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Premio Campiello

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Angela Izzo, io ti riconosco. Sono di Piacenza e a Napoli non possiamo vantare alcun parente, ma ti sento nelle ossa, ti sento nelle orecchie, capisco cosa dev’essere stato passarti davanti. Detestarti è stato bellissimo, in queste pagine. Forse meritavi di peggio, ma “‘o scrittore du’ cazz'” è figlio tuo e io non ho intenzione di intromettermi. Di te, però, devo ammettere d’aver ammirato l’aperta ostilità e la propensione nulla al commento obliquo, ma andiamo con ordine. Chi diavolo è Angela Izzo? Era la mamma di Antonio Franchini, che qui troviamo trasfigurata in personaggio nefasto e nemesi romanzesca, nel mostro che sta al centro del gorgo di famiglia. Angela risucchia tutto e sembra contaminare anche quello che non tocca, perché vastissima è la disapprovazione che proietta e inesauribili sono i debiti di cui è capace di caricarti.

Di figli e figlie che scrivono delle proprie madri è pieno il mondo, ma è raro imbattersi in un’avversione così schietta,  furibonda e circostanziata. Nel produrre questo ritratto “mediato” di Angela, Antonio Franchini intreccia piani temporali, registri e ricordi, restituendoci un intero sistema di disvalori, oltre che la parabola biografica di un rapporto di sangue. Angela è difficile da intrappolare e impossibile da neutralizzare, perché non tace mai e sgomita per deformare la realtà. Il suo dominio è lo spazio domestico – prima a Napoli e poi a Milano, dove segue due dei suoi figli ormai diventati adultissimi – ma il dove la si piazzi conta poco, perché Angela è impermeabile al mondo, alle opinioni altrui, all’italiano e alla temperanza.

Angela si esprime per sentenze, anatemi, rivendicazioni, dogmi, furori imprevedibili, sceneggiate interminabili, insulti. È vanagloriosa ma poveretta quando le fa comodo, prepotente ma vittima, sprezzante ma dipendente dagli altri, perché può affermarsi solo per opposizione diretta, in una continua rivendicazione di una superiorità farlocca, basata sul disvalore, sul pregiudizio e sul disprezzo. Le sue arringhe sono confuse e la sua invadenza totale: son tutti coglioni (o zoccole) tranne lei, che non si fida di nessuno e che tutti dovrebbero elevare a esempio supremo, anche se crede a intermittenza solo a quello che potrebbe tornarle utile o, per principio, solo al contrario di quello che pensi tu. Lo stato le deve l’accompagnamento, i suoi figli le devono tutto e noi, che possiamo solo limitarci a leggerla, siamo grati a Franchini per aver fatto da parafulmine.

Il fuoco che ti porti dentro – uscito per Marsilio e finalista al Premio Campiello – è un libro tremendo perché Angela è tremenda, ma Franchini riesce a restituirci quella simpatia immotivata che le conoscenze superficiali possono di tanto in tanto suscitare. Tutti gli amici o i colleghi di Milano che per qualche ragione di sono imbattuti in Angela l’hanno trovata folcloristica, insolita, affascinante e “fortissima”, nella sua inarrestabile follia. Il dramma è lì, in questa capacità di metamorfosi del mostro, ma in questo spazio sta anche l’abilità di scriverne donandoci il comico e il paradossale, senza scadere nella macchietta ma concedendole l’onore delle armi, come andrebbe fatto con ogni valente avversario. La storia di Angela è quella di una famiglia intera, di uno scontro eterno tra Nord e Sud, tra ricchi e zappatori, tra pesce “buono” e schifezze del supermercato, tra madri e figli… che scappano per salvarsi e, per fortuna, decidono a volte di raccontarcelo così.

Credo d’aver capito che sono contenta di aver letto I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni – uscito per Sellerio e romanzo vincitore del Premio Campiello nel 2022 –, ma ci sono mille robe di “impianto” che trovo immotivate. Se non si trattasse di un esordiente così giovane mi verrebbe da dire che sono scelte da volpone di mestiere, ma è un romanzo talmente strano e poco classificabile da neutralizzare qualsiasi dietrologia strategica. Uno che vuol fare della strategia non scrive la biografia di una faina zoppa che impara a leggere la Bibbia in mezzo a un bosco, per la miseria.

I miei stupidi intenti - Bernardo Zannoni - copertinaHo deciso che il modo più efficace per provare a spiegare quel che succede è seguire il nutrito flusso di domande che hanno tormentato la mia lettura. Molte sono prosaiche e imbecilli, altre spero meno.
Perché ai mammiferi del bosco viene donata la parola e una forma di consapevolezza mentre ai polli no?
Perché la consapevolezza di questi animali pensanti è distribuita in maniera disomogenea?
Perché quello che eleva gli animali più consapevoli è, di fatto, un tormento esistenziale che ricalca quello umano?
Se dovevamo riflettere sul tormento umano perché dobbiamo attribuire queste afflizioni a una volpe e a una faina?
Come fa una volpe a stare a tavola?
Perché si lascia a Dio l’unico orizzonte “autorevole” di risposta ai quesiti abissali della vita?
Anzi… è più complicato. Provo a girarla in un altro modo.

La faina nasce ingenua. Obbedisce a istinti basilari, da bestia del bosco, finché abbandona forzosamente la famiglia d’origine e va a lavorare da un usuraio-volpe. Solomon-la volpe  insegna ad Archy-la faina a leggere e a scrivere, strappandolo dalle tenebre della sua condizione d’animale (che a tutti gli altri animali va più che bene) e, di fatto, rivelandogli che il tempo esiste e, se esiste il tempo, esiste anche la morte. Di fronte all’orrida caducità della materia vivente, la volpe trova in Dio una risposta alle tribolazioni terrene – un po’ perché ha imparato a leggere sulla Bibbia e un po’ perché mi sembra legittimo proiettarsi su una prospettiva di salvezza trascendente. Insomma, ognuno trova la sua consolazione e si interroga sull’eredità che lascerà ai posteri, una volta compreso che non si campa per sempre – e lo fa con veemenza anche questa carogna di volpe.
Ecco, questa faccenda della conoscenza come grosso boomerang beffardo è stupenda, secondo me. La faina e la volpe SANNO, ma questa conoscenza aggiuntiva non li rasserena, non li pacifica. La faina attraversa dei fugaci lampi istintuali – legati alla fame, all’accoppiamento o all’autoconservazione – e quando si sorprende di nuovo bestia un po’ si spaventa e un po’ si gode quell’insolita libertà che credeva sopita.

Noi forse amministriamo le medesime “spinte”, ma alla rovescia – o così ci piace credere. Siamo diventati più razionali che istintivi, più cervello che artigli, più abitanti di passati/presenti/futuri che di una sequenza slegata di presenti frammentari. Però le domande che si fanno la volpe e la faina sono comunque nostre. A maggior ragione, anche. Perché consegnare quegli specifici fardelli a un contesto “altro”, quando potrebbero suscitare una ricerca che è già la nostra? Per produrre un effetto? Per aumentare l’originalità del risultato finale? E perché Dio – quello della Bibbia, poi? Non so decidere se il fatto che la faina e la volpe si “elevino” perché han conosciuto Dio sia da interpretare come “solo conoscendo Dio ti puoi affrancare dalla bestia che sei” o come “manco Dio ti salva, alla fine, perché adesso che sai ti accorgi che stavi quasi meglio prima”.
Che un libro produca riflessioni è, per me, sempre motivo di stima. Resto disorientata, però, perché mi sembra contemporaneamente un romanzo di una vecchiaia impossibile e un libro che prova a fare una cosa nuova e coraggiosa. Ma che lo faccia in un bosco e che lo faccia imponendo ai protagonisti una metamorfosi così radicale e selettiva suona, a me, forse più manipolatorio del necessario.