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Dunque, sono sempre molto avvinta dai libri che usano la struttura come un elemento “strategico” che contribuisce a costruire la narrazione. In Tre piani di Eshkol Nevo, il gioco di prestigio si esplicita su diversi livelli. La base “architettonica” è una palazzina di tre piani in un quartiere residenziale di Tel Aviv. Il romanzo dedica una sezione a ogni piano, addentrandosi nelle vite, nei tormenti e nelle ripartenze di chi abita lì.

La suddivisione materiale del palazzo diventa anche la base per una metafora ulteriore: ogni piano rappresenta una componente freudiana della personalità e mette in scena, con le storie delle famiglie che occupano quei piani, l’idea di Es, Io e Super-io.
I piani, proprio come accade tra vicini di casa in un contesto non particolarmente vasto, presentano punti di frattura e di permeabilità: le persone si incontrano, si sfiorano ed esercitano un’influenza più o meno marcata sulle esistenze degli altri condomini, così come gli “scomparti” della nostra personalità non esistono nel vuoto, ma contribuiscono a un “chi siamo” complessivo.

Serve una laurea in psicologia per approcciarsi a questo romanzo? Direi di no. Anzi, la suddivisione dei piani scandisce il ritmo delle storie, che restano umanissime, vive e complesse, senza il rischio di farci scivolare nel pippone indigeribile. Nevo ha un indiscutibile talento per il dettaglio rivelatore e per la narrazione del quotidiano – tanti minuscoli accidenti dell’ordinario, tanti sfondoni istintivi e tradimenti silenziosi diventano, insieme a quanto di positivo possiamo ricavare dalla vicinanza, un ritratto formidabile di come ci relazioniamo con gli altri e di come proteggiamo noi stessi dal male e dal disastro, non sempre vincendo.

Nota di fruizione: ho ascoltato Tre piani su Storytel. L’audiolibro affida ogni piano a un lettore diverso – come mi pare anche appropriato, dato che tre sono le diverse prospettive e i tre mondi in cui Nevo ci trascina. La scelta del terzetto è quantomai felice: Adriano Giannini, Alba Rohrwacher e Margherita Buy.
Se vi va di ascoltarlo, rammento sempre che a questo link c’è un mese di prova gratuita per collaudare Storytel.

Da quant’è che non andavo a teatro? Quasi due anni, se dobbiamo fare un calcolo avvalendoci di una misura del trascorrere del tempo convenzionalmente condivisa. Più o meno tremila, invece, se vogliamo servirci di un’unità di misura un po’ più sentimentale. Sono una spettatrice curiosa e molto propensa a lasciarsi affascinare da quello che succede sul palcoscenico, pur avendo ancora larghissimi margini di manovra sul fronte delle conoscenze drammaturgiche. Il mio sogno è un po’ quello di diventare una di quelle sciure milanesi con le perle, il foulard di seta, la borsetta inestimabile, l’atteggiamento ipercritico, la piega fatta e l’abbonamento al Piccolo. Loro sì che hanno capito come si sta al mondo – nonostante siano stranamente propense a mettersi gli orecchini con la clip.
Comunque.
La scorsa settimana sono andata a vedere “Freud o l’interpretazione dei sogni”. Regia di Federico Tiezzi e testo di Stefano Massini, che già “conoscevo” per i miei trascorsi einaudiani e per Lehman Trilogy, che avevamo visto nella monumentale e favolosa versione integrale di cinque ore e passa, sempre messa in scena al Piccolo. Prima della rappresentazione abbiamo avuto la fortuna e il vasto onore – grazie alla saggia intercessione di Intesa Sanpaolo Giovani – di chiacchierare con Marco Rossi (che per il Freud si è occupato della scenografia) e con il costumista Gianluca Sbicca, che ci ha anche portato a visitare la sartoria del teatro, antro degli stuporoni – e delle scatole dai contenuti più imprevedibili.

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Ma procediamo con un vago senso logico.

Il testo di Massini è un viaggio onirico/metodologico all’interno di una delle opere che hanno segnato il Novecento, cambiando per sempre la percezione della nostra vita interiore. L’interpretazione dei sogni è già uno scritto dallo straordinario potere narrativo. Sigmund Freud è un “autore” dalla penna felicissima, un abile costruttore di intrecci che ha saputo (o voluto) appoggiarsi alla scrittura come strumento fondamentale per decifrare l’insondabile. Massini lo trascina nella rappresentazione, così come ogni paziente finiva per risucchiarlo nei propri turbamenti, invitandolo (più o meno volontariamente) a smontare e maneggiare la materia disordinata e misteriosa del sogno. Lo spettacolo è un tragitto dalle molteplici facce e destinazioni.
È un viaggio che racconta la costruzione di un metodo – perché insieme a Freud ripercorriamo le tappe fondanti della teoria psicanalitica, dai casi clinici all’ipnosi -, ma anche un racconto che procede per accumulazione di dubbi, scoperte, cantonate e punti di svolta – che viviamo grazie alla processione, spesso dolentissima, dei pazienti che bussano alla porta di Freud per liberarsi di qualcosa di innominabile che li angoscia o li intrappola nella vergogna, nella paralisi completa, nell’incapacità di abitare davvero il mondo o anche solo il proprio essere. Ma è anche – e forse soprattutto – un viaggio fra i diversi piani della coscienza, una commistione tra realtà taciute e sogni che gridano la verità in un linguaggio che acquista senso solo se destrutturato, decodificato, rivelato.

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Al centro di tutto c’è la figura di Freud – evviva Fabrizio Gifuni! – che non ci appare come uno scienziato eroico e infallibile, ma come un essere umano a sua volta alle prese con il demone del fallimento, con le grandi indecisioni di un metodo che va formandosi per stratificazioni e incontri. Una persona che rifugge da chi appare sopraffatto da un fardello di ossessioni che somigliano troppo alle proprie ma che, al contempo, non può fare a meno di governare con divorante curiosità un microcosmo di pazienti che potrebbero ritrovarsi a tributargli, un giorno, la loro eterna gratitudine. Un sognatore tra i sognatori, insomma, diversamente – ma comunque – tormentato da tarli, ricordi e ambizioni.

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Il risultato di tutto questo, nel testo di Massini, è una perfetta compresenza tra riflessioni del medico e degli afflitti che sfilano nel suo studio, tra sogni “decifrati” e sogni ancora misteriosi, tra realtà studiata e realtà onirica. Lo spettacolo stesso ha la struttura di un gigantesco caso clinico, in cui Freud si muove per decifrare se stesso mentre si addentra nella psiche altrui.
PERBACCO CHISSÀ CHE CASINO.
E invece…
Uno spettacolo “funziona” se il testo ha la possibilità di vivere in uno spazio, di trovare voci e movimenti capaci di rendere giustizia alla sua complessità, rendendola però fruibile, chiara per noi quanto possono esserlo quelle verità che si appigliano al nostro istinto, diventando limpide anche quando indagano una materia oscura e mutante come il sogno. E tutto questo, tra le altre cose, è compito della scenografia.
Marco Rossi ci ha raccontato – redarguendo anche un solertissimo addetto di scena che stava passando l’aspirapolvere in vista dello spettacolo serale (ma noi ti vogliamo bene, signore con l’aspirapolvere!) – gli aspetti più impervi del lavoro su un materiale come quello di Massini, che riunisce sullo stesso palco – contemporaneamente – il tangibile e l’immaginario. La scena è divisa in “piani”, separati da una barriera di porte che si spalancano a turno per lasciar filtrare quello che ribolle sotto la superficie, come una rete, che separa fisicamente ma resta comunque permeabile. Ma i sogni vengono anche raccontati, non solo “visti”, e capita che il piano immateriale da rappresentare sia quello delle riflessioni di Freud. E il pensiero, il lavoro di scomposizione e di sintesi, di condensazione e spostamento, diventa parola che appare fluttuando – ma proprio con delle scritte luminose, fatte di termini chiave o di punti salienti che ci aiutano ad orientarci, come una mappa, come se il taccuino dello psicanalista fosse anche un po’ in mano nostra. Quello che “c’è” sul palco è ridotto all’essenziale e, abbiamo scoperto, è anche stato realizzato a partire da materiali di scarto… proprio come i sogni, che rubano pezzetti di memoria o frammenti indigeribili per la coscienza,  trasformandoli in qualcos’altro, che ci risulta al contempo familiare e alieno. Un principio che ritroviamo anche nel lavoro sui costumi, mi viene da dire.

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Gianluca Sbicca, il costumista del Freud, ci ha fatto da guida tra bozzetti e moodboard utilizzati per dare vita allo spettacolo di Tiezzi e Massini. L’ambientazione della Vienna di inizio ‘900 riaffiora nella scelta dei materiali e delle stampe – l’ispirazione visiva per tagli e fantasie, infatti, è proprio quella della secessione viennese. I motivi sono spesso ripresi da tappezzerie d’epoca e modelli “storici”, che ritroviamo sul palco in una nuova veste o riplasmati con il velluto, una stoffa scelta proprio per la sua natura cangiante e mutevole. I pazienti di Freud indossano anche i loro demoni, e gli abiti che portano raccontano il percorso di guarigione. All’inizio li vediamo aggirarsi per la scena con grandi maschere animalesche, che li accecano e li rendono irriconoscibili. Man mano che il lavoro psicanalitico prosegue, però, i colori dei costumi si fanno più vivaci e i testoni zoomorfi spariscono per lasciare il posto alle persone che ci sono sotto.

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Lo spettacolo si chiude con una soluzione scenica (e pure concettuale) davvero potente, che trasforma anche lo spettatore – al pari dello psicanalista – in sognatore depositario di costrutti irrisolti. Ma, visto che fino all’11 marzo potete ancora andare a vedere Freud a teatro – ecco qua i riferimenti dello spettacolo – non credo di volervela spoilerare troppo. Per chi volesse approfondire il testo di Massini, invece, ecco qua il tomo. Per vederci vagare a teatro, poi, qui ci sono un po’ di foto.
Non mi resta che ringraziare Intesa Sanpaolo Giovani per l’ospitalità e il Piccolo Teatro per la magnifica rappresentazione e per averci permesso di invadere preziosi spazi di lavoro. Un grazie sentitissimo anche alle sciure milanesi della terza fila, per avermi mostrato la via da percorrere.
Rifacciamolo presto.

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[Le foto di scena sono di Masiar Pasquali e arrivano da qui].