Olivia Laing è diventata una delle portabandiera di un genere letterario ibrido, che riesce a trascinarci in uno specifico spicchio del pensiero/delle tribolazioni umane ma anche a procedere per deviazioni e ramificazioni, finendo per somigliare a una versione più limpida e più “a fuoco” del disordine stratificato del nostro modo di informarci. INSOMMA, uno spunto autobiografico (in questo caso si tratta di un periodo di acuta solitudine attraversato da Laing a New York, in seguito a un amore naufragato) non diventa solo un’indagine universale, ma anche il centro di una ragnatela fatta di arte, storia, urbanistica, antropologia, cronaca, tecnologia e performance.
In Città sola – in libreria per il Saggiatore con la traduzione di Francesca Mastruzzo – Laing risale alle radici della solitudine riportandoci nella Manhattan degli anni ’70 e ’80, quando Times Square non era ancora un parco giochi per turisti, l’AIDS cominciava a mietere vittime e la Factory era a pieno regime. Ripercorrendo la storia personale e artistica di Edward Hopper, Andy Warhol, Henry Darger e David Wojnarowicz – tra gli altri – Laing utilizza l’arte, il “visivo” e gli oggetti che ci lasciamo alle spalle per esplorare, molecola per molecola, la struttura dell’isolamento, dello stigma, dell’invisibilità e del vuoto pneumatico in cui, in modo più o meno irreversibile, possiamo scivolare… ritrovandoci in un posto insospettabilmente affollato.
In tutta sincerità, Olivia Laing mi ha fatto venire una gran voglia di convertirmi eternamente alla narrative non-fiction. E di comprare tende più spesse da mettere alle finestre.
Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.
Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.
Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.
Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.
Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.
Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.
Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.
McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.
Paulina Bren – docente al al Vassar, aspetto assai suggestivo in questo frangente – ricostruisce in Barbizon Hotel la lunga storia di un luogo simbolo della Manhattan novecentesca. Il Barbizon, fondato nel 1927 nell’Upper East Side e definitivamente trasformato nel 2007 in un condominio di lusso, è nato e a lungo ha prosperato come albergo-residence per sole donne.
Concepito come luogo sicuro per le giovani (più o meno provinciali ma immancabilmente referenziate e benestanti) che sbarcavano a New York per studiare o lavorare, il Barbizon ha attraversato decenni di stravolgimenti socio-economici arroccandosi in una sorta di bolla ideale che si è spesso dimostrata emblematica nella descrizione di “come se la cavavano le donne” in un determinato momento storico, dall’istruzione al mondo del lavoro, dai canoni di bellezza alla sessualità.
Il libro è un meticoloso resoconto di rifacimenti strutturali e organizzazione interna, ma procede soprattutto come cronaca sociale, per quanto incipriata e a volte un po’ stucchevole nella reverenza tributata alla “fama” delle non poche illustri residenti. Al Barbizon hanno infatti mosso i primi passi personalità destinate a entrare nell’immaginario collettivo – Joan Didion, Grace Kelly, Sylvia Plath… -, ma anche una schiera di Signorine Nessuno che cercavano a New York uno spazio d’indipendenza e autoaffermazione, staccandosi da contesti più periferici in cui il matrimonio era ancora l’unica strada percorribile e decorosa per una ragazza perbene. Quindi sì, il Barbizon – con tutti i suoi annessi e connessi cittadini – come specchio aspirazionale, ma non di certo simbolo universale del destino alla portata di ogni ragazza americana. Anche in questo baratro che separa realtà e proiezioni da sogno si agita la complessità simbolica dell’albergo.
La parabola del Barbizon è indissolubilmente legata a quella del sogno americano – e di Manhattan come centro sperimentale alimentato da potere e soldi “nuovi” – e ampio spazio è dedicato al programma per tirocinanti organizzato annualmente dalla rivista Mademoiselle e che per tante studentesse del tempo rappresentava un traguardo quasi utopico, tanta era la carica di promesse che custodiva. Le tirocinanti alloggiavano ovviamente al Barbizon, che garantiva sia “rispettabilità” che il giusto grado di glamour universalmente attribuito a un magazine di moda di quel calibro. Il Barbizon, insomma, contribuiva a vendere il sogno promesso da Mademoiselle e, per molte, la rivista si è effettivamente dimostrata un vero trampolino di lancio. La vita di redazione e le scelte editoriali che si sono succedute negli anni sono, al pari dell’albergo, un’efficace chiave di lettura per inquadrare le contraddizioni onnipresenti che in ogni tempo ci hanno condizionate. Un magazine nato per rappresentare la “ragazza moderna” è stato sia specchio per l’esistente che precursore di un modo nuovo di raccontare la quotidianità delle donne, in un continuo gioco di rimandi e nuovi modelli comportamentali da inseguire o commentare in presa diretta.
Al di là degli aneddoti sulle residenti “famose”, insomma, quel che di prezioso possiamo rilevare è questa sorta di ritratto in movimento di una moltitudine di ragazze alle prese con tentativi di emancipazione – più o meno favoriti dal contesto, come sempre -, soldi, conformità a modelli comportamentali e indipendenza, dalla flapper fieramente scandalosa ed eccessiva alla “modella-operaia” che cerca di massimizzare le risorse a sua disposizione, dall’emergere di un’economia di guerra che esorta le donne a contribuire allo sforzo produttivo collettivo fino al ritorno forzato alle faccende di casa dopo la fine del conflitto – perché i posti di lavoro spettano di diritto agli uomini, ora che sono tornati dal fronte.
Tra copriletti trapuntati, un dress-code non particolarmente progressista e una caparbia e prolungata segregazione razziale – per quanto mai dichiarata apertamente -, il Barbizon è stato un microcosmo che nel bene e nel male ha sintetizzato i confini realistici di quello che alle donne era consentito immaginare in termini di identità e ambizione. E, come abbiamo già scoperto con La campana di vetro – la rivisitazione romanzata del tirocinio a Mademoiselle e della permanenza al Barbizon di Sylvia Plath – non è detto che se ne esca indenni, realizzate, integre… o che le promesse vegano mantenute.
[Hotel Barbizon si può leggere nell’edizione di Neri Pozza – con la traduzione di Maddalena Togliani – o si può ascoltare su Storytel, come ho fatto io. La lettura è di Cristina Del Sordo.
Se volete collaudare Storytel, ecco un link per usufruire di un periodo di prova gratuito di 30 giorni, invece delle canoniche due settimane.]
Dunque, Amore del Cuore è sopravvissuto brillantemente a ben due addii al celibato – nelle città di Berlino e Praga -, ma sembra aver perso la capacità di prosperare negli ecosistemi urbani dove abitualmente risiede. Negli ultimi due giorni è stato travolto da una macchina mentre viaggiava placidamente in motorino dalle parti di Sesto San Giovanni e punto da un calabrone nella libreria Mondadori di Piazza Duomo. Un weekend spaventoso. Sono dovuta correre al pronto soccorso di CINISELLO BALSAMO e ho trovato Amore del Cuore su una specie di tavolaccio di metallo, tutto pieno di cerotti e di collari, in mezzo a una moltitudine di persone afflitte da ogni genere di orrori. Coi neon tremolanti e manco un ortopedico in ospedale.
AAAAHHHHH!
Lo sgomento!
È andata comunque bene.
Il motorino è distrutto, ma Amore del Cuore ne è uscito vincitore. È ammaccato ma intero, ed estremamente di buon umore. Visto che era vivo, poi, abbiamo festeggiato ordinando una tonnellata di maki al salmone. Nel dubbio, però, mi sto informando su dove si possa comprare o affittare un San Bernardo di salvataggio che lo accompagni in giro in mia assenza. Perché ormai sono terrorizzata. Lui era terrorizzato al pensiero di dover attraversare gli Stati Uniti con me al volante, ma il dottore che gli ha guardato le lastre non ha visto fratture… e dovrebbe poter guidare in santa pace. Il che, a livello di salute pubblica, è un bel vantaggio.
Amore del Cuore ringrazia sentitamente tutti quanti per gli incoraggiamenti e le grida di preoccupazione.
…ha dei ditoni buffi, Amore del Cuore.
Un po’ perché ho bisogno di parlare di cose allegre e un po’ perché mi piacerebbe ricevere qualche buon consiglio da chi magari ha già fatto il girone meraviglioso che ci accingiamo a fare noi – sempre che ci arriviamo senza ulteriori incidenti -, mi accingo ad appiccicarvi qua da qualche parte l’itinerario del nostro strabiliante viaggio di nozze.
Perché tutte le sofferenze patite durante le Matrimoniadi dovranno pur servire a qualcosa.
Ce l’ha organizzato un uomo leggendario, uno che qualche tempo fa è capitato in Corea del Nord e ha vinto i campionati nazionali di tiro alla fune. Io non so come abbia fatto e non so neanche il perché, ma è una cosa che mi piace dire. Contrariamente al fascino travolgente di Cippo – che vive e prospera IN Ancona -, il sito/lista nozze dell’agenzia non è altrettanto figo. Il che è molto ingiusto, ma si può sempre rimediare qui nelle verdi Tegamini-praterie, con un itinerario super schematico ma arricchito oltre ogni immaginazione da una disordinata ed eterogenea selezione delle cartoline più trash che mi è capitato di scovare.
Saremo ben contenti di ricevere suggerimenti. Fate un po’ come vi pare: procedete per città, per area geografica o per percorso (che ne so, se lungo la strada c’è la Padella Antiaderente Più Grande Del Mondo segnalatecela con grande entusiasmo). Se avete fatto cose strane (caccia al coyote o robe così) o mangiato qualcosa di incredibile, non vergognatevi e rendete partecipi tutti quanti. Bonus gratitudine per le segnalazioni a base di animalini teneri.
E il nostro viaggio è questo qui, da posticino a positicino.
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IL COAST TO COAST DEL CUORE
Giorno 1 – MILANO >>> volavola >>> NEW YORK
Giorno 2 – NEW YORK
Giorno 3 – NEW YORK
Giorno 4 – NEW YORK >>> volavola >>> NEW ORLEANS
Giorno 5 – NEW ORLEANS
Giorno 6 – NEW ORLEANS >>> brumbrum >>> HOUSTON
Giorno 7 – HOUSTON >>> brumbrum >>> DALLAS
Giorno 8 – DALLAS >>> brumbrum >>> AMARILLO
Giorno 9 – AMARILLO >>> brumbrum >>> SANTA FE
Giorno 10 – SANTA FE >>> brumbrum >>> MOAB
Giorno 11 – MOAB
Giorno 12 – MOAB >>> brumbrum >>> MONUMENT VALLEY >>> brumbrum >>> PAGE
Giorno 13 – PAGE >>> brumbrum >>> BRYCE CANYON
Giorno 14 – BRYCE CANYON >>> brumbrum >>> GRAND CANYON
Giorno 15 – GRAND CANYON >>> brumbrum >>> LAS VEGAS
Giorno 16 – LAS VEGAS >>> brumbrum >>> SAN DIEGO
Giorno 17 – SAN DIEGO
Giorno 18 – SAN DIEGO
Giorno 19 – SAN DIEGO >>> brumbrum >>> LOS ANGELES
Giorno 20 – LOS ANGELES
Giorno 21 – LOS ANGELES >>> brumbrum >>> SEQUOIA NATIONAL PARK >>> brumbrum >>> VISALIA
Giorno 22 – VISALIA >>> brumbrum >>> MONTEREY >>> brumbrum >>> SAN FRANCISCO
Giorno 23 – SAN FRANCISCO
Giorno 24 – SAN FRANCISCO
Giorno 25 – SAN FRANCISCO >>> volavola >>> Milano
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Spero con tutto il cuore che mi paghino ogni genere di traduzione arretrata, così sperpererò i sei euro che ho in banca per tutti gli Stati Uniti. Gli stivalini rosa da cowgirl sono la prima scemenza della lista. Mi raccomando, suggeriteci e consigliateci, che siamo estremamente stanchi, variamente contusi e troppo innamorati per connettere.
Dopo aver abbandonato la casa di MADRE e papà, ho abitato – certe volte per poco e certe volte per molto – in tre grandi e nobili città. Le metropoli in questione sono New York, Torino e Milano.
A New York ci sono rimasta per tre mesi, che poi ti scade il visto turistico, che è quello che scegli di usare quando sei una stagista che deve tornare in Italia per laurearsi. A New York abitavo in un posto surreale e struggente, una specie di palazzo per femmine che studiano e lavorano, vicino alla Penn Station e al Madison Square Garden. Si chiama Webster Apartments, ed è una via di mezzo tra un college, un albergo, una casa di tolleranza e un ospizio. Pagavi poco meno di mille dollari al mese e avevi la tua stanza, la colazione, la cena e le pulizie. Mille dollari al mese possono sembrare una bestemmia, ma per gli standard abitativi della sfarzosa Manhattan è praticamente un dono del cielo.
Il Webster era stato inventato negli anni Venti dal signore dei grandi magazzini Macy’s, come rifugio sicuro e accogliente per le giovani donne volenterose che si spostavano nella Grande Mela per inseguire i propri sogni. Io ci sono stata nel 2009, e il regolamento era ancora quello degli anni Venti. Gli uomini li potevi far entrare, ma non salire ai piani. Ci potevi bere un tè nei salotti comuni, li potevi far venire giù a mangiare, ma se un maschio tentava di prendere un ascensore per avventurarsi nella tua camera, veniva giustiziato sul posto da un energumeno russo. Insomma, scopare era categoricamente proibito, in compenso – però -, si potevano fare un sacco di altre cose pericolose e infiammabili, tipo fumare in stanza, gettarsi dal tetto, far scadere scatole di cereali nell’armadio, fare la cacca nei bagni comuni o decidere di abitare in quel posto per tutta la vita. C’erano ragazze giovani e piene di speranza tipo me e poi c’era un plotone di settantenni e ottantenni col deambulatore. C’erano divorziate rancorosissime che non sapevano dove altro andare. C’erano matte che non uscivano mai dalla loro camera.
Comunque, a parte l’assurdità della situazione, una roba che non ha mai creato problemi è il bucato. Sul mio piano c’era la lavanderia e te andavi col tuo sacco pieno di roba puzzolente, pigliavi un misurino dell’economicissimo detersivo Tide e cacciavi tutto nella prima lavatrice libera. Poi ti ritiravi nella tua stanza, facevi un po’ di sudoku e, dopo un’oretta, tornavi indietro e traghettavi i tuoi poveri panni nell’asciugatrice. E avevi fatto il bucato. Piegavi e via, i tuoi sei metri quadri di spazio vitale erano salvi.
Poi, niente, mi sono trasferita a Torino. Quartiere San Paolo, una camera da letto che ci stava dentro solo il letto, un minibagno, un minicorridoio e una cucina-ingresso-stanza-per-vivere-quando-non-stai-dormendo. Dopo un annetto e un po’, mi sono spostata verso il centro (si sa, quando si fa una carriera travolgente nel settore dell’editoria è importante abitare vicino ai bar) e ho perso una stanza. Quella casa lì era grande come camera mia a Piacenza e, volendo, potevi pure ribaltare il letto dentro al muro, tipo Quagmire. Non c’era nessun posto dove andare, in quella casa. E continuavo a non avere un balcone. Lì almeno c’erano due finestroni che facevano entrare un po’ di luce, ma mica potevo attaccare un bastone alla ringhiera e stendere le mutande col pizzo su Corso Re Umberto. Quell’anno lì mi si congelò la caldaia e, tempo dopo, augurai la morte alla padrona di casa, tra me e me. Avete presente quelle quarantenni che vanno a fare la piega ogni due giorni, non hanno bisogno di lavorare, sono sempre stressatissime perché devono andare a prendere i bambini a scuola (e basta) e si strappano gli adduttori al corso pomeridiano di zumba? Le mamme ricche con le Hogan. Non affittate mai una casa da una mamma ricca con le Hogan. Se hai un problema non ti sapranno aiutare, ma ti faranno le pulci sul tubo della doccia. “Guardi, signora, le lascio in casa una libreria e una scarpiera… il docciatore, con tutto il rispetto, costa 8 euro e ci può anche pensare da sola”. La mamma ricca con le Hogan ti fa un favore ad affittarti la casa, lo fa di malavoglia, fingerà di aver imbiancato e ti vesserà con ogni genere di pidocchioso adempimento (spesso facoltativo)… ma non lo fa perché sa che cosa sta succedendo o perché ci tiene. Lo fa perché glielo ordina un sadico agente immobiliare che il marito le ha messo vicino, ben sapendo di aver sposato una cretina.
Comunque, ora abito a Milano e la nostra padrona di casa è una nobildonna genovese con tredici cognomi che, periodicamente, mi chiede di mandarle delle foto del mio gatto. E’ una persona adorabile. L’antica nobiltà sconfigge le parvenu con le Hogan 1789 a 0. Ha delegato tutto – di sua sponte – a una solerte agenzia che, in caso di rogne – per ora ci si è liquefatto un lavandino IKEA, con conseguente accumulo d’acqua che ha fatto corrugare il parquet della cucina, creando un sorprendente effetto zattera-pirata – interviene con piglio e decisione. La signora Eliodora, dopo aver riconosciuto che, in effetti, poteva scegliere un lavandino migliore e/o far montare un lavandino mediocre da un idraulico sobrio, ha pagato le riparazioni, compresi gli incredibili puntellamenti e incollaggi del parquet, con la pacifica rassegnazione dei veri mecenati. E Ottone le piace un casino.
Comunque.
A parte il netto miglioramento nei rapporti locatario-locatore e la felicità di quest’ultima soluzione abitativa (c’è Amore del Cuore, i metri quadri sono aumentati, c’è una lavastoviglie), anche qui a Milano – e forse anche peggio che a Torino -, il disagio da stendino non si placa. Non c’è il balcone, la “lavanderia” è angusta, e non stiamo in uno di quei palazzi dove tutti si accampano sul ballatoio e si fanno le treccine, coi tendoni di plastica verde che scrocchiano al vento, a tempo coi bonghi. Fai il bucato e stendi in salotto. Hai da stendere le lenzuola? Peggio per te, dovrai tenerti in mezzo al soggiorno una specie di catafalco umidiccio e ondeggiante, una roba imponente e minacciosa che, se per caso devi andare a fare la pipì nel cuore della notte senza accendere le luci e ti sei dimenticato che ce l’hai lì in mezzo a casa, ti farà anche venire uno stramlone.
Ora, non so voi, ma qui ci garba andare in giro con la roba pulita, ed è un festival perenne della lavatrice. Ho addirittura comprato un secondo stendino all’IKEA, un affare bianco, a tre piani, con dei bracci rotanti e una bizzarra struttura a libro. Appena entri in casa lo vedi. Lo vedi, in qualsiasi modo. Sta lì, pieno di calzini, come un parente rancoroso che ti mette in imbarazzo al pranzo di Natale: allora, come andiamo? Abiti sempre in quello strano stanzone col soppalco? Ah, certo. Io non credo che ce la farei. Insomma, è anche vero che sei a Porta Venezia, ma come si fa a cucinare di fianco al bucato. Bisognerebbe rispondere con un perentorio FOTTITI, IO VADO SEMPRE AL RISTORANTE, ma evito di mentire, quando posso.
Insomma, lo stendino sta diventando il simbolo di ogni fallimento, ti fa ricordare che la vita è effimera e che non ti pagano abbastanza. Ti fa sentire in povertà, lo stendino, come il campeggio… una roba che hai accuratamente evitato anche quando ci andavano tutte le tue amiche del catechismo. Ma dai, in tenda agli scout ci si diverte un casino, vieni anche tu, siamo nel gruppo dei Furetti! Col cavolo, vacci te a fare la cacca in un buco scavato nella foresta. Sono troppo vecchia per avere uno stendino in mezzo a casa. Mi muovo troppo scompostamente per non urtarlo ogni volta che passo. Dietro allo stendino c’è questa piccola libreria bellissima che mi ha regalato Amore del Cuore al compleanno… E NON LA VEDO MAI, MALEDIZIONE! Oh, permesso, ma che buon odore di bucato che c’è in casa! PER FORZA, HO SEMPRE LO STENDINO IN SALOTTO.
Mi arrabbio sempre, ultimamente.
Credo sia una mezza sindrome di Mary Poppins. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. E il salotto appartiene a me. Me lo merito, un salotto. Ho finalmente un divano. Era dal 2009 che non avevo un divano. E’ scomodo, i cuscini si spostano ed è color cacchetta, ma è un divano. Quanto ancora dovrò attendere per non vedere più il diamine di stendino in mezzo ai piedi? Io non lo so. Ma voi come fate? Sono l’unica che vuole accendere un mutuo per avere una camera da destinare unicamente allo stendino? Un tempio, gli posso anche erigere un altare votivo, basta non trovarmelo più nei coglioni. E adesso che ne ho due, di stendini, faccio lavatrici a rullo, perché così non mi si accumula la roba sporca. E GLI STENDINI CHE MI INGOMBRANO L’ANIMA SI MOLTIPLICANO!
Ho bisogno di aiuto.
Ho bisogno di un castello.
Con dei terrazzamenti baciati dal sole.
Con le mura merlate.
E in cima alle mura ci metterò centinaia di stendini.
E ballerò nel mio salone. Finalmente vuoto.
Senza neanche un paio di calzette che cercano di asciugare.
La cabina armadio è sopravvalutata. Lo “studio” non è niente. La vera ricchezza è la stanza in più per lo stendino. Anzi, sono pronta alla conversione. Sono pronta a credere in qualcosa di bellissimo, di innovativo, di civile. Finalmente so che cosa voglio. IO VOGLIO L’ASCIUGATRICE.
…solo che di là non mi ci sta.
Manco quella.
Mai una gioia.
E poi si muore.
sono Spider-Man. e la tutina mi dona immensamente!
***
Dopo avervi variamente deliziato con la delirante guida al fangirling degli Avengers, Tegamini torna a pascolare nella sempre avvincente prateria Marvel con il primo capitolo del molto necessario – o forse no – reboot della saga di Spider-Man, il supereroe più amato da chi rompe gli occhiali e li riappiccica con lo scotch.
Ora, la precedente trilogia non era partita male… ma si era conclusa con un disastro d’imbarazzanti proporzioni. Da una incoraggiante battaglia con Willem Dafoe che rideva a crepapelle a bordo di un aliante, il carrozzone si era spostato sul dottor Octopus di Alfred Molina – che non avrà avuto i capelli a scodella, ma era comunque davvero spiacevole da vedere – per arenarsi definitivamente in un insensato putiferio di Uomini Sabbia, abbozzi di Venom e James Franco volanti. Che poi James Franco sa fare tutto. Scrive, dipinge, recita, sceneggia, fotografa, si sega via le braccia. Di certo può anche fluttuare, ma ora chi se ne importa. Un po’ per l’assurda carloneria dell’ultimo episodio della saga e un po’ perchè Tobey Maguire perseverava nel ricordare a tutti quanti che lui al casting l’aveva detto che non sarebbe improvvisamente diventato longlineo e simpatico, si decise per una subitanea soppressione del franchise in attesa di tempi migliori. Insomma, speriamo che la gente si dimentichi di quello che è appena successo e vediamo se si può buttare in piedi qualcosa di più dignitoso, prima o poi. Ma che dite, ci proviamo dopo gli Avengers? Insomma, gli Avengers è così straordinario che anche se Spiderman fa un po’ schifo potrebbero non prendersela troppo. Massì, valà. Ed eccoci qui, sull’onda del generalizzato entusiasmo supereroistico con un nuovo Peter Parker, una nuova fidanzata, una zia May di svariati decenni più giovane e la saggia decisione di riavvicinare in qualche modo Spider-Man al suo originale fumettistico.
Che dire. The Amazing Spider-Man (o come qualcuno appena uscito dal servizio militare mi ha fatto trovare scritto sul biglietto del cinema: Spider-Man, The Amazing) non è una roba spiacevole, ma non mi ha nemmeno spettinata dall’entusiasmo. Ha il gigantesco svantaggio di dover per forza ripassare per roba che le moltitudini hanno già visto – e il ragno morsicone, e la strabiliante rivincita scolastica, e la morte con tonnellate di sensi di colpa dello zio Ben, e come mi faccio il costume, e caspiterina, so andare sui muri! – e la grande sfortuna di una sceneggiatura scaturita dalla mano sinistra di un opossum. Insomma, ci sono momenti che ti fanno esclamare “santo il cielo, questa è una cosa che direbbe Spider-Man!”, ma poi capita qualcosa di patetico che ti fa fare le bolle dentro al bicchiere della cocacola. Gwen, ti arpionerò una natica con la mia ragnatela, affinchè tu possa teatralmente finire tra le mie braccia! Ma anche, spero non ve ne accorgerete, ma qui smadonniamo da mesi per evitare assonanze con “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, accidenti a quelli del primo film che si sono fatti venire una buona idea e adesso siamo qui nelle code di lucertola fin sopra i capelli. Insomma, pochi momenti davvero divertenti – tutti nel trailer o nei dieci secondi del mirabile cameo di Stan Lee – e un gran girovagare tra disperazioni, scienziati pazzi monodimensionali e la zia May che ha solo bisogno che qualcuno le vada a comprare le benedette uova.
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Quel che funziona – al di là di quello che gli tocca dire – è l’adorabile e adattissimo Andrew Garfield. A parte che non ci si spiega come faccia ad avere tutti quei capelli e che è molto gradevole da guardare mentre sgambetta in tutina rossa e blu, il Garfield è un buonissimo Peter Parker. Non so ancora che cosa lo spinga a vestirsi come Sheldon Cooper e come faccia a guarire spontaneamente da una ferita d’arma da fuoco al quadricipite femorale (esiste, il quadricipite femorale?), nè come possa sopportare il pendolarismo Queens-Midtown per andare a scuola tutte le sante mattine, ma mi è piaciuto… e si fa pure gli stunt da solo, come un cercopiteco del circo. Insomma, incoraggiamenti al Garfield e alle sue chiappette d’oro, sperando che le qualcuno riesca ad aggiustare un po’ il tiro sulle sbruffonaggini di Spider-Man – che dovrebbero risultare ironiche e spassose, invece che un po’ strane e imbarazzanti – e a fargli dire tre sillabe in più quando non è in costume. Per il resto, può continuare a stagliarsi sulla skyline e a vantarsi dei suoi piacevolissimi deltoidi.
Di Gwen e Lizard onestamente ci si riesce ad interessare poco, e non per colpa loro, poveroni. Emma Stone, a parte le parigine un po’ da studentessa sadomaso e la posa statica con pila di libri al petto, non è che sia memorabile… ma le riconosciamo il merito di essersi almeno fidanzata col Garfield e di aver conquistato un posto alla Oscorp ancor prima di finire il liceo, roba che se andava a far domanda Keplero gli dicevano di prendere la porta dei fattorini. E il dottor Connors? E’ diventato un cattivo scarso, come capita in quasi tutti i film di Spider-Man. Sarà che Spider-Man ha così tanti problemi da finire per occupare pure lo spazio degli altri, ma il vecchio rettilone riesce a toccarci ben poco il cuore e il suo bislacco piano finale di trasformare gli abitanti di Manhattan in lucertoloni verdi ci piove un po’ in testa. Sai che c’è, oggi diventate tutti quanti lucertole! I cattivi devono avere il tempo di macerare nei loro tormenti, soprattutto se non decidono di dedicarsi a una vendetta ben circoscritta. Un cattivo idealista tipo Lizard non puoi farlo arrampicare su un traliccio e sperare che ci aggradi, così, perchè è preso bene con l’erpetologia e s’è chiuso in una fogna a farsi ricrescere un arto monco. Che diamine, qua c’è gente quasi sofisticata.
Comunque, credo sia praticamente impossibile imbroccare uno Spider-Man. C’è sempre qualcosa che manca, roba strana nel posto sbagliato e l’affannosa ricerca – spesso fallimentare – di introdurre qualche innovazione nelle oscillazioni del nostro supereroe tra un grattacielo e l’altro – sbattetelo in mezzo alle casette del Village, voglio vedere che fa -, insomma, ancora non mi va bene. C’è Garfield dal gluteo aureo, è vero, ma il miracolo è ancora ben lungi dal capitare. E al quarto tentativo inizio un po’ a perdere le speranze. Ridere si ride poco, epicheggiare si epicheggia poco, il cattivo è solo grosso e manesco e la storia d’amore è molto tenera, va bene, ma non siamo mica qui per limonare.