essere capace di perdere momentaneamente la ragione, dovresti riuscire a scrivere senza distruggere chiunque ti circondi, dovresti riuscire a cercare la verità senza perdere te stesso, ma non è possibile… non veramente. Ci sono parti di te che perderai – e dovrai farci i conti. Se vuoi scrivere bene e se il libro è autentico, ti modificherà, se glielo permetterai. Ti mostrerà aspetti orribili di te e ti obbligherà a prenderne atto. Sfogliando quel libro non ti verrà mai in mente di esclamare “Oh, ma è meraviglioso!”… sarà proprio il contrario. La copertina italiana di Maniac mi piace moltissimo, perché esprime esattamente quello che dovremmo scorgere. Dobbiamo vedere l’ombra, questa tenebra che aleggia alle nostre spalle. La scrittura migliore viene dall’ombra e questo spiega perché così tanti miei colleghi sono disperati e finiscono per ammazzarsi.

E cosa succede a chi legge?

Non mi interessa. Voglio dire, i calciatori non prestano la minima attenzione agli spettatori in tribuna. Sono innamorati della palla e non pensano ad altro. Non ci si può concentrare, non si può fare gol altrimenti. Badare al resto non è nemmeno un’opzione. Chiaro, alcuni possono essere gentili con i loro fan e dar corda alle persone che li ammirano… e possono anche essere degli stronzi – entrambe le alternative sono assolutamente legittime, ma sono innamorati del gioco. Io sono innamorato della scrittura. I lettori leggono, ma io sono uno scrittore.

È interessante perché molti lettori cercano l’immedesimazione, invece. Vogliono ritrovarsi nei personaggi e capita che apprezzino di più le storie in cui si riconoscono…

Ma quello non è leggere. Quello è specchiarsi. Dovrebbero guardare la tv. Non parlo di buon cinema, intendo proprio la tv. Quella fa per loro. Perché nemmeno il cinema funziona in quel modo. Un libro non dovrebbe mostrarti chi sei. Dovrebbe mostrarti il mondo.

O quello che per conto tuo non sei capace di vedere.

Assolutamente, nel migliore dei casi. O dovrebbero mostrarti gli aspetti più terrificanti di te. C’è una meravigliosa tradizione di mostri, in letteratura. Uomini mostruosi e donne mostruose. È fondamentale che esistano anche libri scritti da mostri perché l’immagine del mostruoso ci mette di fronte a quello che davvero abbiamo più bisogno di vedere. Dovrebbe essere uno spettacolo difficile da guardare, dovrebbe spaventarci. I libri dovrebbero farci paura.

Pensi che questa ricerca di rassicurazioni e certezze riguardi anche la scienza? Scienza, spiegami il mondo. Dimmi in cosa devo credere e come funzionano le cose.

Non bisogna confondere il pubblico – e il consumo “generalista” della scienza – con la scienza in sé e per sé. La scienza funziona scavando dei buchini minuscoli nelle cose. Gli scienziati sono ossessionati da dettagli infinitesimali. Sono artigiani… anzi, rispetto agli altri esseri umani appartengono proprio a una specie diversa. I veri scienziati sono le persone più strambe che si possano incontrare. Ho un amico ossessionato dall’apparato riproduttivo degli scarafaggi. Ma quella è scienza. Può riguardare un dettaglio simile o l’origine dell’universo. Chiunque possa davvero definirsi scienziato è fin troppo conscio – in senso platonico e socratico – di quello che ancora non comprende, di quello che ancora non sa. E se sa qualcosa si chiederà quanto è approfondita la conoscenza che abbiamo accumulato, quanto ancora possiamo scoprire. È una disposizione estremamente diversa. Il consumo pubblico è religioso, semplicemente. Mostrami come funziona il mondo, giusto? Rassicurami. Va benissimo, anch’io mi sono prefissato di imparare il più possibile sul funzionamento del mondo. Non sto assolutamente deridendo l’impulso di chi vuole imparare qualcosa in più – lo facciamo tutti. Ma quello che mi interessa somiglia a un atto di magia, a un gioco di scatole cinesi: vogliamo afferrare gli aspetti dell’universo che superano la nostra comprensione… ed è quello che ci tiene in vita, che permette a tutto di evolversi. È il caos bizzarro che rende le nostre vite vivibili.

Abbiamo perso la magia? Intendendola come strumento “laterale” che può aiutarci ad allargare la prospettiva e a concepire l’assoluto.

La magia è incasinata e anche molto, molto pericolosa. È sempre stato così. Gli sciamani vivono fuori dalla comunità. Sono emarginati. Puzzano. La società li esclude. Ma il ruolo dello sciamano è proprio quello. Fanno paura, sono ossessionati dal sesso e mangiano i bambini. [ride]. Al giorno d’oggi non c’è spazio per la conoscenza occulta. Le persone vogliono sapere tutto, vogliono che ogni cosa venga loro spiegata, ma la magia non funziona così. Chiunque si avvicini anche solo tangenzialmente alla magia è disposto a mettere in pericolo la propria anima e non penso che in molti lo vogliano fare. Non oggi.

Anche la scrittura può diventare un pericolo per l’anima?

A volte. Voglio dire, dipende dal periodo specifico. Non lo si può fare sempre, altrimenti si finisce per diventare degli idioti pomposi. E so benissimo di cosa sto parlando perché anch’io sono un idiota pomposo. Ma bisognerebbe lasciar filtrare un pezzettino di mondo. Crescendo, si impara a sentirsi coraggiosi quando ci si imbatte in un’idea, si pensa di conoscersi perché sono tante le cose che si apprendono. Uno scrittore pensa anche di saperla più lunga della gente che lo circonda, ci cresci proprio. Leggi tutti i libri possibili e immaginabili… e poi ne leggi degli altri. Pensi di capire benissimo le cose. E poi la vita ti dimostrerà che non è vero. È durissima. Quando l’ego di uno scrittore viene calpestato è un’esperienza davvero lancinante, perché di solito è tutto quello che ha, è l’unica cosa che ha davvero sviluppato. Ha sviluppato il suo ego perché è con quello che si scrive. Non si scrive con chissà che altro, scrivi col tuo ego. Cerchi di lucidarlo per benino, ma quando viene calpestato – e se fai bene il tuo lavoro – corri un grande pericolo. In più, come chiunque, devi evitare l’alcolismo, l’egotismo, il narcisismo. Funziona così per tutti, ma gli scrittori ne sono più consci. Ce l’hai sempre in mente: rovinerò la mia vita se vado avanti così.

Ma si va avanti lo stesso?

Non lo so. Adoro gli scrittori che smettono di scrivere. Ho un giardino anch’io… magari mi dedicherò a quello.

Cosa succede quando scrivi? C’è un processo di ricerca e poi di stesura?

Preferisco non parlarne. Perché una grande componente è un po’ esoterica. Devi chiedere, devi implorare. Il nocciolo sta lì. La ricerca… [ride]… la ricerca è facile, è facilissima. Basta leggere! Bisogna leggere e sottolineare… quanto può essere complicato da fare per chi già legge per il piacere di farlo? Non è difficile. Il difficile sta nel raggiungere la verità della cose, ecco perché sono ossessionato da scrittori come Eliot Weinberger, Juan Forn, Roberto Calasso. Loro capiscono, che è molto diverso dall’accumulare documentazione. Un libro ben documentato può essere del tutto morto, ma cos’è che serve a un libro per essere vivo? Quella sì che è una questione complessa e ogni scrittore deve trovare una risposta, in qualche modo. Il processo, insomma, è caotico, prevede diversi rituali ma la costante è che bisogna sempre chiedere e implorare – in ginocchio, se possibile. [ride]

E Maniac dove ci porterà?

È un libro sull’intelligenza, raccontata attraverso tre storie. La prima è la storia vera di un fisico, Paul Ehrenfest, uno dei migliori amici di Einstein. Era un buon fisico… ma di “fascia media” in Europa, dove a quei tempi venivano svolte le ricerche più brillanti del Ventesimo secolo. Soffriva di depressione melanconica, aveva un figlio piccolo con la sindrome di Down ed era anche un ebreo che vedeva nazisti spuntare da tutte le parti. All’improvviso, sprofondò in una crisi enorme. Sparò a suo figlio e poi si suicidò. Nella parte del libro che è totalmente basata sui fatti, racconto di quella che Ehrenfest definì come “peste matematica”, un tipo preciso di razionalità che stava prendendo vita. Quel genere di razionalità, per me, si esprime pienamente nel vero protagonista del libro, il matematico John von Neumann. Era una specie di “dio infantile”. Per lui ho usato il linguaggio della religione perché sarebbe stato molto difficile descriverlo in un altro modo. Era un computer prima ancora che i computer venissero concepiti. La realtà è che è stato lui a creare il computer moderno. Era una mente di un’acutezza affilatissima. L’elemento che ha preso vita in von Neumann era la logica, il Dio della logica. E racconto la sua storia fino al giorno della sua morte, farneticante, con il cervello divorato dal cancro. Il libro si chiude con le partite disputate tra un’intelligenza artificiale – che all’epoca era la più avanzata che ci fosse – e un campione di go, un autentico artista che credeva nella bellezza come traguardo a cui aspirare. L’intelligenza artificiale lo distrugge, sebbene oggi il nostro problema non sia la distruzione… il problema è la creazione.


Vi rimando al sito Adelphi per appuntamenti e risorse di ulteriore approfondimento.
Il mio post su Quando abbiamo smesso di capire il mondo – che ho linkato anche in cima – è sempre qua.