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Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.

Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.

McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.

Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

Non pensavo fosse un buon momento per imbarcarmi in un mattone di mille e passa pagine. A dirla tutta, non lo penso praticamente mai. Credo mi capiti perché cerco di prevenire un eventuale fallimento, perché temo sempre di finire schiacciata da slanci avventurosi che non posso sperare di sostenere. I libroni mi attirano, però. Vediamo se riesci a tenermi lì con te, librone. Vediamo cosa sai fare. Vediamo se sarò degna di te, librone. Cominciare il 2024 con L’ottava vita di Nino Haratischwili – in libreria per Marsilio con la traduzione di Giovanna Agabio – si è dimostrato un azzardo riuscitissimo. Non tanto perché al romanzo serva ancora dimostrare qualcosa – l’accoglienza trionfale della critica è stata praticamente unanime già dalla prima pubblicazione, nel 2018 -, ma più per la crescente sfiducia nelle mie capacità di gestione di un’epopea monumentale, di un libro “importante”, ramificato, tumultuoso. Non credo si possa mai davvero scegliere da cosa lasciarsi catturare e non tutti gli atti di fede vengono sempre ripagati, ma quando l’impresa riesce è anche salubre mettere in piedi un piccolo festeggiamento. Bravo, librone. Eccoci qua.

Haratischwili ha trascorso l’infanzia in Georgia negli anni Novanta e abita in Germania dal 2003. Anche Niza, la sua narratrice e una delle “vite” del romanzo, è emigrata a Berlino e gestisce con estrema farraginosità la complessa eredità della sua parabola familiare all’interno dell’ancora più travagliata parabola “rossa” novecentesca. Haratischwili – che ha scelto di scrivere in tedesco, forse per garantirsi una sorta di cuscinetto protettivo – affida alla famiglia Jashi il compito di riprodurre su scala “umana” i molti stravolgimenti di un paese intero nel corso del Novecento. Visto che far piovere così tanta sfortuna su così poche teste potrebbe risultare un po’ bizzarro – nonostante l’inclemenza strutturale della storia in determinati angoli di mondo e il compiacimento del pubblico per la scalogna più nera -, Haratischwili porta in scena una sorta di profezia autoavverante: il capostipite degli Jashi è un pasticcere straordinario, unico inventore e depositario di una ricetta segreta per una cioccolata così buona da far spavento (letteralmente). Chi la assapora non avrà scampo… e di cioccolate se ne berranno parecchie, col procedere della narrazione.
Tutto comincia proprio da una florida bottega di dolci, nella Tblisi del 1917, per approdare a un recentissimo presente in cui la transfuga di un Est devastato tende la mano a una nipote ribelle, che balla sui resti di una storia di famiglia troppo intricata per essere ricomposta, troppo tragica per lasciar presagire futuri meno nefasti o disorientanti. Sarà Niza a rimettere insieme i pezzi per Brilka, a riconsegnarle il mosaico della sua discendenza, indissolubilmente legata alla storia di un paese dall’identità cangiante, fagocitato dall’orbita russa ma “produttore” certificato di ambiziosi progetti di rivalsa e di Grandi Mostri. Anzi, di Generalissimi – è così che Stalin viene identificato (o non nominato) nel libro – e di Piccoli Grandi Uomini – AKA Lavrentij Berija. Dalla deposizione degli zar alla battaglia di Stalingrado, dallo spauracchio del gulag alla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica, dalla Primavera di Praga al crollo del muro di Berlino, la famiglia Jashi procede sul filo del conflitto perenne e dell’incomunicabilità generazionale. È come se il disegno di una grande utopia fatta di pace, uguaglianza, collaborazione e abbondanza – così orrendamente disattesa dalla realtà – si riflettesse sulle utopie “private” di serenità, successo e amore della famiglia, disinnescandole o reclamando sacrifici impossibili. Haratischwili manovra con abilità sia la storia della sua terra d’origine (e della Russia, nelle sue tante emanazioni) che quella dei suoi personaggi, che diventano man mano sia strumenti utili a descrivere un movimento collettivo (o uno smarrimento generale di fronte alle enormità dei fatti) che creature indipendenti, “rotonde”, credibili nelle loro mancanze, nelle loro irrazionalità e nei loro vuoti. Tutti si misurano con un’ombra nascosta, con la perenne assenza di padri e con l’onnipresenza di padri della patria che tutto vedono e tutto possono prendersi. Gli Jashi sono – salvo un’unica eccezione, direi – dei disallineati, ma nessun colpo di testa verrà loro perdonato. E no, non si tratta soltanto della maledizione della cioccolata.

Come fila via la lettura? Molto bene. Chiaro, non tutte le sezioni – perché il libro è diviso in “vite”, di volta in volta dedicate a un personaggio che funge da snodo centrale – vi appassioneranno in egual misura o procederanno con il medesimo ritmo, ma c’è uno splendido equilibrio tra lo scopo di produrre un Grande Affresco e l’idea di raccontare cosa succede a della gente che si incontra, si innamora, va in malora, si illude, parte per la guerra, fa figli, si dimentica i figli, prende in casa figli non suoi, balla, sogna, immagina l’Ovest, cura il giardino, fuma sigarette, beve troppo, si dispera, combatte, si vendica, si nasconde, va a scuola, si vende pure i fazzoletti sporchi, casca, si tira su, ricasca, rimane per terra, vede i fantasmi, si inganna, si sbaglia, si intestardisce, scappa, torna. È un libro che mette insieme una lunga serie di eventi irrimediabili e si interroga su come ci si possa convivere. È il resoconto di un percorso accidentato, contraddittorio e violento, costellato da sprazzi di speranza e di legami che diventano ancore, anche quando si disgregano nell’illusione. Si sopravvive scegliendo di chi prendersi cura, forse. Anche quando non conviene, anche quando non ha senso ma ci si sente in dovere di esercitare almeno quel minuscolo margine di libertà. Non c’è clemenza nella Grande Storia di questo libro, ma mai uno Jashi vi darà l’impressione di volersi arrendere, di aver raggiunto la meta di una lunga ricerca. In bocca al lupo, Brilka. A voi, se vi capiterà di voler leggere L’ottava vita, non servono formule benauguranti. Fa già tutto Haratischwili, con l’Est che ha conosciuto e con l’Est che ha scelto di restituirci.

Reduci dalla NOTEVOLE mole di 4321 – che possiamo aver amato o molto ammirato o possiamo magari ricordare in prevalenza per la fatica che ci ha fatto fare -, trovarsi alle prese con un Auster così snello, in libreria per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Cristiana Mennella, è già una notizia.

Il Baumgartner del titolo è un professore di filosofia di Princeton che ha perso l’amatissima moglie da una decina d’anni. Vive da solo, lavorando ai suoi saggi per tenersi occupato e ordinando libri online in maniera compulsiva solo per il piacere di scambiare due parole con la fattorina che glieli consegna di solito – potrebbe sembrare un’abitudine inquietantissima, ma nel caso specifico non c’è da prendere paura. Baumgartner non è giovane, ma non è nemmeno decrepito. Non si è rassegnato alla dipartita di Anna, ma il dolore non l’ha incattivito. È spesso un po’ imbranato, ma se la cava con un certo piglio. È proprio un brav’uomo, mi verrebbe da dire. Ha poca pazienza per le rotture di palle, ma chi è che può dire di averne? Dalla scomparsa improvvisa di Anna ha cercato con fatica di recuperare un’identità individuale, anche se il compito di riempire il solco lasciato da una personalità così calorosa e vulcanica gli appare quasi impossibile. Non può lasciarla andare perché non sa come fare, ma osserviamo con affetto vero i suoi volenterosi tentativi di vivere “lo stesso” nel solco della sua memoria… anzi, ci viene da tifare per un nuovo inizio, per l’intervento di una forza propulsiva inaspettata che in qualche modo lo ricompensi per la sua tenacia gentile.

Auster ci racconta pian piano chi è Baumgartner – e chi è stata Anna – mettendo lo stesso Baumgartner nelle condizioni di ricordare, di aprire dei cassetti (in senso letterale) e di riportarci quello che ci trova dentro. Le memorie riemergono con una naturalezza splendidamente calibrata dai piccoli intoppi del quotidiano o per decisione deliberata di Baumgartner, che mentre dovrebbe pensare ad altro (dove sono finiti gli occhiali? Perché diamine sono venuto al piano di sopra? Ho già telefonato a mia sorella?) si concede qualche ricognizione approfondita nel passato. Sono “viaggi” che nella loro essenza non risolutiva – e nella loro strutturale impossibilità di rimediare all’assenza di Anna – rendono però il presente meno asfittico, meno buio, ancora capace di fare da base al futuro. Baumgartner usa la nostalgia come una specie di arma difensiva, per ricordarsi della felicità di cui è stato capace. Non ricorda più con rancore o con senso di rivalsa, ma con la fierezza di chi sa di aver per tanti anni vissuto una parentesi di grande appagamento, il genere di felicità che augureremmo a chi amiamo.

Va bene che ha insegnato filosofia, ma da dove gli viene questo talento? Chi è, un santo eremita? Forse il contrario, credo. All’atto pratico, Auster configura Baumgartner come un solitario, ma gli regala un istinto di apertura al mondo, di fiducia negli altri. E il mondo risponde – coi suoi tempi, ma risponde. E anche Anna finisce per ordinargli di “liberarla”, di permetterle di diventare un fantasma benevolo, di lasciare che siano le tante cose che ha scritto (e che si sono scritti) a fare da “museo” al loro legame ma senza tramutare anche sé stesso in un reperto.
È una storia che parte da una premessa deprimente e si muove nel territorio del malinconico, ma lo fa con grazia – e non perché nel dolore ci sia grazia o sia obbligatorio produrne, anzi -, seguendo un imperativo che lascia speranza: rendere giustizia a un amore “ben riuscito”, nonostante l’imprevedibilità crudele del destino.

Allora, farò del mio meglio, perché Fourth wing di Rebecca Yarros – tradotto da Marta Lanfranco per Sperling & Kupfer – mi ha fatto divertire tantissimo, ma a più riprese avrei davvero voluto cavarmi gli occhi e buttarli in una bacinella piena di trementina.

Violet Sorrengail arriva da un’illustre stirpe. Sua madre è la generalissima maxima del regno di Navarra e suo padre era uno scriba che nel nostro universo avrebbe vinto almeno un Nobel. Sia suo fratello – perito tragicamente in combattimento – che sua sorella Mira sono sopravvissuti all’Accademia Militare di Basgiath per diventare Cavalieri dei Draghi e han dimostrato di saper spaccare culi a destra e a sinistra. Violet, invece, ha sempre studiato da scriba perché è molto intelligente ma non può contare su una significativa prestanza fisica – nel senso che se starnutisce si incrina tre costole e se si spazzola i capelli troppo forte si lussa una spalla. MA MANDIAMO VIOLET NEL QUADRANTE DEI CAVALIERI DAI.
La generala Sorrengail non è interessata ai palesi deficit strutturali di sua figlia. La mia è una stirpe di guerrieri devastanti, cara la mia Violet, zitta e pedalare! Morirai dopo tre minuti? È possibile, ma almeno io non sarò disonorata! Una persona deliziosa, la generala Sorrengail.

Violet, con qualche comprensibilissima piva nel sacco e la certezza quasi matematica dell’annientamento, è costretta a obbedire e il romanzo la segue mentre fa del suo meglio per sopravvivere in quest’accademia piena di sadici, megalomani, rosiconi, attaccabrighe e traditori della patria. Anzi, di figli e figlie dei traditori della patria.
Cosa si impara in questo posto infernale e inutilmente pericoloso? A menarsi forte in vari modi – ma comunque MOLTO FORTE -, a tirarsi dei coltelli mirando in posti letali e a volare in groppa a dei draghi grossi e cattivi che san tutto loro e te devi starli a sentire se no ti danno fuoco.
UN’ATMOSFERA SPLENDIDA.
Non si capisce il perché, ma la gente fa la fila per iscriversi a Basgiath, anche se ben che vada ti mandano a difendere i confini del regno dai grifoni (non chiedete, smettete di farvi domande) e non mi pare che nessuno parli mai di soldi. Insomma, è un mistero, ma tutti vogliono fare i cavalieri. Gloria! Fama! Prestigio! Vite brevissime e difficili!

Vi risparmio un trattato sui dolori articolari di Violet, ma vi basti sapere che il suo ingegno non andrà sprecato. La competizione è spietata, anche perché i draghi che ogni anno accettano di prendere in groppa qualcuno – AKA di “legarsi” a un cavaliere – son sempre di meno e i confini di Navarra vacillano sempre più. I confini reggono proprio grazie alla magia dei draghi, che i cavalieri possono incanalare per fare pure loro numeri circensi utilissimi. 
Vi puzza di Grishaverse? BINGO, MA QUA ABBIAMO I DRAGHI.
Che altro c’è? Dei boni.
Esatto.
Voi direte MA ACCIDENTI CON TUTTA LA FATICA CHE SI DEVE FARE PER SOPRAVVIVERE ALLE LEZIONI, AGLI ESAMI, ALL’AMBIENTE NELLA SUA INTRINSECA E STRUTTURALE OSTILITÀ DOVE TROVANO LA FORZA DI SVILUPPARE PULSIONI e invece ne sviluppano. E con che piglio, signora mia.

Devo ammettere di non aver afferrato subito questo risvolto “romance”. Cioè, io ero convinta di avere per le mani un fantasy zarro e morta lì, anche se la descrizione del Bono Titolare della saga che Violet ci offre già a pagina 20 era un indizio piuttosto macroscopico. Io, però, che son riuscita a prendere un 30 e lode parlando di Jurgis Baltrušaitis non ho colto con la necessaria tempestività. Nonostante la mia farraginosità di comprendonio, è chiaro che Xaden Riorson sia estremamente prestante – e già sappiamo come andrà a finire. Perché sì, come volete che finisca. L’importante è scoprire come ci si arriva. Ci sono ostacoli? OVVIAMENTE. Xaden è figlio del capo della ribellione, giustiziato dalla madre di Violet insieme al resto degli insorti. Il regno di Navarra, in segno di clemenza – e con la speranza di farli crepare – ha però accettato che gli eredi dei separatisti si arruolino all’Accademia. Serpi in seno o risorse preziose? Chissà. Nel dubbio, però, Xaden andrebbe giudicato PERICOLOSISSIMO e assetato di vendetta. Pronto, Violet? Hai capito? Mi sa di no.

Non sto qua a menarvela ulteriormente per non levarvi sorprese e rovinarvi i copiosi colpi di scena. Tante cose sono mega telefonate, il fottutamentometro sfonda la soglia di guardia, la perenne tensione sessuale fa a tratti molto ridere e sì, pare un mischione tra Shadow & Bone, Hunger Games, Avatar e #REYLO – diade nella Forza, non scordiamoci questa perla -, ma mi sono innegabilmente divertita e non mi vergogno di dichiararlo. Al netto di quanto per me 10 pagine consecutive di amplessi (scritte come sono scritte) risultino comiche, avere un’eroina che non pare uscita dal Sacro Ordine delle Carmelitane Scalze è una componente di corroborante positività. Mi piace il temperamento di Violet – che è da subito decisa a non frignare e a sbrogliarsela da sola, anche se è piena di problemi – e trovo stupenda tutta la faccenda dei draghi e dei poteri. Xaden? È un bello che balla, quindi ci piace anche lui. Insomma, se volete leggere una roba TAMARRA, sentirvi intrattenute/i sia sul fronte dell’azione che dei sentimentoni travolgenti – cringe compreso – e v’accontentate di un world-building che mira a farvi capire l’essenziale senza chissà quali dissertazioni enciclopediche, penso che ve la spasserete. Ci sarebbe da trovarsi per bere quattro gin-tonic a testa e parlarne senza dover schivare gli spoiler, perché allora sì che ce la ghigneremmo davvero. Anzi, bisognerebbe proprio buttare in piedi un bingo o un drinking-game. “Violet ammira i muscoli scolpiti di Xaden”: giù un vodkino. “Violet non è capace di fare quello che fanno gli altri ma è troppo orgogliosa per ammetterlo e PIUTTOSTO DI ARRENDERSI CREPA”: giù una tequila. Le possibilità sono infinite… ma mai quanto le cicatrici che deturpano LA SCHIENA MARMOREA DI XADEN RIORSON. Gira così, io ve lo dico.

L’esordio di Dizz Tate – tradotto da Annalisa Di Liddo per Neri Pozza – è senza dubbio da apprezzare per il quadro tematico che apparecchia, ma non possiamo manco far finta che sia un libro chiaro, leggibilissimo e limpido. Insomma, Bestie va da qualche parte e ci va con pagine potenti e con rara padronanza di una voce narrante originale – ci torniamo, perché è un punto centrale -, ma s’impantana anche in un’opacità strutturale che mi ha fatto faticare e mi è spesso parsa pretenziosa. Si son sprecati i paragoni con Le vergini suicide – perché se la vicenda ruota attorno a un gruppo di ragazze alle prese con vari orrori, interiori e/o mutuati dal mondo ECCO vuoi non tirare a mano Eugenides? Non sia mai! – ma la somiglianza col romanzo delle sorelle Lisbon mi pare resti un lontano auspicio. Bestie  è un libro che fa decisamente dell’altro… per quanto risulti astuto vendercelo così.

Che succede, in sintesi?
Le “bestie” sono un gruppo di tredicenni. Vivono in una cittadina della Florida, in una sorta di stretta simbiosi. Si appostano e osservano quel che succede nei dintorni dei loro palazzoni in riva a un lago fetido e scuro, guardano TUTTO nella speranza di essere viste, amate, scelte, ma restano ai margini. Vengono da famiglie senza padri, girano scalze, nessuno si prende la briga di accudirle davvero e nessuno sa cosa facciano, in fin dei conti. Quando  Sammy – ragazzina d’oro che le nostre bestioline idolatrano e osservano con particolare trasporto – sparisce nel nulla, tutta la comunità si mobilita per cercarla. Possibile che loro non ne sappiano niente? Lo scopriremo strada facendo.

Il racconto della ricerca di  Sammy è il pretesto che serve per addentrarci in un microcosmo ermetico, inserito in una landa desolata. Le ragazze si nutrono di sogni di fuga e biglietti da conquistare per volare a Los Angeles e diventare delle star. La cultura della celebrità è lo specchio delle loro grossolane illusioni, ma anche del loro candore disarmato, riottoso, cattivo. Si ripetono come un mantra “sei bellissima, potresti fare la modella”, ma hanno i piedi mangiati dalle formiche rosse, i denti blu per i ghiaccioli zeppi di coloranti e i capelli sporchi. “Ti amo, sei speciale”, vorrebbero sentirsi dire, ma il ragazzo di cui si invaghiscono in blocco resta un miraggio da spiare col binocolo. 

Tate mette in scena il loro legame trattandole come una coscienza collettiva. Parlano col “noi”, come i Borg. Il “noi” ci racconta quel che capita durante le ricerche di Sammy, ma il libro prosegue dedicando capitoli proiettati nel futuro alle singole bestioline. Che fine han fatto? Quell’estate ha lasciato segni indelebili? Che adulte sono diventate?
Ecco, quel “noi” è interessante da leggere. È ipnotico, zeppo di ritualità, terrificante nella precisione con cui riesce a cogliere determinate sfaccettature dell’adolescenza. I capitoli “individuali” fan confusione, secondo me. Inseriscono altra roba che dovremmo intuire in filigrana ma invece di alimentare il mistero – dov’è Sammy? Cosa è successo davvero? – introducono elementi tra il mostruoso e lo straniante che pasticciano un orizzonte narrativo già estremamente opaco. Ci son cose che emergono a livello tematico – il bisogno d’amore, l’esclusione, il degrado, il divario di potere, la violenza, l’illusione – che sarebbe stato bello vedere forse affrontate di petto, con meno giri metaforici o ricorso a mostruosità che sembrano ridicole in confronto a quanto di mostruoso possono farsi le persone. Che si tratti di un tentativo di riflettere sulla validità dei ricordi traumatici? Quanto possiamo fidarci (a posteriori) del nostro punto di vista, in situazioni che ci hanno terrorizzate e che non avevamo gli strumenti per gestire? Non si sa, perché finiamo pure noi con la testa nell’acqua scura del lago. E nessuno viene a cercarci, perché nessuno cercherebbe le bestioline… loro non sono Sammy. Noi non siamo Sammy.

 

Gli uomini di Paolo Cognetti sono di poche parole, si sa. In Giù nella valle – in libreria per i Supercoralli Einaudi – si dicono ancora meno. È il libro stesso che sembra addensarsi, contrarsi e ridurre al minimo grandiosi scenari e chissà quali descrizioni. Siamo sempre in montagna, ma nello spazio presidiato dall’uomo. C’è un avamposto più remoto, ma ora non ci vive più nessuno: nel giardino di casa sono cresciuti i due alberi piantati per i figli, ma il padre non c’è più e di quel posto così significativo ma deserto bisogna disporre. Luigi non ha mai lasciato la Valsesia, ha rimediato un buon lavoro da guardia forestale e aspetta una bambina da Betta. Alfredo è andato a tagliare alberi in Canada, perché lì dalle loro parti si era già messo abbastanza nei casini. Il futuro che i due fratelli immaginano non potrebbe essere più diverso, ma in comune hanno un talento poco invidiabile per il bere. Luigi si è messo paura da solo, Alfredo non pensa d’aver molto da perdere. Si rivedono dopo anni ma non sapremo mai cosa si sono detti, anche se è in casa “loro” che si sveglieranno. Lassù non c’è traccia del presunto lupo che sta ammazzando i cani del fondovalle, ma è agli esseri umani mai del tutto addomesticati che Cognetti si avvicina. Cosa rimane di noi quando si spegne la luce? Chi possiamo dire di essere, quando riapriamo gli occhi senza memoria di cosa è successo la notte prima? Chi conta i danni e raccoglie i pezzi?

Non so se questo passo più “breve” e rarefatto funziona perfettamente per me, ma è una storia che nel restare ruvida e piena di solitudini fa balzare fuori dei calori improvvisi, anche se le mani tese che possiamo sperare di afferrare sono poche. Non siamo più in vetta, ma è lungo la Sesia – o IL Sesia, l’articolo d’elezione qualifica anche la nostra provenienza – che la montagna continua a farsi presenza che scava nelle faccende minuscole delle persone. È senza dubbio una storia di convivenza fra natura e gente, fra bestie “libere” e uomini selvatici. E su tutto si allunga l’ombra di quei progetti che ci vendono territori da “valorizzare” e che portano soldi ma portano via alberi, che modificano chi ha scelto di rimanere anche quando non conveniva. Che si tratti di cani, lupi o fratelli, forse si scappa più dal vecchio che dai timori del nuovo: è dalle radici che ci ricordano fin troppo bene chi siamo che ricaviamo le desolazioni più intricate.

[Colonna sonora d’accompagnamento – su “consiglio” tematico-spirituale dello stesso CognettiNebraska di Bruce Springsteen. L’album, anzi, è l’ossatura di questa storia.]
[Per ulteriori esplorazioni, qua sul blog trovate anche La felicità del lupo.]

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.

Per tradurre bisogna essere allo stesso tempo umilissimi e superbi: si lavora con la consapevolezza della fallibilità – e forse anche della fondamentale impossibilità del compito – ma lo si fa come se l’esattezza incontrovertibile fosse una meta plausibile, realistica. Non è mai vero, ovviamente, e forse è per quello che le macchine traducono così male. Un’entità che funziona per esattezze non sa (e speriamo non impari mai davvero) come gestire il grigio. E la traduzione è una gigantesca campitura grigia. Va così perché le lingue non sono una fila di mattoncini immutabili e non sono fatte di parole fossilizzate: le lingue vivono nell’esperienza di chi le parla e di chi le scrive, sono cultura, mito, riferimenti condivisi, radice antica e germoglio imprevedibile. Il ramo che un secolo fa (o ancora prima) è spuntato per darci modo di descrivere qualcosa che prima non esisteva è oggi la matrice di mille altri significati. Si lavora brandendo contesti, mettendoci addosso una voce che non è la nostra, cercando di capire da dove si parte e dove è necessario arrivare: si fa un ponte e lo si percorre portandosi sulle spalle un agglomerato di parole che la traversata è destinata a trasformare.

Perché si traduce? Per rendere fruibile un testo a chi non conosce la lingua d’origine di quel testo.
Perché si traduce *davvero*? Perché le storie meritano di trovare chi ha voglia di leggerle e nessuna barriera ha mai giovato al sapere o alla scoperta.
La tradizione biblica individua nel crollo della torre di Babele l’inizio della discordia tra i popoli, che prima erano in grado di comprendersi senza intermediazioni e senza possibilità di fraintendimento. L’unità dell’umano era un’unità linguistica che annullava le distanze e rendeva possibile il progresso, perché capirsi è costruire insieme. E “Babel”, non a caso, è anche il nome del dipartimento di traduzione di Oxford al centro di questo romanzo di R.F. Kuang – tradotto da Giovanna Scocchera per Mondadori (Oscar Vault) con maestria e sprezzo del pericolo.

Cosa succede?
Kuang decide che i traduttori hanno in mano il mondo. Anzi, che la traduzione è la chiave per il dominio del mondo.
La premessa è la trasformazione di una manchevolezza strutturale – tradurre in maniera perfetta è impossibile – in una risorsa. Le lingue non combaciano mai in maniera totale e assoluta perché i termini possono obbedire a un ventaglio di sfumature, possono descrivere una specifica area culturale che non si riscontra simmetricamente in altri luoghi/tempi, possono riferirsi a tradizioni o trascorsi storici che per forza di cose non sono condivisi da chi appartiene a dimensioni differenti. Tutti quei termini che “non si possono tradurre” vivono in un limbo che, se correttamente esplorato dagli studiosi di Babel, può produrre effetti tangibili sulla realtà – e il monopolio sulle altre civiltà. Il tradimento che si annida in ogni traduzione è un bacino di combinazioni semantiche da incidere su tavolette d’argento – ricchezza vera delle nazioni in questa versione alternativa dell’Inghilterra del 1800 e rotti – che producono una specie di “magia” linguistica. Scegliendo le parole giuste e collocando le tavolette dove si ritiene possano funzionare, insomma, si tengono su ponti, si fanno andare le navi più veloci, si mantengono le carrozze in carreggiata, si riducono guasti ai macchinari, si uccide, si allestiscono impianti d’allarme… si fanno i soldi, sia per Babel che per l’Impero.

Santo cielo, non è già un’idea affascinantissima? Non sto qua a sciorinarvi esempi di applicazione delle tavolette perché è molto gustoso trovarli man mano che si legge e non voglio soffermarmi molto nemmeno sul quartetto di studenti che arrivano a Babel per cominciare i loro prestigiosi studi. Sono dei simboli, anche loro. Una è figlia dell’Impero mentre gli altri tre sono a vario titolo prodotti del dominio coloniale. “Vi salveremo e vi istruiremo – anche se siamo sempre noi ad aver asservito e spremuto la vostra madrepatria -, voi ci riserverete gratitudine e impiegherete a beneficio di Babel e dell’Impero tutto quello che vi insegneremo. Vi disprezziamo e la vostra gente non è civilizzata, ma siete indispensabili alla nostra macchina produttiva”. Perché Robin – che l’unico studioso di lingue asiatiche di Babel strappa dalle braccia della madre morente a Canton -, Ramy – indiano – e Victoire – haitiana – sono così importanti? Perché conoscono lingue non ancora battute da Babel. E una lingua che non è ancora stata setacciata in profondità è un bacino inestimabile di nuove combinazioni. Ma cosa succede quando tre bambini che crescono dovendo ringraziare i loro “benefattori” anche per l’aria che respirano si rendono conto di chi sono? Qual è il vero tradimento: tradurre “male” o rendersi complici di un sistema fondamentalmente predatorio, paternalistico, impari e oppressivo?

Se il tema della traduzione vi affascina, se siete ancora in attesa di una letterina da Hogwarts, se siete in cerca di un sistema magico davvero originale e se i temi legati al colonialismo, alla “legittimità” delle rivoluzioni e all’etica applicata ai sistemi economici e alle relazioni globali vi stanno a cuore, Kuang ha confezionato il romanzo per voi. È una storia stratificata, importante, ricchissima di spunti di discussione. Ci parla da un’epoca parallela, ma arriva al cuore di molte storture di oggi… e ci arriva perché per una manciata di valori fondamentali dell’esistenza non dovrebbero esserci zone grigie. Ci arriva perché la traduzione, quando è al nucleo dell’umano che si rivolge, è capace di ricostruire la Babele perduta.

Una cittadina del Sud degli Stati Uniti viene all’improvviso sconvolta da un evento traumatico: un ragazzo si alza in piedi durante la messa, rovescia una tanica di benzina e la chiesa prende fuoco, uccidendo quasi tutti. Il gesto pare premeditato e non c’è dubbio sul fatto che quell’Iggy fosse un tipo “strano” – almeno secondo gli standard di Harmony – ma a distanza di venticinque anni dall’accaduto nessuno riesce ancora a capacitarsene o a spiegare le ragioni profonde di quel che è successo. E Iggy, che attende in carcere l’iniezione letale e dalla finestrella della sua cella aspetta la fioritura dell’unico albero che può vedere, ripercorre insieme a noi il mistero di un gesto che ha definito la sua vita ma che sembra non essergli mai appartenuto.

Michael Bible condensa le ripercussioni di questo disastro collettivo (e i mille colpi di testa di chi cerca di crescere in un posto che non ha un centro) in questo romanzo breve ma densissimo, a suo modo lirico ed estremamente “vivo”, nonostante il paesaggio privo di appigli e prospettive di futuro. La staticità di Harmony, la tenace impresa di nascondere sotto al tappeto quel che trascende la norma o increspa la superficie impenetrabile dell’accettabilità, è uno specchio che deforma anche i luoghi più sicuri. Iggy trova rifugio dove può e fin dove le persone che ama glielo consentono, ma si scappa fin quando le gambe reggono e fin quando si può immaginare una meta alternativa, che non sempre c’è. Chi vuoi che ti ascolti, quando nemmeno tu sai spiegarti perché tutto ti respinge?

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra si legge con rapidità ma sedimenta con calma, perché molte desolazioni si riempiono agitandosi qua e là sperando di imbattersi in un posto dove fare il nido o in qualcuno che “veda”, senza volerci necessariamente aggiustare, convertire, placare. La voce di Bible – nella resa bellissima di Martina Testa per Adelphi – sembra antica anche se parla di stazioni di servizio, robaccia che si beve, secondini che vengono a chiederti cosa vuoi mangiare per l’ultima volta. Iggy resterà un enigma, ma vi sembrerà un essere umano che ha cercato molto senza trovare assolutamente niente.