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Di Juniper & Thorn avevo cominciato a sentir parlare durante il vivacissimo BUZZ di lancio di Ne/oN – l’imprint di schieramento fantastico delle Edizioni e/o -, ma mi sono convinta a procedere solo dopo averlo ritrovato nella Ghinea di dicembre, ben sviscerato nel pezzo di Diletta Crudeli. Non mi aspettavo di certo una garrula passeggiata per i prati, ma sono rimasta comunque piuttosto sorpresa dalla piega gore che accompagna la parabola di Marlinchen e delle sue sorelle. Nell’economia generale della faccenda, però, quella crudeltà così fisica e pesante ha perfettamente senso, quindi mettiamocela in saccoccia e pedaliamo.

Che succede?
Partendo da una fiaba dei fratelli Grimm – già di loro più che avvezzi alla truculenza, pienamente espressa nel Ginepro -, Ava Reid costruisce un altrove che richiama l’Est Europa, in bilico tra antichi e nuovi paradigmi. La città di Oblya, come racconta anche Reid in questa succulenta intervista, è ispirata all’Odessa del primo Novecento, la perla di un impero in cui sono confluiti popoli diversi, tradizioni radicate e impulsi rivoluzionari di industrializzazione e modernizzazione.
In questo posto liminale e ribollente, l’ultimo stregone del regno vive con le sue tre figlie in una casa totalmente separata dalla società, in una sorta di bolla in cui sopravvivono i valori e i codici del vecchio mondo. Zmiy Vashchenko ha spazzato via la sua unica concorrente, trasformandola in un vomitevole grumo di serpi ma, prima di lasciarsi sopraffare, la temibile Titka Whiskers l’ha maledetto: dormirai ma non ne ricaverai alcun ristoro, mangerai ma continuerai ad aver fame, sarai attorniato dalle tue figlie ma non saprai più nutrire alcun affetto per loro!
La maledizione funziona a meraviglia e lo stregone perdurerà tra mille tormenti, asserragliato nella sua fortezza come il relitto di un universo destinato a scomparire e campando sostanzialmente alle spalle delle tre sorelle, streghe anche loro. Le maggiori sono bellissime – Undine prevede il futuro guardando in uno stagno che le restituisce il suo magnifico riflesso, mentre Rosenrot è un’erborista straordinaria – mentre l’ultima, Marlinchen, divinatrice della carne, non ha niente di speciale. Anzi, le viene continuamente ripetuto che è brutta, sgraziata, ordinaria e indegna d’amore.
Tutte e tre ricevono a ripetizione clienti in cerca di prodigi e, per pochi soldi, mandano avanti la baracca, di fatto prigioniere dei capricci e delle imposizioni del padre, che servono senza devozione alcuna ma nel perenne terrore che possa rendere le loro vite ancora più insostenibili. Marlinchen fa la serva per tutta la famiglia, tollerando angherie costanti, le intemperanze dei mostri che popolano il giardino e anche il peso di un potere che le permette solo di mostrare quel che c’è e mai di mutare concretamente la realtà, anche se molto ce ne sarebbe bisogno.
È davvero possibile, però, stritolare a tal punto l’orizzonte da soffocare ogni slancio verso la libertà?  Vashchenko è un tiranno che amministra con grande talento manipolatorio il suo controllo sulle figlie. Non solo le limita fisicamente, confinandole alla casa e al giardino, ma fa tutto quel che può per lasciarle nell’ignoranza, sia della storia che della contemporaneità. I poteri delle tre sorelle sono innati e “funzionanti”, ma lo stregone li dipinge in pianta stabile come ridicoli, in confronto ai suoi. Non trasmette alcuna conoscenza, non offre spiragli o futuro. Soddisfare i bisogni del padre – la fame incessante dello stregone ha la precedenza su tutto – è l’unico compito ammissibile, per le tre sorelle. Ma Vashchenko sarà abbastanza formidabile da tenerle rinchiuse per sempre?

Il romanzo di Reid è ricchissimo di stratificazioni. Ci si può cercare dentro l’alba dell’industria e del sapere “scientifico” che spazza via la superstizione per proporre un avvenire luminoso – almeno per i pochi che stanno in cima alla catena alimentare. Lo si può vedere come una mastodontica operazione di gaslighting e di violenza domestica sistematizzata, la si può leggere come una storia di riscatto e di liberazione a carissimo ma necessario prezzo, fatta di alleanze innaturali e di sopraffazioni meschine. Marlinchen è l’anello di congiunzione tra mente e corpo, un po’ perché il suo potere legge nella carne quello che per il pensiero è quasi impossibile da sopportare, ma anche perché è sulla sua pelle e nella sua coscienza che si compie la trasformazione più drastica, agghiacciante e decisiva. Ci si salva quando si smette di vedere (e di vedersi) con gli occhi di chi vuole tenerti buona, si decide per sé quando si trova il coraggio di immaginare quello che ti è stato portato via.

Insomma, Juniper & Thorn ha saputo atterrirmi più per l’atmosfera ricattatoria e bieca di casa Vashchenko – e del luccicante teatro di Oblya – che per le secchiate di sangue che a più riprese mi sono arrivate in faccia. Se siete in cerca di un bel groviglio da interpretare, cattivo come una fiaba classica ma assai più capace di parlare al presente, accostatevi con coraggio al cancello dello stregone. 

[Juniper & Thorn si può leggere nella traduzione di Giorgia Demuro per Ne/oN e si può anche ascoltare su Storytel, come ho fatto io. Un collaudo? Ecco qua il solito mesetto di prova gratuita.]

A cosa serve la storia? Dipende. Sapere da dove veniamo può indicarci con più chiarezza la strada verso il futuro, impartendoci sonore lezioni e fornendoci strumenti preziosi, nella speranza di non ripetere tragici errori. Approfondire le proprie radici collettive può rendere il presente più comprensibile, spingendoci ad affrontare il domani con solide consapevolezze e granitici punti di riferimento. Decifrare il passato per spiegare l’oggi, insomma, con l’auspicio che all’orizzonte esista un domani “migliorato”, più giusto e trasparente, più ricco e felice. Queste interpretazioni ottimistiche e speranzose non tengono però conto di molti chi. In Suoni ancestrali di Perrine Tripier – in libreria per E/O con la traduzione di Alberto Bracci Testasecca – la “fonte” di un improvviso slancio collettivo verso l’approfondimento storico si rivelerà cruciale. 

Ci troviamo in un nebuloso regno marittimo governato da un imperatore teatralissimo e troppo fanciullesco per destare sospetti di particolare pericolosità. Il regno è dotato di una società ordinata, di università e di una popolazione poco incline ai colpi di testa. Non si capisce bene che cosa s’insegni a scuola, però, visto che il regno sembra non conoscere le proprie reali origini. Ci sono miti e filastrocche, ma i testi e i reperti consultabili coprono un arco temporale non troppo remoto e su cosa sia capitato prima c’è ancora del gran mistero. Il Dipartimento di Storia tormenta da anni la costa sabbiosa, cercando non si sa bene quale antenato. Un bel giorno, però, una duna ingiustamente snobbata restituisce una città… e dona un’occasione d’oro all’imperatore. Che si tratti della capitale perduta dei Morgondi, i leggendari avi del nostro popolo? I valorosi guerrieri delle fiabe sono tornati per indicarci la via!
L’imperatore alza le tasse, convoglia una barca di soldi agli scavi e pesca la più autorevole delle archeologhe/storiche del Dipartimento per documentare le operazioni e per riferire in regolari bollettini pubblici i progressi dello squadrone. L’imperatore desidera tantissimo che i guerrieri che hanno fin a quel momento riposato in mezzo a conchiglioni sonori, gabbie toraciche di balene immani, colonnati meravigliosi e spade cesellate siano proprio i Morgondi che intende lui – valorosi eroi, sapienti giustizieri di mostri, antichi parenti di cui andar fieri e che, col loro fulgido esempio, possano restituire ulteriore lustro al regno… e alla sua notevole persona. 

Martabea, che di solito piglia seriamente il suo lavoro e che, al contrario dell’imperatore, viene dalla campagna e ha sempre sperato di potersi emancipare dal pantano delle sue origini, viene installata in un villone, spesata, servita e coccolata. Certo, ogni tanto le tocca infilare una frase goffa e pomposa dell’imperatore nelle sue cronache, ma le pare un prezzo relativamente piccolo da pagare per far parte di quell’impresa gloriosa, che tanto pare già giovare al regno e parecchio anche alla sua carriera. Il popolo gioisce di ogni scoperta, i Morgondi sono stupendi, lode all’imperatore!
C’è dell’altro, però? Purtroppo sì. 

Tripier affida a Martabea un compito ingrato. La rende inevitabilmente sensibile alle lusinghe di un insperato privilegio e le sbatte poi in faccia una verità che polverizza ogni umana decenza. Non vi racconto cos’altro troveranno, nella città dei Morgondi, ma facciamoci bastare un’osservazione basilare: può capitare, nella peggiore delle ipotesi, che la storia sia di chi la scrive. In questo libro, così come spesso è capitato anche “fuori”, nel mondo che conosciamo noi, il materiale storico è interpretabile come leva di potere e di controllo. I miti sono formidabili e la nostra suggestionabilità, di fronte una “bella storia”, è una tentazione più che ghiotta e un terreno competitivo prezioso. Si sceglie cosa raccontare e a chi, si sceglie cosa omettere e cosa distorcere. Si sceglie per convenienza, compromesso, paternalismo – perché un buon imperatore sa sempre che cosa è meglio per il suo fiducioso popolo. Martabea si muove lungo il confine scivoloso che separa la verità dalla propaganda, i fatti dalle fandonie strumentali. Cosa sarà disposta a sacrificare?

Suoni ancestrali è un oggetto intrigante. Si legge alla svelta e non vi donerà particolari stupori a livello di scrittura o guizzi strutturali, ma funziona se ci si lascia interrogare. Martabea e la manciata di personaggi che la circondano sono piccoli segnaposto e “simboli”, più che esseri umani dotati di rotondità. Che siano così – e che anche il contesto sia sbozzato – può bastarci, perché il punto non è il “chi” e non è il “dove”, ma quel che conta è che la storia, morgonda o meno, possa diventare manipolabile. E che esista sempre, da qualche parte, qualcuno a cui conviene credere alla versione del più forte.

Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.

Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.



Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.

Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.

Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.

Ani e Bianca si sono avvicinate per rendere più sopportabile il presente e per ricostruire un’idea di famiglia, in un posto dove si arriva spogliate di legami pregressi, identità e futuro. Sono raccoglitrici di sale, prigioniere di un gigantesco campo di lavoro in cui centinaia di altre donne “indesiderabili” (e pericolose per il rigido ordine pubblico del regime) si spaccano la schiena in un susseguirsi di giorni sempre uguali, guardate a vista da sorveglianti armati e private di ogni prospettiva di fuga, cambiamento, libertà.
Fuori si sta peggio, si sentono ripetere. Qui almeno si mangia e abbiamo un tetto sopra la testa. Non siamo nessuno, ma siamo vive. E provvediamo all’approvvigionamento dell’unica risorsa energetica ancora disponibile… quale onore più grande può esistere? Rese inermi dalla fatica estrema e anestetizzate dalla paura, le donne del campo vivono in un limbo che cancella il tempo, piega la volontà e distorce la realtà… ma Ani e Bianca non hanno mai smesso di domandarsi cosa resti del mondo oltre i confini di quella prigione. E sarà la loro alleanza – sghemba come il loro modo di stare insieme, nonostante le differenze – a cambiare tutto e a spalancare nuovi scenari: si muore davvero quando si smette di sperare nella possibilità di cambiare le cose.

Non voglio spoilerare, perché meritate pure voi di godervi in santa pace i numerosissimi colpi di scena di Brucia la notte di Tiffany Vecchietti e Michela Monti – in libreria per Mondadori e in audiolibro su Storytel. Qualche tema lo nominerei, però.
Ci sono ragazze guerriere, ragazze rancorose, ragazze potenti e ragazze che si organizzano in nuovi modi antichissimi. Ragazze sradicate che resistono e provano a ripartire da un’idea di collettività che cerca di tornare umana, amica delle differenze e attraversata da prodigi insperati. C’è un’Italia “alternativa” e un’Italia leggendaria e mistica. È una storia che indaga il potere del pensiero – e la relazione ambivalente tra pensiero, autorità e comunità. È una storia di rivoluzione e di quanto “costa” credere in un’idea – o accettare quel che c’è scegliendo il silenzio. Che Bianca non stia mai zitta non è una coincidenza… e che Ani dica invece così poco – ma veda moltissimo – nemmeno. Spero le accompagnerete nel viaggio. Sarà lungo e difficile… ma tra strighe bisogna darsi una mano.

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

Le Barbie che dimorano a Barbieland sono convinte che nel Mondo Reale vada tutto a gonfie vele. E perché non dovrebbero? Rispondono a un intento di progettazione che le vuole amiche delle bambine, fonte di ispirazione per dimostrare loro che sì, possono essere tutto quello che desiderano. Sono bone e piene di talenti, non sono afflitte dallo scorrere del tempo e i loro tanti “mestieri” sono una dotazione genetica che – come la bellezza – richiede solo di esprimersi, giorno perfetto dopo giorno perfetto. Cordiali, sorridenti, allegre, canterine e capaci di campare sui tacchi – perché già di loro appoggiano il peso solo sulle punte – le Barbie vivono spensierate in un sogno collettivo realizzato e vincono Nobel a ripetizione, circondate da Ken che non hanno altro scopo se non quello di bearsi della loro vicinanza. Ma se si aprisse una crepa? E se quella crepa portasse la tragica domanda “ma che deve fare una donna oggi per cavarsela con dignità?”. Tutto, come Barbie. Ma nel Mondo Reale.

Gerwig affida a Margot Robbie la Barbie più neutra possibile. Anzi, la Barbie Stereotipo, quella non pensata per diventare pilota, fisica, presidente o chirurga, ma solo per incarnare lo standard della perfezione. Lei è lo stampo per tutte le altre, le contiene idealmente ma non ha altro da dare se non sé stessa – Barbie non ha bisogno di chiedersi se è “abbastanza [qualcosa]”, perché lei è tutto… e forse niente. Per proiettare un sogno ci vuole una tela bianca, ma Mattel – che nel film è un’entità corporate estremamente presente e anche disposta a stare al gioco e a farsi qua e là vituperare – ci sta vendendo una promessa realizzabile o sta contribuendo a farci sentire “peggio”?

America Ferrera, che abita nel Mondo Vero e fa la segretaria (?) del megaboss Mattel – Will Ferrell prosegue nella sua lunga carriera da Lord Business e qua è splendido, non tanto per “come fa” il megaboss ma per quello che Gerwig gli fa dire, trasformandolo nella macchietta di ogni CDA-staccionata che si crede avantissimo perché in azienda ci sono i bagni genderless ⚰️ – è un’ottima ambasciatrice delle nostre fin troppo tangibili menate. Lei, che per anni è stata Ugly Betty, conquista il titolo di Barbie Naomi Wolf ad honorem, restando umanissima e dicendo fuori dai denti quel che c’è da dire. Gerwig usa questa contaminazione fra donne e bambole per mettere in fila i concetti base del femminismo e, per quanto a mio gusto sia tutto un po’ TANTO didascalico, il risultato è salutare e anche molto divertente da vedere, proprio perché è satirico e “calcato”.

E Ken? Epico. Fin troppo, forse. Si ride praticamente sempre a sue spese, ma se Ken non scoprisse che nel Mondo Vero “comandano gli uomini” avremmo molto meno di cui discutere – e quasi niente da vedere, anche. Ryan Gosling non è contento, DI PIÙ. E per quanto il suo Ken resti drammaticamente un Ken – cosa che non accade a Margot Robbie, che ha la possibilità di far scorrere sulla plastica qualche lacrima sentita – pure lui è prigioniero. La cosa che forse mi ha fatto un po’ arrabbiare, nella parabola di Ken e dei Ken è che, in fin dei conti, sono ancora una volta le donne a doversi occupare di educarli. Ma probabilmente un altro dei grandi inghippi sta lì: a chi conviene cambiare le cose quando si ha il coltello dalla parte del manico?

Insomma, nel complesso ho amato. Ed è davvero interessante interrogarsi sui margini di manovra di “critica” che Gerwig tenta di esercitare. Mattel produce il film – oltre a fornire la materia prima per la storia – e, anche se presta il fianco a stoccate ben assestate, vien comunque da domandarsi quanto ci sia di strumentale in questo “vi sentiamo, donne! Sappiamo che negli anni abbiamo fatto i soldi vendendovi modelli figli del loro tempo! Ma ora eccoci qua!”. Sono dell’idea che retroattivamente ci sia poco da fare, se non acquistare consapevolezza di quel che è cambiato e del molto che ancora si può migliorare. E Gerwig ha sfornato quel che mi aspettavo, devo dire.

Note!
Colonna sonora nutritissima. Menzione d’onore a Dua Lipa che appare anche in veste di splendida Barbie Sirena – il suo Ken-tritone è JOHN CENA, in lizza per il cameo del secolo.
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Serve dire che i costumi e tutto il baraccone di Barbieland sono perfetti? Non serve.
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La promozione di questo film è stata lunga e MOLTO articolata. Ecco, fate conto che la prima metà del film l’avete già vista nei 2000 trailer, meme e frattagline pro-hype di questi mesi. Bastava meno, secondo me.
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BARBIE STRAMBA TVB.

l tempo che impiegherete per pensarci su sarà incomparabilmente maggiore del tempo che vi occorrerà per leggere Una giuria di sole donne di Susan Glaspell – in libreria per Sellerio con la traduzione di Roberto Serrai e due bei contributi di Alicia Giménez-Bartlett e Gianfranca Balestra.
È un racconto uscito in origine nel 1917 – e che ha avuto anche un’emanazione teatrale – e recuperato poi dal un certo oblio a partire dagli anni Settanta, a sostegno dello slancio del dibattito femminista. Di che parla? Di un delitto e di un’indagine insolita e assai innovativa per l’epoca di riferimento – e forse anche per la nostra.

Un uomo viene ritrovato morto in una casa isolata. La moglie viene arrestata e altre due donne approdano sulla scena del crimine per prepararle un valigino con l’occorrente per il “soggiorno” in cella in attesa del giudizio. Sono la moglie dello sceriffo e del fattore che ha scoperto il delitto e arrivano in questa casa silenziosa, mesta e cupa insieme a un folto gruppo di inquirenti (maschi) che cercano di far luce sul mistero. Le donne vengono lasciate in cucina (dove tutto sommato ci si aspetta che stiano, visto che quello è il loro posto) mentre gli uomini si aggirano per casa in cerca di indizi, girando fondamentalmente a vuoto mentre le signore, analizzando i dettagli minuti in cui si imbattono, sbrogliano la matassa.

Mentre gli investigatori le trattano con condiscendenza – schernendo anche apertamente la loro “condizione” e non ritenendole neanche per un istante interlocutrici valide -, le signore risolvono il caso per immedesimazione, potremmo dire. Da una stufa crepata, delle conserve, un tavolo pulito a metà e un cestino del cucito ricavano un quadro della situazione che restituisce peso ai gesti minuti della quotidianità femminile e mostra, al contempo, quanto sia piccolo il mondo in cui l’indagata – come loro – è costretta a muoversi e quanto possa essere sterminata la solitudine che ci si insinua dentro.
Gli uomini non solo non ritengono la cucina degna di approfondimenti, ma nemmeno sarebbero in grado di leggere gli indizi come invece fanno in maniera lampante le due signore. E non solo risolvono il caso, ma prendono anche una decisione che spalanca un altro grande spazio grigio – quello che separa, a volte, la legge dalla giustizia.

Cosa ce ne facciamo della legge se i presupposti di base da cui partiamo per amministrare la giustizia sono fallati, sbilanciati e iniqui? In una cucina, unico spazio che possono governare e che parallelamente è la loro gabbia, le due signore allestiscono spontaneamente l’unica giuria equa alla quale la reclusa potrebbe ambire: quella delle sue pari, che la vedono, la sentono, la “conoscono”, perché il peso che portano è lo stesso. E i maschi non lo vedono – e non lo capirebbero.
È da leggere tenendo presente che è stato scritto nel 1917? Chiaro. È un racconto che continua a parlarci? Sì, anche se non so quanto rallegrarmene.

 

Dalla gestione domestica all’organizzazione della famiglia, dai compiti di “cura” alle operazioni basilari e ripetitive che garantiscono il buon funzionamento di una casa, con Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli) Annalisa Monfreda si interroga sulle corrispondenze generi-ruoli e sugli automatismi che tradizionalmente condizionano il nostro abitare la coppia, la famiglia, il mondo del lavoro e la dimensione collettiva.
Quale imperativo biologico dovrebbe rendermi più qualificata del mio partner a caricare la lavastoviglie?
In base a quali costrutti stratificati ci sono compiti “da donna” e incombenze “da uomo”?
Perché i “ti aiuto, basta che mi dici cosa devo fare” è una trappola, per quanto forse mossa da buone intenzioni?
Quali strutture di potere diamo per buone senza renderci conto dei confini che ci impongono?

Tra fonti autorevoli e cronache di scleri condivisibili, Monfreda esplora le radici del carico mentale – e delle disparità lampanti ma mascherate che il concettone nasconde – per provare a immaginare una prospettiva che affianchi alla basilare idea di ribilanciamento degli sforzi anche una comprensione meno “meccanica” delle fatiche.
Il perno continua ad essere la scelta, secondo me. Si può scegliere se ci sono alternative. Si può scegliere se esiste un margine di manovra e se resta energia da convogliare in una determinata direzione. Si può scegliere quando ci si rende conto che l’orizzonte dovrebbe essere comune – e raggiungibile da entrambe le parti in causa. Una riflessione sincera, utile, liberatoria e pragmatica che sarebbe bello non leggessimo soltanto noi… WINK-WINK.

[Bonus-track: Bastava chiedere di Emma, il fumetto che ha recentemente rianimato il dibattito sul carico mentale.]

 

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche.