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Claudia e Francesco condividono un legame antico. Un po’ dipende dalla fascinazione di lui e un po’ dalle circostanze: la madre di Francesco e il padre di Claudia sono amanti. Quando, ancora ragazzini, si trovano a dover imparare a convivere con questa realtà parallela – che sgretola famiglie “ufficiali” ma spalanca uno spazio di sentimento libero, nonostante tutto – diventano un punto di riferimento l’una per l’altro. In comune hanno più di quanto si potrebbe sospettare e, negli anni, nemmeno la distanza li separerà, perché quello che davvero li fonde è l’essere perennemente spostati rispetto al contesto a cui appartengono.
I ritmi del distacco sono diversi. Claudia sceglie di andarsene dalla Puglia appena può, prima per studiare a Milano e poi per lavorare all’estero. Francesco resta, ma la sua vita “reale” è nel contatto assiduo che mantiene con Claudia, in quello che capita a lei molto lontano – amori compresi. Quel che si dicono, le poesie che si leggono, la musica che si scambiano sono da sempre una rete di salvataggio e il muro di cinta del loro universo privato. Ma per quanto potranno continuare a sorreggersi “da lontano”?

Spatriati di Mario Desiati è un romanzo che si allontana dalla narrazione di relazioni “lineari” e dall’utilizzo dei luoghi come cornici neutre o mero sfondo. Claudia e Francesco abitano un limbo fluido che si apre a un’idea di famiglia come spazio interiore, di ricerca di identità e di sperimentazione sessuale. Racconta anche di una generazione che osa immaginare l’altrove e che colleziona sconfitte, facendo della possibilità di mutare la sua unica vera arma. Si va alla deriva e si accetta quest’estraneità strutturale, senza mai smettere di cercare. Quel che salva, quel che fa “casa” è chi ci vede per quel che siamo e che nel tempo ci ha permesso di scoprirlo.

Per buttarla in metafora astronomica, Claudia e Francesco sono una specie di sistema binario che funziona con una gravità tutta sua, accogliendo nella sua orbita erratica parecchie meteore – più o meno destinate alla permanenza. In realtà, però, quel che davvero si cerca è una stella polare – che ritroviamo sempre anche se cambiamo latitudine. E c’è chi nella sua latitudine non si amalgama mai, ma ha avuto l’occhio lungo di scegliersi una stella polare molto brillante.

Qua ci sono io che arrivo in ritardo di un anno buono sulla vittoria dello Strega Giovani e ancora più in ritardo rispetto al tempo di reazione canonico che si riserva alle novità, ma pazienza. L’importante è arrivare. Che potenza, Tutto chiede salvezza. Mencarelli regala ossa e un passo più lungo alla sua poesia e, qui, compone il diario di una permanenza in un posto dove non si approda mai per volontà e consapevolezza, un luogo di mezzo che può rappresentare un momento di passaggio o un buco in cui si sprofonda in via definitiva.

A vent’anni, nell’estate del 1994 – quella dei primi mondiali che pure io mi ricordo bene – Daniele viene sottoposto a TSO per un episodio di furore violento. Demolisce casa, fa venire un mezzo coccolone a suo padre e riacquista lucidità solo in ospedale, nel reparto “dei matti”. La prima cosa che si ricorda è il suo vicino di letto – uno che parla con la Madonna e basta, ripetendo sempre la medesima formula – che cerca di dargli fuoco ai capelli.
Questo libro è il diario quotidiano della settimana che Daniele trascorrerà rinchiuso con altri cinque pazienti che, come lui, hanno smesso ad un certo punto della loro vita di “funzionare” correttamente – almeno in base agli standard di normalità in cui tendiamo a classificarci e in base al grado di sofferenza “privata” che siamo capaci di sopportare prima di sfaldarci.
Tutti quelli in grado di sostenere una conversazione vivono il TSO con un misto di sconfitta e di sollievo, come una bolla in cui potersi rapportare agli unici che capiscono davvero – gli altri “matti” – e staccarsi da una realtà che periodicamente li destabilizza, li rifiuta, li ferisce. Il mondo vero è dove si vuole stare, ma il mondo vero è anche capace di scatenare quello che vorrebbero tenere sepolto. Gran parte dello star male, si raccontano i compagni di stanza, è convivere con il timore che la pazzia torni, senza più riuscire a scacciarla.

Daniele è già stato in cura e ha sperimentato una nutrita sfilza di farmaci, ma continua a non digerire l’indifferenza con cui il mondo distribuisce sofferenza, assurdità arbitrarie, accidenti e disastri. È come se gli mancasse la pelle, quel minimo di scorza che rende sopportabile l’immagine del futuro. Vorrebbe proteggere chi ama, vorrebbe trovare un angolo di pace dove rifugiarsi quando riaffiora il pensiero che sforzarsi è inutile, perché tutto è destinato a sbriciolarsi e a svanire. Come si può gestire il presente se non vediamo altro che la polvere che resterà di noi?

Nella settimana di TSO, conosceremo con Daniele medici, approcci terapeutici, porte chiuse, padri che imboccano e pettinano figli catatonici, infermieri spavaldi e spaventati. Impareremo a orientarci insieme a lui in un reparto dove non c’è nulla da fare, a parte provare a star tranquilli in attesa della seduta giornaliera con lo psichiatra, che ben di rado si rivela risolutiva. Sarà un’incursione in un microcosmo inconcepibile anche a chi ci si ritrova ricoverato, perché nessuno ha chiesto davvero di starci, così come nessuno ha chiesto di star male o di rimanere congelato all’improvviso con lo sguardo fisso nel vuoto.
È un posto dove si cercano le motivazioni di una sofferenza che spesso non ha nome, che si palesa acquisendo la forma di quello che distruggiamo quando si impadronisce di noi. È un posto dove si lotta per continuare ad essere percepiti come persone e dove la scienza prova a ricomporre il caos, facendosi spesso scudo con una scorza ispida di cinismo difensivo.

Insomma, è un libro magnifico.
Mencarelli riesce a raccontare delle enormità con la grazia che nasce da una consapevolezza e da un rispetto profondi. Credo venga da lì anche la scelta linguistica di far parlare le persone come davvero parlano le persone – con le loro sfumature geografiche e gergali, senza ripulire i dialoghi uniformando ogni voce a un italiano asettico “da libro”. In un reparto dove si finisce perché si perdono i punti di riferimento, mi è parso opportuno, corretto e “giusto” lasciare a chi ci transita la possibilità di farsi sentire per quel che è. C’è chi perde anche la voce e, se è rimasta, Mencarelli sceglie di restituircela così com’è.

Per provare a tirare le fila, è un libro magnifico, ma è anche un libro che fa paura, perché quello che si intravede incessantemente è la porosità del confine. Non si scegliere se stare dentro o fuori. Non dipende dalla volontà, dall’impegno o da quanto pensiamo di essere in credito col mondo, perché anche noi – con intensità diverse – cerchiamo ogni giorno di venire a patti con la grande paura definitiva di Daniele: il terrore che, in fondo, nulla di tutto questo abbia senso. Che quell’angolo in cui siamo salvi, al sicuro, sia solo una delle tante storie che ci raccontiamo.

Dunque, sono sempre molto avvinta dai libri che usano la struttura come un elemento “strategico” che contribuisce a costruire la narrazione. In Tre piani di Eshkol Nevo, il gioco di prestigio si esplicita su diversi livelli. La base “architettonica” è una palazzina di tre piani in un quartiere residenziale di Tel Aviv. Il romanzo dedica una sezione a ogni piano, addentrandosi nelle vite, nei tormenti e nelle ripartenze di chi abita lì.

La suddivisione materiale del palazzo diventa anche la base per una metafora ulteriore: ogni piano rappresenta una componente freudiana della personalità e mette in scena, con le storie delle famiglie che occupano quei piani, l’idea di Es, Io e Super-io.
I piani, proprio come accade tra vicini di casa in un contesto non particolarmente vasto, presentano punti di frattura e di permeabilità: le persone si incontrano, si sfiorano ed esercitano un’influenza più o meno marcata sulle esistenze degli altri condomini, così come gli “scomparti” della nostra personalità non esistono nel vuoto, ma contribuiscono a un “chi siamo” complessivo.

Serve una laurea in psicologia per approcciarsi a questo romanzo? Direi di no. Anzi, la suddivisione dei piani scandisce il ritmo delle storie, che restano umanissime, vive e complesse, senza il rischio di farci scivolare nel pippone indigeribile. Nevo ha un indiscutibile talento per il dettaglio rivelatore e per la narrazione del quotidiano – tanti minuscoli accidenti dell’ordinario, tanti sfondoni istintivi e tradimenti silenziosi diventano, insieme a quanto di positivo possiamo ricavare dalla vicinanza, un ritratto formidabile di come ci relazioniamo con gli altri e di come proteggiamo noi stessi dal male e dal disastro, non sempre vincendo.

Nota di fruizione: ho ascoltato Tre piani su Storytel. L’audiolibro affida ogni piano a un lettore diverso – come mi pare anche appropriato, dato che tre sono le diverse prospettive e i tre mondi in cui Nevo ci trascina. La scelta del terzetto è quantomai felice: Adriano Giannini, Alba Rohrwacher e Margherita Buy.
Se vi va di ascoltarlo, rammento sempre che a questo link c’è un mese di prova gratuita per collaudare Storytel.

Sulle coppie felici si scrivono meno libri? È probabile. Il conflitto è molto più avvincente e ricco da raccontare rispetto al sereno decorrere delle cose. La felicità (sia coniugale che intesa come raggiungimento di un equilibrio personale) è il traguardo che non necessita di ulteriori precisazioni. “E vissero tutti felici e contenti”, che altro mai ti serve sapere? I libri sui matrimoni che si sfasciano, invece, sono una schiera foltissima, varia e riottosa. Barbara Frandino, con questo breve romanzo spigoloso, ci offre un altro spaccato di disastro e caparbi tentativi di raddrizzare una situazione che forse ha ormai superato il salvabile. Il nucleo apparente del contendere – non vi spoilero nulla che non si trovi già nelle prime pagine – è il marito che, oltre a cornificare la moglie, finisce per fare un figlio con l’amante.

Ma questo “niente, sai… è successo che ho fatto un figlio con un’altra”, si innesta su un’irrequietezza coniugale che ha radici profonde. Finiamo per domandarci dov’è che inizia davvero la catastrofe, perché due persone che stanno insieme da vent’anni si ritrovano a una distanza così fredda e siderale. Vale la pena di riprovarci? Avremo la forza e la volontà di rimettere insieme i cocci? Perché rimetterli insieme, poi? La risposta scoppia in faccia a entrambi mentre il marito è in cima a una scala per curare un albero, in giardino, e all’improvviso rovina a terra privo di sensi. La reazione della moglie diventa il segreto indigeribile che segnerà – più o meno consapevolmente – il corse delle schermaglie e dei tentativi futuri di rattoppare le cose, così come si cerca di rattoppare un cuore malandato.

Quanto siamo equipaggiati ad affrontare l’indesiderato? Quanto siamo disposti ad ammettere la fine di quello che ci sostiene e ci ha sostenuto per tanto tempo? Ha più peso la felicità che ricordiamo o il vuoto che viviamo nel presente? Senza fronzoli o svolazzi, Frandino esplora il pantano coniugale (e la maternità, mancata o compiuta), fa squagliare caffettiere e scompagina costantemente le carte, mostrandoci che è dalle apparenti minuzie che in realtà si prepara il campo di battaglia per l’indifferenza più bellicosa.

Gary Shteyngart ha un talento raro: ti fa ridere di cuore, ma ti mette anche addosso una gran voglia di sederti in terra a singhiozzare un po’. I suoi personaggi si ingarbugliano nel tentativo perenne di cambiare pelle e coltivano con caparbietà le speranze più varie, deformandole fino al paradosso dell’illusione. Si muovono in mondi sovrapponibili al nostro – come nel caso di Destinazione America, uscito per Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli – e contribuiscono a metterne in luce le storture, le ambizioni più malsane e le grandi occasioni perdute. Ho incontrato Shteyngart un mesetto fa a Torino, nel gran ribollire del Salone del Libro, e ho fatto del mio meglio per non lasciarmi annichilire dall’emozione. Sono una fan, che devo fare. Ed essere fan di un autore noto per la sua ironia e per la sua acutezza devastante è un problema ancora più grande, quando si tratta di sedersi lì e di non fare la figura della pianta da appartamento. In ogni caso, il buon Gary è stato di una gentilezza disarmante. Me lo immaginavo serafico, simpatico e brillante, avvolto in una nuvola di pessimismo divertito. E non mi sbagliavo. Spero davvero che abbia apprezzato quanto me il quarto d’ora che abbiamo passato a dirci delle cose in un cantuccio verdeggiante dell’NH Lingotto.

Due parole sul libro, prima di lasciarvi in pace a leggere l’intervista.

Destinazione America è un ritratto di Manhattan (e dell’America) alla vigilia dell’ascesa di Trump. Shteyngart ce la descrive utilizzando, in parallelo, due voci. Da un lato abbiamo Barry – “l’uomo più simpatico di Wall Street”, un finanziere che amministra hedge-fund in maniera non proprio eccezionale, ma che riesce più o meno sempre a cascare in piedi – e dall’altro c’è sua moglie Seema – figlia di immigrati indiani assai intransigenti, ha tutte le carte in regola per fare l’avvocato in uno studio prestigioso, ma ha sposato Barry e, ora, fa la signora ricca a tempo pieno. Vita idilliaca? Ovviamente no. Perché, al mondo, non tutto è in vendita. Barry e Seema partiranno ben presto per le rispettive tangenti, nel nome di una felicità che sentono di meritare ma che non sono ancora stati capaci di afferrare. Tra antichi rimpianti, Greyhound puzzolenti, autostrade che si snodano in un mondo fin troppo “reale” per gli standard di un milionario di New York, una meticolosa ossessione per gli orologi da collezione, ambizioni frustrate, scrittori boriosi, FBI e cantonate madornali, Shteyngart demolisce il sogno americano mettendo in mano il piccone proprio a due dei suoi “prodotti” di maggior successo. Che cosa resta? L’esigenza viscerale di scrollarsi di dosso le sovrastrutture e la vergogna per quello che siamo diventati, nel tentativo di riscoprirci – forse – un po’ più umani e predisposti, finalmente, all’imperfezione.

Di che abbiamo parlato? Un po’ di tutto, per mia fortuna.
Ecco qua le nostre chiacchiere.

Dobbiamo per forza partire dagli orologi, perché hanno un ruolo fondamentale all’interno del libro. E ho anche visto che le persone arrivano alle presentazioni cariche di orologi…

Oh, ma allora mi segui su Instagram! È vero. Spessissimo mi chiedono anche di autografare i cinturini! Forse pensano che la mia firma aumenti il valore dell’orologio. Credo sia vero il contrario, ma che ci dobbiamo fare.

In questo romanzo – e forse non solo lì – i soldi, insieme al tempo, sono un modo per misurare il valore di una persona.

Prima che iniziassi a scrivere questo libro, tutti i miei amici se ne stavano andando da Manhattan. I giornalisti, gli scrittori, gli artisti. Si stavano trasferendo tutti quanti perché non si potevano più permettere di vivere lì. Mi sono guardato un po’ attorno, allora. E mi sono chiesto: ma chi è rimasto? I banchieri, sono rimasti. Non c’è più nessun altro a Manhattan. Volevo parlare di loro, perché scrivo di New York e penso di dover raccontare la città così com’è… non posso creare una mia versione “inventata” di New York. Dopo qualche anno immerso in quel mondo ho cominciato a vedere tutto da una prospettiva basata sul valore. Ah, questa cosa vale TOT. Questa persona vale TOT. Vivere così è spaventoso. Poi ho fatto un passo indietro, per cercare di decomprimere. E mi sono spostato anch’io. Ora vivo a nord, per una metà dell’anno, in un piccolo centro a dure ore dalla città. E là posso concedermi di essere normale. Anche un sacco di miei amici che si sono trasferiti ormai vivono lassù, perché se lo possono permettere.

È un tema che abbiamo già incontrato, mi pare. In Storia d’amore vera e supertriste tutti hanno una specie di cartellino virtuale che fluttua sopra le loro teste e che mostra al mondo il loro valore.

Esattamente. Penso sia una conseguenza diretta dell’aver vissuto così a lungo a New York, quest’idea che ciascuno di noi abbia un numerino che lo qualifichi. Vale anche per Trump, che vuole continuare a farci credere che il suo numerino sia molto alto… anche se in realtà non lo è affatto.

C’è parecchio Trump, in questo libro. Quando hai iniziato a lavorarci?

L’ho scritto nel 2016, quando non era ancora diventato presidente. Credevamo che sarebbe rimasto un po’ in ballo nella corsa elettorale, ma nessuno pensava che potesse vincere. E poi, man mano che procedevo con il libro, mi sono ritrovato a dover aggiungere sempre più Trump… perché il 2016 stava andando in quella direzione.

Ecco, non mi ricordo a memoria il passaggio, ma a un certo punto c’è una frase che dice più o meno così: “Se sono così ricchi è impossibile che siano stupidi”. 

[Ride].

È uno dei grandi falsi-miti americani. Si pensa che la gente ricca sia anche incredibilmente intelligente. Barry, ovviamente, è molto ricco… ed è convinto di voler aiutare le persone. Ma le sue idee sono di un’idiozia assoluta. Vorrebbe istituire questo Urban Watch Fund per aiutare i ragazzini dei ghetti a comprarsi il loro primo Rolex. Eccomi qua, mi sto prendendo cura di voi!

Imprescindibile. In America è quasi obbligatorio che i “ricchi” diano l’impressione di voler aiutare la comunità con raccolte-fondi, iniziative benefiche, gran cene di gala. Ma vivono comunque in un universo completamente scollato da quello delle comunità che dovrebbero beneficiare della loro grande magnanimità. Che ne sanno?

Ma niente. Niente. Vivono in un mondo in cui esiste il loro club esclusivo di Midtown, il loro ufficio, la loro villa negli Hamptons. È un mondo veramente noioso. Io adoro mangiare… e in quei club il cibo è pessimo. Non so come facciano a campare così. Ho iniziato a portarli in giro per ristoranti. Ristoranti indiani, ristoranti veri. “Oh, santo cielo, che buono, ma pensa!”E hanno scoperto che si può mangiare qualcosa di incredibile per molto meno di 100 dollari a piatto.

In questo romanzo ci sono due punti di vista diversi. Abbiamo Barry, che parte per il suo viaggio – e chissà dove andrà a finire – e poi c’è Seema, sua moglie. Lei è una donna brillante, una che potrebbe farcela benissimo da sola, senza accalappiare un marito in mezzo agli hedgie di Wall Street. Che le è capitato?

La domanda non è solo cosa è capitato a lei, ma cosa è capitato a centinaia e migliaia di persone come lei. Incontravo di continuo mogli come Seema. Donne più intelligenti dei loro mariti, con un curriculum migliore di quello dei loro mariti. Quando si sposano, però, fanno due conti e cominciano a pensare che tutto sommato non valga più la pena lavorare. E si crea questo sistema sociale… futile. La moglie scorta i principini verso il futuro, punto e basta. È un sistema assolutamente misogino, che non aiuta nessuno. Ma immagina di essere il figlio di una queste mogli… che cosa fa la mamma? La mamma ha una laurea migliore di quello di papà ma passa tutto il suo tempo a escogitare un modo per far entrare il suo bambino ad Harvard. È davvero avvilente.

E le operazioni iniziano dall’asilo?

Iniziano dal nido, per certe scuole. Ho un bambino piccolo anch’io e quando abbiamo provato a iscriverlo – avrà avuto un anno, più o meno – ci hanno spiegato che no, la domanda va fatta pre-nascita. Insomma, se fai sesso e hai anche solo il sentore di aver concepito, la mattina dopo devi prendere il telefono e chiamare SUBITO. Salve, sì, abbiamo fatto l’amore proprio bene… potete tenerci un posto?

[COPIOSE RISATE NON TRASCRIVIBILI]

Uno dei veri problemi, in un contesto di questo tipo, è la gestione di quello che va storto. Ed è quello che capita a Barry e Seema. Loro figlio non è il bambino che si immaginavano, non sarà mai il principe che governerà il mondo. E non riescono ad accettarlo.

Esatto. Il loro bambino si colloca da qualche parte all’interno dello spettro autistico. La vita di Barry e Seema è strutturata per avanzare e convergere verso la perfezione – Barry per la sua infanzia tremenda, Seema per la severità dei genitori immigrati. Devono avere successo, ad ogni costo. E spunta una crepa, in mezzo a tutto questo. Per loro è così devastante da non poterlo nemmeno dire apertamente, Seema non può parlarne ai suoi. Devono far finta che vada tutto bene… ed è tragico, anche per il bambino.

Seema ha una cartella di foto sul telefono in cui Shiva sembra “normale”. E usa solo quelle foto, quando si tratta di far vedere suo figlio agli altri. All’inizio del libro vanno a cena dai loro vicini, che hanno questo bimbo perfetto che canta e recita filastrocche. E per loro è un’esperienza assolutamente mortificante.

Li distrugge. E Barry pensa, “ma com’è possibile? Io ho molti più soldi di loro! Mio figlio dovrebbe essere meglio del loro!”.

I soldi aiutano, ma a loro mancano proprio le basi di un rapporto umano significativo.

Non solo. Barry fa la spola da un’università all’altra distribuendo donazioni nella speranza che qualcuno smentisca la diagnosi di suo figlio.

E poi parte per il suo viaggio, che si trasforma in un’avventura comica e surreale. È come se vedesse il mondo per la prima volta. Oh, guarda, un Walmart!

Esatto! Ho un sacco di azioni di Walmart, ma non ne avevo mai visto uno! Incredibile!

Barry ha anche un’assistente che si occupa di ogni dettaglio della sua vita. Man mano che il viaggio procede, però, comincia a separarsi dalle sue carte di credito, dal telefono… che cosa rimane di Barry?

È proprio quello il domandone. Gli americani sono convinti che la loro vita sia composta da numerosi atti. Certo, si comincia col primo atto… ma puoi sempre diventare una persona diversa. È un paese grande, se vuoi trasferirti nel sud-ovest per allevare bestiame in un ranch o spostarti chissà dove per coltivare avocado lo puoi fare. In realtà, però, sei sempre la stessa persona. Quel che manca, a volte, nella mentalità americana, è la consapevolezza che dopo un po’ di tempo – quando ormai ha superato l’infanzia – non cambi più per davvero. Barry decide di partire per riscoprirsi, vuole ritrovare la sua fidanzata storica, fare questo, fare quello… ma alla fine è sempre lo stesso schmuck di prima.

Quando va a cena con i genitori della sua ex fidanzata si trova davanti a due persone paralizzate dall’imbarazzo, che cercano in tutti i modi di dirgli – invano – che il passato è passato.

Il passato è passato. La reazione di Barry? “Oggi posso comprarmi questo passato. Se solo avessi sposato la mia ragazza del college, tutto sarebbe andato in un’altra maniera”.

Verissimo. Sono tutti alle prese con un rimpianto antico o con un errore a cui cercano di porre rimedio. Forse è ormai un luogo comune… ma è possibile che nel sogno americano qualcosa sia andato storto?

Molto storto. Anzi, potremmo dire che è finito. Ma è stato bello, per un po’. Tutto finisce. E questa è un’altra cosa che gli americani non capiscono. Pensano di essere un paese eccezionale – non è mai esistito niente di così straordinario! – ma abbiamo avuto l’impero romano, il dominio spagnolo, l’impero mercantile olandese, l’impero cinese… è come un giro sulle montagne russe. E ora la parabola è decisamente discendente.

Forse è anche una conseguenza dell’economia che abbiamo costruito. Le cose vanno male ma non comprendiamo a pieno le cause… anche se siamo stati proprio noi a creare quel sistema.

Quando un sistema diventa ipercomplesso, com’è ora, è l’inizio della fine…

*

Grazie a Guanda per aver ritagliato un po’ di tempo anche per me nell’agenda massacrante del buon Gary. E grazie soprattutto a lui per le splendide chiacchiere. E per questo libro, che come sempre ci fa disperare per la spietata limpidezza di quel che ci restituisce… ma ci fa anche sguazzare con vero divertimento nell’arte nobilissima del paradosso.
🙂

*

All’inizio dei miei esperimenti con gli audiolibri, riflettevo sull’inevitabile ruolo di “mediazione” del narratore rispetto alla nostra esperienza di fruizione di un testo. Perché sì, ascoltare qualcuno che ci legge un libro implica che la voce che sentiamo non sia più quella che c’è nella nostra testa, ma quella di un’altra persona, che si inserisce fra noi e il materiale di partenza. È un bel cambiamento, che aggiunge un livello ulteriore di complessità e finisce inevitabilmente per lasciare un’impronta nel nostro rapporto con il libro.

Lamento di Portnoy mi è piaciuto così tanto perché me l’ha letto Luca Marinelli? Margherita Buy ha letto Lessico famigliare o Mal di pietre meglio di come me lo sarei letto da sola? Quella canaglia di Tony Pagoda ci guadagna, affidandosi alla voce di Tony Servillo?

Sono tre esempi estremamente virtuosi, secondo me. Ma può anche capitare che il “casting” non sia così stratosferico e che lo spazio che il narratore ci lascia per immaginare o per metabolizzare quello che sentiamo sia più risicato. Perché mica è facile leggere bene. E leggere bene per gli altri è ancora più complicato.

Per sbrogliare la matassa e capire cosa succede quando un lettore professionista si trova in cabina di registrazione con un testo, ho deciso di farmi raccontare un po’ di “backstage” da Renata Bertolas, che ho ascoltato con immenso divertimento su Storytel in Affari di famiglia di Francesco Muzzopappa. Perché Renata, diciamocelo serenamente, si è dimostrata una perfetta contessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna. E sono a più riprese schiattata dal ridere, meravigliandomi per la corrispondenza riuscitissima tra protagonista romanzesca e lettrice in carne, ossa e corde vocali.
Ecco qua le nostre chiacchiere su audiolibri, interpretazioni, lettori ed emozioni. Con molte ghignate da parte mia.

Per farvi un’idea di cosa succede davvero, Storytel ci ha elargito un periodo di prova potenziato. 30 giorni gratuiti invece di 14. Trovate tutto qua.
E grazie ancora a Renata per l’intervista – e per il suo magistrale snobismo nobiliare. 🙂

Quest’anno mi sarebbe piaciuto leggere di più, ma si fa quel che si può. In realtà, anche negli anni in cui sono riuscita a leggere “tanto”, sono comunque arrivata alla medesima conclusione. Mi sarebbe piaciuto leggere di più. Chissà se un giorno avrò mai la sensazione di aver finalmente letto abbastanza. Spero di no.
Comunque, tra un infante che cresce e una riorganizzazione radicale della mia esistenza, ho anche avuto la fortuna di imbattermi in diverse opere narrative – più o meno disegnate – che mi hanno donato incredibili soddisfazioni, per motivi diversi. La trama, la lingua, l’intreccio, il divertimento puro, il messaggio, i temi. Un libro può farti dire “ma guarda un po’ che bello” per parecchie ragioni. Qui ci sono i miei preferiti del 2017 (non necessariamente novità del 2017), con dei mini perché a sostegno di tanto entusiasmo e qualche link di approfondimento per i titoli che ho già affrontato in un #LibriniTegamini o in una recensione. Che se una roba mi piace è probabile che mi sia già venuta voglia di dire qualcosa.
Forse li avrete già letti anche voi. O forse no. In quel caso, fateci un pensiero.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 Marjorie Liu & Sana Takeda
Monstress – Vol. I e Vol. 2
Traduzione di C. Libero, A. Di Luzio

Monstress mi ha ricordato perché alle superiori ero così fissata con i manga e con Final Fantasy. Quest’anno ho letto i primi due volumi della serie (usciti nella collana Oscar Ink di Mondadori a distanza di qualche mese l’uno dall’altro) e sono rimasta ipnotizzata dalla meraviglia del disegno, dalla ricchezza ed estensione dell’universo fantastico raccontato (originalissimo) e dalla trama felicemente ingarbugliata. Altro aspetto positivo: eroine cocciute, devastanti e mega potenti EVERYWHERE. Più una vasta schiera di gatti parlanti e mostri coi tentacoli che non si ricordano più chi sono.

Il #LibriniTegamini abita qui.

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Gianluca Morozzi
Radiomorte

Una famiglia felice e famosa – paladina dell’autorappresentazione e del successo posticcio – viene invitata per un’intervista in una scalcagnata radio di provincia. Ad un certo punto, però, le porte dello studio si chiudono. E la DJ annuncia ai Colla che, al termine della giornata, uno di loro non uscirà vivo da lì. Un romanzo che non si riesce a mettere giù, pur scorgendone le super esagerazioni narrative e il ricorso ad ogni possibile declinazione del grottesco. Architettura favolosa, mille segreti ORRENDI da scoprire, scelte impossibili, umanità che fa schifo e angoscia a palla.

Il #LibriniTegamini abita qui.

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Chimamanda Ngozi Adichie
Quella cosa intorno al collo
Traduzione di Andrea Sirotti

La Adichie è una donna portentosa… e anche i suoi racconti non scherzano. Quella cosa intorno al collo è una raccolta di storie femminili che parlano di spaesamento (in bilico tra la Nigeria e gli Stati Uniti), di aspettative disattese, ostacoli pratici, dolorosi compromessi e ricerca della felicità. Una galassia di protagoniste accomunate dal bisogno di liberarsi da un onnipresente groppo in gola… o dalla necessità, spesso disperata, di imparare a convivere con la consapevolezza di non aver ancora trovato il proprio posto (sempre che un posto per loro esista).

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Margaret Atwood
The Handmaid’s Tale

Una distopia potentissima ed estrema che è pure diventata una serie TV (che espande il mondo della Atwood “allungando un po’ il brodo” ma rispettando splendidamente lo spirito del romanzo). Raramente mi è capitato di inorridire a tal punto di fronte alle coercizione e al tramontare della libertà raccontate in un libro. Architettura della Repubblica di Gilead a parte, quello che ho amato ancora di più (e che mi ha fatto anche molta paura) è la ricostruzione di come si arrivi all’instaurazione del regime. Le Ancelle diventano Ancelle. E una società intera si riconverte in nome di un’ideologia che, sulle prime, sembra troppo incredibile per essere presa sul serio dal mondo che sta per stravolgere. È una storia di identità perse e ritrovate, di tenacia, di ribellione e di sopravvivenza. È un libro che racconta un potere schiacciante e lo sforzo titanico che serve per ricordarsi, in una situazione estrema, che cosa ci rende umani.

Visto che siamo in tema, ecco qua il post che avevo scritto per Ragazze elettriche di Naomi Alderman, altra lettura assai thought-provoking di quest’anno.

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Matthew Weiner
Heather, The Totality 

Da grandissima fan di Mad Men, mi sono precipitata a leggere il primo romanzo di Matthew Weiner piuttosto istantaneamente, senza sapere bene che cosa aspettarmi. Heather, più di tutto – in italiano disponibile nei Supercoralli – è un romanzo breve ma incredibilmente denso e “centrato”. La storia è quella di una coppia di quarantenni – proiettati per direttissima verso gli agi di Park Avenue – che si sposano un po’ accontentandosi e un po’ sopravvalutandosi a vicenda. La nascita della desideratissima figlia Heather sconvolgerà gli equilibri, trasformando la bambina nel centro del loro mondo – ma anche nell’oggetto di un’incomunicabilità crescente, fatta di piccole meschinità quotidiane e dalla necessità di ostentare costantemente il proprio status e la propria artificiosa felicità. Sullo sfondo, una presenza inquietante, instabile e del tutto estranea si farà inesorabilmente strada verso i quartieri alti di Manhattan. Un piccolo gioiello di intrigo psicologico-familiare, rapidissimo da leggere, splendido nell’alternanza dei punti di vista dei diversi personaggi, ben architettato (anche dal punto di vista della tensione, sempre percepibile e “viva”) e sorprendente nel finale. Matthew, scrivicene un altro.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Jonathan Hickman & Tomm Coker
Black Monday – vol. 1
Traduzione di L. Fusari

Una graphic-novel visivamente gloriosa e assolutamente spiazzante per esplorare il legame tra sangue, soldi e potere. Una sorta di noir esoterico-finanziario ambientato tra Wall Street e le profondità dell’inferno. Incredibile, sia dal punto di vista “artistico” che da quello dell’intreccio narrativo.

Per approfondire, ecco qua la recensione più completa.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Donatella Di Pietrantonio
L’Arminuta

Vincitore del Campiello – che bello quando i libri che se lo meritano vincono i premi importanti -, L’Arminuta è un romanzo di formazione strappacuorissimo e viscerale. Mi ha ricordato un po’ le atmosfere della Ferrante – anche se la storia è ambientata in Abruzzo e la narrazione molto più incisiva e “concentrata”. Per farla MOLTO semplice, la storia è quella di una bambina che crede di essere figlia di qualcuno che, in realtà, l’ha solo presa in prestito per poi riparcheggiarla sull’uscio di una famiglia sconosciuta e molto diversa – per mezzi ed estrazione – da quella che l’ha accolta. È un libro che si interroga sull’identità, sul valore dei legami più profondi e sul margine di manovra che ciascuno di noi ha sulle proprie radici. Una lingua meravigliosa e una protagonista che si meriterebbe un posto d’onore nella galleria delle bambine ribelli con qualche storia della buonanotte da raccontare.

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Laura Pugno
Sirene

Dunque, Sirene vince il Premio WTF dell’anno. È senza dubbio il romanzo più assurdo e a tratti disgustoso tra quelli letti nel 2017. Scomparso per lungo tempo dalle librerie e ora riproposto da Marsilio, Sirene è di difficile riassumibilità. Vi basti sapere che nel futuro distopico della Pugno le sirene esistono, sono buone da mangiare, somigliano a dei lamantini comatosi e suscitano brame erotico-gastronomiche dalle vastissime e ramificate conseguenze.
Non è un romanzo, è una FOLLIA.

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Mohsin Hamid
Exit West
Traduzione di Norman Gobetti

Tornata dal mare, ecco cosa scrivevo di Exit West: “Hamid esplora il tema della migrazione e della fluidità delle società globali attraverso una storia d’amore che nasce nel momento meno propizio, in un paese sull’orlo del baratro, spaccato da una guerra civile che spazzerà via ogni speranza di normalità. I due protagonisti, come tanti altri, scelgono di abbandonare il loro mondo per avventurarsi verso l’ignoto, attraversando clandestinamente una delle tante ‘porte’ che conducono verso un altrove incerto. È un romanzo prezioso, saggio e umanissimo… e sospetto sia anche la cosa più bella che leggerò quest’anno”.
Ecco, non mi sbagliavo. Leggetelo per capire meglio il nostro presente. E anche un po’ per sperare in un futuro migliore.

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E Cognetti? Cognetti non c’è perché quest’anno ha già ricevuto tutti i complimenti che potevamo fargli.

Bene. Corroborata dalla magra consapevolezza di aver almeno riordinato un po’ le idee, mi appresto ad affrontare un nuovo anno di letture auspicabilmente FAVOLOSE. Mi sembreranno sempre troppo poche… ma speriamo si rivelino stupefacenti come alcuni dei romanzi in cui mi sono imbattuta nel 2017. Spero possano servirvi da ispirazione. Ai prossimi Librini!

Il gigantesco e problematico WHAT IF alla base di questa distopia super meritevole della nostra attenzione è il seguente: che cosa succederebbe se, all’improvviso, le ragazze si svegliassero con la capacità di friggerti le palle degli occhi con una scossa elettrica? E se, non paghe, fossero in grado di risvegliare il medesimo potere nelle donne più grandi di loro?
Mica è una domanda da poco.

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Ebbene, in The Power, Naomi Alderman esplora le ramificazioni e le implicazioni di questo imprevedibile cambio di paradigma, interrogandosi sulle conseguenze di una drastica redistribuzione della “forza”. Il titolo italiano del romanzo è molto astuto, ma credo che Ragazze elettriche sia molto più che una storia di femmine che si trovano di punto in bianco con il coltello dalla parte del manico. The Power è, a tutti gli effetti, una riflessione sul potere e sulle sue manifestazioni, sull’esercizio e sulla gestione morale (e pratica) della possibilità di prevalere, in maniera anche cruentissima.

Ma procediamo con ordine.

La Alderman assegna – con grande accortezza – la sua storia a quattro narratori, incaricati di mostrarci un lato della storia ciascuno (con le debite contaminazioni dovute al procedere della trama). Allie, una ragazza cresciuta da una serie sterminata di terrificanti genitori adottivi e approdata, alla fine, tra le grinfie di una coppia di ferventissimi cattolici, non meno spregevoli. Roxy, figlia “bastarda” di un boss londinese. Jocelyn, figlia insicura di una funzionaria pubblica che scalerà le gerarchie amministrative americane. E Tunde, giovanissimo reporter nigeriano che farà della documentazione del “movimento delle donne” il suo principale campo d’azione.
Quando la scintilla del potere comincerà a sconvolgere il mondo, questi quattro personaggi ci accompagneranno alla scoperta delle conseguenze sociali, mediatiche, politiche e religiose del fenomeno, dalla quotidianità alle grandi rivoluzioni.
Si comincia con un’ondata di vendetta che ci appare quasi doverosa – schiave sessuali che si ribellano ai loro carcerieri, vittime di abusi che trovano finalmente il modo di difendersi dai propri aguzzini, donne imprigionate dalle costrizioni di società pesantemente patriarcali che conquistano la propria indipendenza, alla faccia della religione e delle imposizioni della tradizione – e si prosegue con un lento e inesorabile rovesciamento dei ruoli – alla tv sono le donne a parlare dei “temi importanti”, mentre gli uomini si siedono su uno sgabello a sbattere le ciglia e a fare commenti sciocchini, quando proprio ci si disturba ad interpellarli; gli uomini si rifugiano in oscuri forum virtuali a meditare ritorsioni e a sviscerare teorie complottiste; la stessa idea di Dio si riconfigura in favore di una Madre onnipotente… e così via -, fino a raggiungere il punto di non ritorno, il paradosso della violenza cieca e del ristabilirsi di un ordine in cui la forza crea distanze, coercizione e sottomissione.

Insomma, il romanzo della Alderman non è una distopia girl-power, fa un po’ di più. Disegna una nuova faccia della medaglia e la ribalta di nuovo. Esplora le sfaccettature del potere e dell’idea di sopraffazione risalendo ai meccanismi che ci fanno sentire “in diritto” di sopraffare. Riporta a galla pregiudizi e ruoli canonici per smascherarne la piccolezza, senza prevedere un’assoluzione. Le colpe dei padri ricadono sulle figlie. E nemmeno le figlie sono innocenti, ora che possono far sentire la propria voce, camminare per una stradina buia senza avere paura e difendersi da chi vorrebbe schiacciarle. Che cosa diventiamo, quando ci scopriamo capaci di tutto?
The Power è un romanzo ambizioso, spesso brutale e sorprendente per inventiva e vastità della ragnatela delle cause e degli effetti che riesce a costruire. Spaventa per la sua razionalità, per la plausibilità della traiettoria distruttiva che traccia – ricordandoci comunque quello che fa schifo del nostro presente.
Rassicurante e super confortante? No, nemmeno per le ragazze.
Spietato ma incredibilmente interessante? Sì, per tutti.

 

Partirò con un commento che rallegrerà molto l’editore.
Io, di base, non sono una “lettrice Garzanti” – se con “Garzanti” intendiamo quel che ho sempre inteso io fino a questo momento. Per farla breve, non sono un’annusatrice di foglie di limone, il massiccio utilizzo di vegetazione in copertina mi fa sfasare, odio le fascette e ogni titolo composto da più di cinque parole tende a insospettirmi.
La buona notizia, però, è che il catalogo Garzanti non offre solo romanticismo a sfondo botanico-olfattivo, ma ci assiste valorosamente anche sul fronte letterario. Ed è una scoperta magnifica, che devo a un’autrice giovanissima (già finita nella lista dei migliori scrittori under40 di Granta, che è un traguardo di una certa rilevanza) e al suo esordio, contesissimo in tutto il mondo e pagato negli Stati Uniti con una bella milionata di dollari. Buon per te e per i tuoi ventisette anni, Yaa Gyasi. E buon per noi, che abbiamo un romanzo importante da leggere.

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Non dimenticare chi sei è un libro ambizioso, che racconta sette generazioni di uomini e donne accomunati da un’unica matriarca ma separati dal destino – quasi mai clemente. Il grande spartiacque è l’arrivo dei bianchi in Ghana – anzi, in Costa d’Oro – agli albori della tratta degli schiavi. Dal castello di Cape Coast, una delle fortezze da cui partivano le navi cariche di prigionieri africani da vendere oltreoceano, all’America dei nostri giorni, Gyasi ricostruisce la personalissima saga di una famiglia allargata e dispersa, alla ricerca della propria identità in un mondo che si riconfigura per istituzionalizzare il razzismo e legittimare il possesso e lo sfruttamento di un altro essere umano.
Dalle lotte tribali all’eroina che stravolge Harlem negli anni Sessanta, dalle piantagioni di cotone alle miniere di carbone, dal palazzo reale degli Ashanti ai jazz-club di New York, Gyasi ci accompagna in un viaggio lunghissimo, incaricando i suoi personaggi – uno diverso per ogni capitolo – di farsi portavoce di una storia gigantesca e di una “questione” ancora irrisolta. Il risultato è un romanzo epico ma personale, un’indagine importante alle radici di un problema che continua ad accompagnarci, nostro malgrado.
Che brava, perbacco.
E che bello trovare una Gyasi in quel di Garzanti.
Evviva!

I libri non fanno tutti lo stesso lavoro. Ci sono libri che vogliono mostrarci quello che non c’è – portandoci anche molto lontano – e ci sono libri che sembrano accontentarsi di quello che abbiamo già. I primi, spesso, costruiscono per noi interi universi dalle caratteristiche più o meno fantasiose e spericolate. I secondi, invece, fanno i modesti – ma può capitare che ci raccontino qualcosa di ancor più prezioso, scegliendo forse il modo più difficile. Perché lo sappiamo tutti com’è fatta una Panda. Sappiamo tutti com’è una casa piena di soprammobili o com’è fatto un paio di anfibi. Non sembra, ma raccontare il quotidiano in maniera meticolosa e “credibile”, con i suoi dettagli, le sue minuscole epifanie e le sue piccolezze, è molto complicato. Ma ogni tanto ci vuole.
Ecco, Il giro del miele di Sandro Campani è proprio uno di quei libri lì. Racconta la storia di una manciata di abitanti di un paese dell’Appennino tosco-emiliano. Ci sono boschi pieni di funghi da raccogliere, cani nevrastenici che abbaiano senza sosta, una falegnameria mandata avanti da due artigiani, abiti da sposa cuciti a mano, il bar in piazza. Tutto comincia – o ritorna – quando Davide bussa alla porta di Giampiero nel cuore della notte, finalmente pronto a raccontargli che cosa è andato storto. Giampiero era l’apprendista di Uliano, il padre di Davide, nella falegnameria dove lui giocava da piccolo ma che non ha voluto (o saputo) ereditare una volta diventato grande. Giampiero ha visto Davide innamorarsi di Silvia, sposarsi con lei – nonostante fossero così diversi – e vivere qualche anno di luminosissima felicità. E Davide ha visto gli affari di Giampiero rallentare sempre di più, fino a un incendio che gli ha portato via una mano e parecchie speranze. Chi si sfoghi con chi davanti al camino acceso non è chiaro e non è nemmeno importante. Ma c’è una bottiglia di grappa e la volontà, almeno da parte di Davide, di non arrendersi. Perché ha molto da farsi perdonare. E le parole giuste, spesso, vengono in mente sempre troppo tardi.

Campani Il giro del miele Tegamini

È una storia comune, una storia di provincia. C’è un matrimonio che si sfascia, una lince in agguato nel bosco, una lunga serie di discorsi mai affrontati, soldi che non bastano e che finiscono per metterti nei guai. Ci sono mogli, mariti, figli e sorelle che lavano la macchina, partono per un pic-nic in riva al lago, lavorano in una fabbrica di torte, incontrano soci poco raccomandabili, comprano un’ape regina che governi le nuove arnie o fanno trenta chilometri tutti i sabati per andare in piscina. Potremmo esserci tutti quanti, in questo libro. E parlare proprio come Campani fa parlare i suoi personaggi. La lingua è bellissima. Pulita, semplice, punteggiata di modi di dire e sfumature dialettali che sembrano invitarti al tavolo con Davide e Giampiero, come se da un momento all’altro arrivasse qualcuno a offrirti una fetta di torta.
Non è un romanzo fatto di avventure sconvolgenti e luoghi impossibili – …insomma, si arriva appena fuori Bologna, un po’ in collina. Ma di strada, senza spostarsi troppo dal soggiorno di Giampiero, se ne fa parecchia.
Una sorpresa meravigliosa.