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Parlare di come è strutturato questo libro credo produca più disservizi che chiarezza. Lidia Yukanavitch sceglie la metafora dell’acqua proprio per lasciar scorrere i ricordi, creare gorghi, lanciarci giù per una cascata o imprigionarci nella fanghiglia stagnante dei momenti più cupi. La struttura che sceglie – o da cui si fa trasportare – è fluida come la memoria, deformata dalle rifrazioni della luce e condizionata dalla profondità degli eventi che man mano riguadagnano la superficie.

Insomma, La cronologia dell’acqua – in libreria per Nottetempo con la traduzione di Alessandra Castellazzi – diventa lineare solo dopo averne preso le distanze e dopo averlo considerato “tutto insieme”. E mentre si legge ci si aggrappa a quello che fluttua. Ci aggrapperemo a bottiglie vuote, a mostri sacri della letteratura, a mariti perduti, a percorsi accademici tortuosi, a elaborati sex-toy, a una bicicletta nuova, a una collezione di ciocche di capelli… tutti questi detriti viaggiano verso alcune isole “stabili” che ospitano dolori imperdonabili, incorreggibili.

Grossolanamente, potremmo dire che la storia di Yukanavitch è quella di una bambina cresciuta in una famiglia disfuzionalissima e violenta. Di un precoce prodigio del nuoto che non ha mai raggiunto orizzonti eclatanti. Di un corpo portato al limite e consegnato a un disordine vertiginoso. Di una ricerca per spogliare la lingua e la scrittura dal gesso dell’accettabilità e del garbo. Di una madre che perde la sua bambina e sceglie di non rimettere insieme i pezzi.
Pare la cronaca di quel che resta all’indomani di un susseguirsi di disastri naturali, se là fuori esistessero disastri naturali circoscrivibili a una singola persona. C’è il trauma come tema portante – già, anche qui… ben giunte e ben giunti nella Grande Era del Trauma Letterario, movimento collettivo che ha forse contribuito a mantenere vivo e a costruire un ulteriore seguito per un libro originariamente pubblicato nel 2011 -, ma c’è anche una grande vitalità rabbiosa, una volontà di persistere che non sfida tanto le circostanze avverse o il destino, ma diventa sfida contro il proprio stesso buio.

Non è un libro gradevole da leggere, penso. Ha guizzi di grazia estrema e frequentissime ruvidità. Le parti legate al sesso e alle dipendenze non sono particolarmente scioccanti, secondo me – per quanto trattate con esplicita disinvoltura -, ma credo risultino depotenziate dalla nostra ormai crescente assuefazione al tema. E la scrittura che viene a galla in questi capitoli m’è parsa molto didascalica, molto apparecchiata per ottenere un effetto, molto più banale dell’auspicato. L’aspetto positivo è che in questo libro ci sono così tante Yukanavitch che di rado si rimane ancorati a un unico vascello espressivo e ci sta che le pulsioni più incontenibili vengano descritte col metro espressivo che corrisponde a un tempo preciso, che si tratti di adolescenza o di qualsiasi altro momento di violenta liberazione.

Non so se La cronologia dell’acqua abbia voglia di sottoporsi a un “mi è piaciuto”/”non mi è piaciuto”. Ha davvero poco senso domandarselo. É un libro tremendo, crudo, violento. Ma è un libro che persiste e ci riconcilia con i mostri, i rancori, le furie irrimediabili, gli abbandoni e le sconfitte. Fa speranza anche quando fa più schifo. Prova a fare arte per mostrarci come far crescere una pelle nuova. Prova a raccontare che si può ambire alla felicità anche se ci sentiremo per sempre danneggiati. Prova a descriverci uno spazio eterno – liquido – di trasformazione.

Partirei con un piccolo cappello introduttivo da ascoltatrice dell’audiolibro – se vi interessa sentirlo, lo trovate su Storytel.
Ho scoperto che i suoni che appartengono alla vasta famiglia ASMR risultano più gradevoli ed “efficaci” in base alla struttura del cervello dei potenziali riceventi. Io, per dire, non traggo giovamento alcuno dall’ASMR – anzi, mi fa venire il nervoso -, ma mi sintonizzo a meraviglia sull’onda sonora di Daria Bignardi che legge le sue cose. Sto gradualmente ascoltando tutto quello che trovo di suo perché, oltre a garbarmi mediamente molto quello che scrive, la trovo piacevolissima da sentire. Calma, calorosa, pacata ma non pallosa, lieve e garbata. Così, ci tenevo a sottolinearlo perché sono convintissima che il “successo” di un audiolibro dipenda anche da chi lo legge e da come lo si legge. 

L’evento cardine, in Non vi lascerò orfani, è la scomparsa della madre. Una morte meticolosamente ripercorsa che serve però da spunto per un allargamento dell’orizzonte – e forse anche della prospettiva e dei punti di riferimento, muovendosi nel territorio accidentato dei legami più stretti, di quell’ingombranza difficile (e qualche volta felice) che si portano dietro i vincoli di famiglia.
Nella perdita, Bignardi si scopre parte di un vorticoso sistema solare di relazioni, parentele e storie, attitudini disparatissime e conflittuali, ansie tentacolari e invadenze che non sempre si son potute interpretare come sani impulsi di protezione. C’era già tutto, chiaramente, ma per mettersi a raccontarlo serve talvolta una cesura netta, un evento rivelatorio, una vita “importante” che tramonta, lasciandoci a gestire quel che rimane.
Permettendo alla perdita di attraversarla, Bignardi tratteggia il paesaggio quotidiano della sua condizione di “figlia”: un lessico famigliare divertito e malinconico, che la distanza e una fisiologica pulsione d’indipendenza hanno saputo rendere meno intransigente.
Si può ricordare “bene” una madre accogliendone i limiti, tenendoci vicino tutte le difficoltà che ci ha buttato addosso perché non sapeva fare diversamente. Si cresce grazie a una serie di rinforzi positivi, sembra dirci questa storia, ma si cresce anche in opposizione a quello che ci è stato riservato. Ma si cresce, nostro malgrado. E, qualche volta, lo sguardo che va affinandosi nel tempo ci permette un’indulgenza che non sospettavamo di possedere – e che ci fa bene, nonostante quello che si è passato insieme.

 

Come parlare educatamente di soldi?
“1) Non parlarne.
2) Se ne parli, non essere specifico.
3) Minimizza quello che hai.
4) Enfatizza il fatto di averli guadagnati.
5) Non dimenticare mai che il lavoro è la storia che ci raccontiamo sui soldi.”
In questo memoir di economia “pratica” – tradotto da Chiara Veltri per Luiss -, Eula Biss sceglie di ignorare queste regole di buona creanza per parlare di soldi con insolita e corroborante franchezza, cercando di inquadrarci come agenti attivi che popolano un sistema collettivo fatto di scelte materiali, tempo e risorse scarse.
Cosa dicono di noi i nostri desideri? Quali parametri guidano le nostre decisioni di consumo? Dove possiamo tracciare il confine del privilegio? Qual è il nostro rapporto con le cose? Quanto costa decidere di essere “improduttivi”? Come si misura il valore dell’arte o del pensiero?

Partendo sempre da uno spunto di vita vissuta – che si tratti di bambini che commerciano carte dei Pokémon al parco giochi o di cosa accada all’economia domestica quando “vinci” il Genius Grant della fondazione Guggenheim -, Biss ripercorre in un susseguirsi di brevissimi capitoli le tappe della sua personale parabola di consumatrice pensante per interrogarsi sul potere dei soldi e sull’influenza che esercitano nello strutturare il nostro modo di concepire il lavoro, gli investimenti, le relazioni e la mobilità sociale. Possediamo casa nostra o di nostro c’è davvero solo il mutuo? È poi così disdicevole voler lavorare il meno possibile? Perché distinguiamo razionalmente il necessario dal superfluo ma non smettiamo mai di desiderare? Perché ogni nostro “progresso” pare verificarsi alle spese di qualcun altro? Da Virginia Woolf che maltratta la cuoca al potersi permettere un caminetto da 12.000$, Biss riflette sulla precarietà diffusa di un sistema che si nutre delle sue stesse estremità e che resiste vendendoci un sogno d’ascesa raramente corroborato dai fatti.

Va bene, ma è uno di quei libri paraculi che più che offrirci una riflessione su un problema trasversale, vero e pressante nasce come esercizio autoassolutorio fatto di grandi sensibilità esibite? A tratti l’ho pensato. Poi mi sono ricordata che scrivere un libro è un investimento molto precario. È ricerca costante di tempo, stanze tutte per sé e risorse che sostengano in anticipo la speranza futura che qualcuno paghi quel che stai facendo. Poche attività, forse, descrivono con esattezza quel che vuole raccontare questo libro come l’aver scritto questo libro. Perché, in un mondo dove sono i soldi a generare altri soldi, niente costa di più del tempo dedicato a qualcosa che forse non produrrà mai un beneficio monetizzabile.