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Ho la pessima abitudine di considerare i libri che mi capita di presentare o di cui mi capita di discutere in pubblico come già affrontati, raccontati e sviscerati. Il risultato è che qua sopra non ne rimane traccia, anche se sarebbe meglio poterli ritrovare come diligentemente accade per tutti gli altri, che non hanno beneficiato di eventi o incontri specifici. Sto migliorando, però – e Rachel Cusk mi è testimone, insieme a questo propizio approfondimento.

Di Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, si discute da mesi con l’ormai consueta esuberanza. Uscito in settembre in inglese e il 12 novembre per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Norman Gobetti, Intermezzo è stato per me un graditissimo ritorno della Rooney “migliore” e, per certi versi, anche il debutto di una versione stilisticamente aggiornata dell’autrice. Se ripenso agli esperimenti di Dove sei, mondo bello mi viene il nervoso – chi non manda e-mail di dieci cartelle alle proprie amiche per discutere del declino della civiltà occidentale? Magari voi sì, ma a me era sembrata una soluzione estremamente posticcia e pretenziosa – e la grande speranza era di non ritrovarmi per le mani un nuovo romanzo che proseguiva tenace per quella china. Mi piace e mi è sempre piaciuto leggere Rooney per la capacità che ha di collocare le relazioni nel mondo, di esplorare gli spigoli della comunicazione fra gli esseri umani, di riprodurre i garbugli dell’identità e delle idee lungo il confine tra percezione “interna” e confronto con la realtà – e lì dentro ci finisce anche la politica, area d’azione da cui Rooney non si è mai sottratta, anzi. L’uscita di Intermezzo è stata massicciamente accompagnata da librerie che restano aperte di notte – spesso con veri e propri takeover degli spazi commerciali -, gadget, distribuzione anticipata di ambiti scatolotti a una ferrea lista di personalità rilevanti, gruppi di lettura e aggregazioni di varia e multiforme entità. La si aspettava con trepidazione, Sally Rooney… un po’ al varco, anche. E non credo proprio abbia deluso.

In Intermezzo il punto di vista è sdoppiato e parallelo e Rooney lo affida a due fratelli – Peter e Ivan. Il romanzo si apre con la morte del loro papà dopo una lunga malattia e tallona i due durante il periodo di “assestamento” che fa seguito a questo evento campale, doloroso e profondamente destabilizzante. Peter ha superato i trenta e fa l’avvocato a Dublino. Ivan ha una decina d’anni meno ed è stato un prodigio degli scacchi, disciplina in cui spera di poter tornare a primeggiare. Peter è un animale sociale di successo, Ivan legge meglio la scacchiera delle persone. Peter è bello e balla, Ivan è bello ma non balla per niente, per metterla giù in maniera un po’ triviale ma diretta. Peter ha avuto una lunga storia con una donna soave e intelligentissima, che è rimasta nella sua vita e nella sua testa come inscalfibile precedente di perfezione, mentre Ivan non ha ancora collezionato un numero ragguardevole di esperienze, anzi. Entrambi, nel loro periodo di “intermezzo” tra la vita che hanno conosciuto e quella che devono ricostruire dopo il lutto, attraversano disastri, nuovi incontri, nuovi specchi in cui provare a riconoscersi o a sputarsi in faccia. Così, tanto per infarinarvi e fornire un piccolo quadro della situazione.

Rooney ha raccontato di aver cominciato il romanzo in una fase di profonda vicinanza con l’Ulisse di Joyce. E si sente. Se siamo stati più abituati a considerarla un’autrice che con le parole non produce prodezze particolarmente funamboliche ma un’autrice che si legge perché può intrigarci come fa pensare e come fa interagire i personaggi, in Intermezzo succede qualcosa in più. La pagina somiglia alla testa dei personaggi e, qui, ci sono due teste che funzionano in maniera peculiare e distinta – e, a tratti, smettono proprio di funzionare e si avvitano in spirali di disordine e reazioni viscerali. Insomma, trovarsi per le mani (soprattutto) Peter è un’esperienza nuova e molto ricca. Lì per lì può spiazzare, ma seguitelo anche quando barcolla.

Di amore, intimità, sesso, disperazioni, passi in avanti stilistici, dinamiche relazionali, differenze d’età, SANTI NUMI COSA NE PENSERÀ LA GENTE, Irlanda centrale e periferica, morale cattolica, senso di colpa, famiglia, pochi scacchi e molto altro abbiamo discusso anche in Mondadori Duomo qua a Milano il giorno dell’uscita di Intermezzo. Nella chiacchierata trovate Stefano Jugo di Einaudi a moderare – perché non contento di avermi avuta come vicina di scrivania per qualche anno capita che mi rievochi come un Pokémon leggendario -, Ilenia Zodiaco e Carlotta Sanzogni. Eccoci qua per un’oretta:

Ci illudiamo spesso di poter esistere (e amare) in uno spazio del tutto impermeabile alle influenze esterne. Il nocciolo del nostro sentimento abita quasi certamente su un pianeta lontanissimo e protetto, ma le relazioni sono anche fatte di orbite, collisioni imprevedibili e crateri antichi. E quello che proviamo, a volte, non resiste al richiamo della gravità, perché attorno a noi ci sono forze che non riusciamo (o non vogliamo ancora) contrastare.

BASTA HO FINITO NON LA SFORNO PIÙ UN’ALTRA METAFORA COSÌ.

Elaboriamo meglio, però.

Il secondo romanzo di Sally Rooney – autrice irlandese di freschissima gioventù che ha esordito più che benone con Parlarne tra amici – racconta la storia assai tribolata di Connell e Marianne. Cresciuti nella medesima cittadina irlandese senza particolari attrattive, i due conducono esistenze diametralmente opposte, se vogliamo proprio semplificarla molto. Connell non ha mai conosciuto suo padre ed è figlio di una saggia e piacevolissima donna che l’ha avuto a 17 anni e che ora si guadagna da vivere facendo le pulizie. È sveglio, sensibile, riservato e ansioso di compiacere il suo prossimo. Non naviga nell’oro, ma a scuola è fra i più popolari e milita onorevolmente nella squadra di calcio. Marianne viene da una famiglia ricca e disastrata, non ha amici, non mette praticamente mai il naso fuori dalla magione in cui risiede, è molto intelligente e non ha alcun interesse per le opinioni altrui. I compagni di scuola la percepiscono come una specie di inspiegabile anomalia e la trattano con aperta ostilità.
E dove mai potrà stabilirsi un punto di contatto tra due creature così lontane, che a scuola manco si parlano? Ma nella cucina di Marianne, perché la mamma di Connell fa le pulizie a casa sua. E quando non hai la patente, è tuo figlio che ti passa a prendere.

Quello che capita dopo è complicato, toccante, cervellotico e spezzacuore. La Rooney sceglie di narrare le vicissitudini di Connell e Marianne illuminando di volta in volta un momento nodale del loro rapporto. E se le basi vanno fatte risalire alle poche battute scambiate in cucina, la loro storia si rivela però una lunga matassa che si srotola negli anni, nonostante tutto. All’inizio assistiamo all’edificazione di un piccolo microcosmo, in cui entrambe le parti – solo lì – riescono ad esprimere senza sovrastrutture la propria vera essenza. Ma cosa diranno gli altri? E se qualcuno a scuola lo scoprisse? Ma ne vale la pena? Si tratta pur sempre di Marianne. E Marianne sta sull’anima a tutti. Che figura ci faccio?
Ecco.
Tutte le ferite (più o meno gravi) e i non detti (o i detti male) che Connell e Marianne accumulano con il passare del tempo, mentre cercano di venire a patti con le aspettative degli altri e con la gestione già intricata di suo di un sentimento che muove i primi passi, vengono inevitabilmente a galla. E, nonostante i contesti “sociali” si capovolgano con l’inizio dell’università, quel che azzoppa e separa non sparisce, ma cambia forma, diventando man mano più insidioso. Gli errori che facciamo “da piccoli”, i grandi sbagli che ci sembrano lì per lì irreparabili diventano ricordi ed entrano a far parte del nostro bagaglio. Anche Connell e Marianne li ridimensionano e ne prendono le distanze, ma riescono a liberarsene fino a un certo punto. E portano con loro, di periodo in periodo, quello che sono in quell’istante… ma anche quello che erano. Inseguono felicità forse mai più riproducibili, si lasciano avvicinare da persone nuove – che possono vedere solo il loro lato “presente” -, si accontentano e camminano con le proprie gambe. Ma sono e saranno sempre una rivelazione, l’uno per l’altra. Ed essere stati visti per davvero, almeno una volta, è un evento raro e quasi irripetibile.

Oh, credo di aver finalmente trovato una soluzione alla difficile questione del “mi consigli una storia d’amore”. Non è un libro dal romanticismo travolgente. Non è nemmeno un libro consolatorio. È una riflessione lucida – a due voci, principalmente – sulla spigolosità degli incastri sentimentali. E non si risparmia sul fronte del dolore, sia quello che cerchiamo di non infliggere agli altri – nel tentativo di essere persone decorose – che quello che cerchiamo consapevolmente. E la Rooney è bravissima nel far crescere Marianne e Connell senza privarli di quello che hanno raccolto – o perso – lungo la strada. Ho sempre amato le storie che mi permettono di vedere, quasi in contemporanea, quello che succede nella testa dei personaggi. E come quello che sanno o che credono di aver capito trasformi il resto del mondo. E, per quanto in Normal People il peso delle considerazioni sugli “altri” e sul contesto sia fondamentale a dar forma alla storia, Connell e Marianne non ne escono sopraffatti. Fanno quello che facciamo tutti, credo. Provano a capire come districarsi. Provano a tornare sul loro pianeta, anche dopo una fitta tempesta di asteroidi.

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