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Le piante si evolvono facendosi gli affari propri. Alcune hanno sviluppato strategie raffinatissime per tenere alla larga i predatori – disgustandoli col saporaccio delle loro foglie o rincoglionendoli con principi attivi che puntano a disorientarli, più che a ucciderli – o per rendersi più gradevoli agli insetti impollinatori e, dunque, farsi “propagare” con maggiore zelo. Alcuni di questi grimaldelli evolutivi si esprimono in molecole o composti che, incidentalmente, producono effetti di varia natura anche su di noi. Usiamo le piante per alimentarci, curarci o tentare d’ingentilire il nostro aspetto da tempo immemore… ma che succede quando di mezzo c’è una potenziale alterazione dei meccanismi di funzionamento della nostra mente? La faccenda si complica. E si fa anche molto affascinante.

Senza lesinare sulle imprese di coltivazione, Michael Pollan raccoglie in Piante che cambiano la mente – uscito per Adelphi con la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra – tre approfondimenti distinti su altrettante sostanze psicoattive che, a vario titolo, hanno intrecciato una relazione solida e duratura con noi: l’oppio (ricavabile da papaveri molto più comuni di quel che potremmo sospettare), il caffè e la mescalina/il peyote. Sono tre reportage scritti in diverse fasi della carriera di Pollan, qui ricontestualizzati e rivisti per interrogarci anche sulla ricezione culturale, sociale e “criminale” del consumo. Se il caffè (e il tè) possono essere considerati stimolanti che potenziano la nostra performance e rientrano nel regno dell’accettabilità e della legalità, infatti, su oppio e allucinogeni si addensano riflessioni e strutture di controllo di ben altro tenore.

L’accettabilità di una sostanza, ci dice Pollan, è di fatto un costrutto sociale e normativo deliberato. Quel che non ha la capacità di disturbare l’ordine costituito “va bene” – ciao, caffeina che ci rendi più efficienti! – mentre su quello che può scatenare effetti meno mappabili e controllabili si legifera in maniera molto più stringente, in soldoni. L’oppio è un buon esempio di liminalità – e la crisi degli oppioidi negli USA fa ben capire quanto sia spesso sdrucciolevole il confine tra droga e farmaco – e il capitolo sulla mescalina allarga ulteriormente il campo accogliendo una nicchia di consumo molto specifica: per i nativi americani il peyote è una pianta sacra e uno strumento per preservare il collegamento con la sfera spirituale della natura, oltre che uno dei pochi collanti comunitari rimasti. Insomma, in questo libro si parla di piante, di persone e di norme condivise, più che di “sballo”.

Devo dire che m’aspettavo un’esposizione un po’ più vivace e meno guardinga e che non sono rimasta particolarmente colpita dalla voce narrante, ma ho apprezzato gli sforzi di allargamento del campo e l’approccio “multidisciplinare”. In inglese si usa drug sia per parlare di droghe che per definire i farmaci e le medicine… e forse il punto di questi tre pezzi sta proprio lì, nell’impresa fluida di definizione di un confine che per le piante da cui ricaviamo questi composti – capaci di alterare la nostra coscienza e il nostro modo di “funzionare” – semplicemente non esiste.

Dunque, quando ho finito il libro sono andata subito a cercare Grantland, la rivista che Brian Phillips – da quanto ci risulta dalla bandella – ha contribuito a fondare e animare con i suoi scritti. Voi risparmiatevlo perché posso già dirvi io che Grantland ha chiuso bottega e online restano solo gli archivi – vi metto il link, in nome della speleologia. Mi sono rattristata istantaneamente, perché immaginavo già di poter leggere a cadenza regolare una sorta di versione in tempo reale di questa raccolta di reportage, ma poi ho deciso che m’andava già benone aver incontrato Phillips nelle Civette impossibili – in libreria per Adelphi nella traduzione di Francesco Pacifico. Chissà, credo di essere diventata una che vede il bicchiere mezzo pieno, probabilmente perché visualizzo un bicchiere di rosso e non un bicchiere d’acqua.

Ma di che parla questo libro? Di varie ed eventualissime imprese umane, dalla corsa storica dei cani da slitta in Alaska (BALTO NON TI ABBIAMO DIMENTICATO) a quel che passa per la testa della famiglia reale britannica, dalle gerarchie del sumo a Locutus dei Borg. Ci sono tigri da avvistare nel folto di una foresta indiana e blockbuster caciaroni, le macerie di una famiglia di petrolieri e una gita all’Area 51 – spoiler: non si vede niente, c’è solo un cartello minaccioso in mezzo al deserto.

Sono reportage che non deragliano a causa di un’eccessiva invadenza del narratore ma che ne rispecchiano la curiosità sorniona e un po’ malinconica, il gusto per l’insolito misto a un buon occhio per il surreale
. Quel che c’è qui, anzi, è una grande collezione di episodi che paiono manifestarsi in universi lontani, popolati però da protagonisti che ne hanno fatto il loro orizzonte di normalità.
Ho un debole per la capacità d’osservazione altrui. E anche per le avventure. Non so cosa si provi a prendere un aereo per andare a sincerarmi di come si comportino i miti nel posto in cui si rendono accessibili agli esseri umani, ma mi sono goduta ogni incursione con l’interesse vispo che si produce solo all’intersezione tra narratore azzeccato e storia che vale la pena di raccontare – perché non ne sappiamo ancora abbastanza o perché c’è un modo “migliore” per avvicinarla, un’angolazione più propizia del nostro sguardo.

 

[Bonus track: un capitolo è dedicato a Norstein e al suo lavoro geniale, che si sviluppa in una sorta di mondo parallelo immune dalle scadenze ma tristemente soggetto alle necessità materiali.
Non so se mai vedremo l’adattamento animato del Cappotto di Gogol che cerca di portare a termine ormai da qualche decennio, ma Il riccio nella nebbia vive e lotta con coi. Lo trovate su Youtube e anche in questa versione libresca.]

 

 

Come parlare educatamente di soldi?
“1) Non parlarne.
2) Se ne parli, non essere specifico.
3) Minimizza quello che hai.
4) Enfatizza il fatto di averli guadagnati.
5) Non dimenticare mai che il lavoro è la storia che ci raccontiamo sui soldi.”
In questo memoir di economia “pratica” – tradotto da Chiara Veltri per Luiss -, Eula Biss sceglie di ignorare queste regole di buona creanza per parlare di soldi con insolita e corroborante franchezza, cercando di inquadrarci come agenti attivi che popolano un sistema collettivo fatto di scelte materiali, tempo e risorse scarse.
Cosa dicono di noi i nostri desideri? Quali parametri guidano le nostre decisioni di consumo? Dove possiamo tracciare il confine del privilegio? Qual è il nostro rapporto con le cose? Quanto costa decidere di essere “improduttivi”? Come si misura il valore dell’arte o del pensiero?

Partendo sempre da uno spunto di vita vissuta – che si tratti di bambini che commerciano carte dei Pokémon al parco giochi o di cosa accada all’economia domestica quando “vinci” il Genius Grant della fondazione Guggenheim -, Biss ripercorre in un susseguirsi di brevissimi capitoli le tappe della sua personale parabola di consumatrice pensante per interrogarsi sul potere dei soldi e sull’influenza che esercitano nello strutturare il nostro modo di concepire il lavoro, gli investimenti, le relazioni e la mobilità sociale. Possediamo casa nostra o di nostro c’è davvero solo il mutuo? È poi così disdicevole voler lavorare il meno possibile? Perché distinguiamo razionalmente il necessario dal superfluo ma non smettiamo mai di desiderare? Perché ogni nostro “progresso” pare verificarsi alle spese di qualcun altro? Da Virginia Woolf che maltratta la cuoca al potersi permettere un caminetto da 12.000$, Biss riflette sulla precarietà diffusa di un sistema che si nutre delle sue stesse estremità e che resiste vendendoci un sogno d’ascesa raramente corroborato dai fatti.

Va bene, ma è uno di quei libri paraculi che più che offrirci una riflessione su un problema trasversale, vero e pressante nasce come esercizio autoassolutorio fatto di grandi sensibilità esibite? A tratti l’ho pensato. Poi mi sono ricordata che scrivere un libro è un investimento molto precario. È ricerca costante di tempo, stanze tutte per sé e risorse che sostengano in anticipo la speranza futura che qualcuno paghi quel che stai facendo. Poche attività, forse, descrivono con esattezza quel che vuole raccontare questo libro come l’aver scritto questo libro. Perché, in un mondo dove sono i soldi a generare altri soldi, niente costa di più del tempo dedicato a qualcosa che forse non produrrà mai un beneficio monetizzabile.

Allora, io non so niente di meditazione. Non lo dichiaro per vantarmi di una lacuna – perché tendo a vergognarmi sempre molto delle mie lacune -, ma per palesare con franchezza un punto di partenza individuale. Non ho mai seguito un percorso di meditazione – né a livello di “corsi” né avvalendomi della nutrita galassia di app fai-da-te che ti spiegano come sgombrare la mente e trasformarti in un’entità superiore che affronta la vita levitando -, ma sto al mondo cercando di assecondare la curiosità, anche perché sarebbe assai noioso soffermarmi solo su quello che mi pare di conoscere già, senza trovare spiragli per scoprire mondi nuovi.
Eccoci dunque qui con Chandra Livia Candiani e Il silenzio è cosa viva – che è uscito nelle Vele Einaudi e che ho ascoltato su Storytel, potendo avvalerci solo dei tormenti narrati più o meno tangenzialmente da Carrére e di una solida ammirazione per la ricerca poetica dell’autrice, che è una delle voci ormai consolidate della Bianca.

È un testo snello e relativamente breve, che un po’ ci introduce alla pratica della meditazione e un po’ serve a Candiani per spiegarci che cosa significa e ha significato per lei. È una cronaca metodologica che parte da un approccio personale per costruire un percorso “filosofico” accessibile a tutti, perché il come affrontiamo gli urti e i doni della vita è di certo un tema trasversale.
Candiani medita e insegna a meditare, esplorando con un linguaggio di raro spessore e ricchezza quello spazio di silenzio ed estrema vigilanza che possiamo imparare ad occupare per “sentire” più distintamente.

Nell’immaginario profano si tende a pensare che meditare somigli allo sgombrare il terreno dallo sgradito e dal doloroso, creando un posto sicuro, vuoto e libero dal turbamento. Leggendo, però, si scopre che è piuttosto vero il contrario.
Credo di aver capito che si tratta, in realtà, di accedere a una consapevolezza più “pulita”, sfrondata del superfluo e coltivata come un giardino pronto a ospitarci. Ci si accede imparando ad abitare un silenzio che non è assenza di stimoli o di relazioni, ma ascolto dell’impatto delle cose su di noi. Non è contemplazione del vuoto, ma la capacità di lasciarsi attraversare da quello che succede, rimanendo presenti e vigili a noi stessi. Il disordine ci disarma ma, anche nel marasma peggiore, quel che salva è sapersi costruire una bussola.
Fra venti minuti mi iscriverò a un corso di meditazione o partirò per un ritiro fra gli eremiti della montagna? Non penso. Ma sono contenta di essermi donata questa parentesi di infarinatura – splendidamente narrata.

 

[Visto che di Storytel abbiamo parlato, ecco qua il solito link per beneficiare di un periodo di prova gratuito di 30 giorni].

La saggistica è un universo multiforme in cui torno a intermittenza a rifugiarmi. È un invito ad esercitare la curiosità e un felice calderone sfaccettatissimo in cui ogni più che legittima fissazione può trovare espressione, dimora e spazio per afferrarci. È con questo spirito – e con la solita disposizione avventurosa – che ho accettato ben volentieri l’invito a compilare questa piccola guida di lettura che spero possa ispirarvi a scandagliare il catalogo Aboca, meravigliandovene quanto me – e pure di più, se vi va. Data la deformazione paleontologica della nostra famiglia, il primo incontro con questo editore va fatto risalire a Donald H. Prothero e ai suoi Fossili fantastici, ma non solo di giganti preistorici rocambolescamente riportati alla luce avremo modo di parlare.
Le edizioni Aboca nascono nel 2012 come una sorta di spin-off filosofico rispetto all’impegno produttivo dell’azienda-madre. Nel tempo, oltre a chiarire un preciso posizionamento valoriale, hanno saputo ospitare illustri punti di vista, divulgatori assai autorevoli e voci di spicco che animano con rigore il dibattito scientifico, ambientale e zoologico. Insomma, vocazione divulgativa e ricerca eclettica, pensandoci sempre come partecipanti attivi – e responsabili – alla vita del pianeta che ci ospita.

Cosa troverete qua?
Suggerimenti tematici per approcciarvi al catalogo Aboca e farlo entrare in pianta stabile nei vostri radar.
Procedo!


Animalini

Josef H. Reichholf 
Scoiattoli & Co. – Viaggio nel mondo del roditore più simpatico, veloce e parsimonioso

Vispi abitanti della natura più selvaggia ma anche degli spazi “addomesticati” delle nostre città, gli scoiattoli sono ottimi ambasciatori: li possiamo osservare con relativa frequenza e sono ormai diventati validi rappresentanti della commistione tra ambienti diversi. Oltre a presentarci i roditori che per vari incroci del destino si è trovato ad accudire, Reichholf ci offre, in questo libro, una panoramica accurata (e pure affettuosa) del “funzionamento” e del comportamento dello scoiattolo. Perché sì, sono innegabilmente carini, ma non solo di codine poffose vale la pena occuparsi.

 

Wendy Williams
La vita e i segreti delle farfalle – Scienziati, ladri e collezionisti che hanno inseguito e raccontato l’insetto più bello del mondo

Dall’epica migrazione delle monarca al lavoro pionieristico di Maria Sybilla Merian nel XVII secolo, dall’ossessione per la bellezza ai delicati equilibri dei nostri ecosistemi, Wendy Williams ci introduce al variopinto mondo delle farfalle servendosi efficacemente di una doppia chiave tematica: all’indagine entomologica (cos’è una farfalla, insomma?) si unisce una prospettiva storica fatta di scoperte, collezionisti maniacali, rivalità e titanici scontri teorici. Lepidotteri alla riscossa!

 

Rachel Carson
La vita che brilla sulla riva del mare – Le piante e gli animali che popolano i litorali rocciosi, le spiagge sabbiose e le barriere coralline

Biologa marina e antesignana della riflessione pubblica sull’ambiente, Rachel Carson ci accompagna alla scoperta di un luogo liminale: la costa. Frangia ibrida tra mare e terra, la riva ospita una varietà sorprendente di creature e vegetali che hanno sviluppato strategie uniche di adattamento e sopravvivono spesso in condizioni fragilissime. Quest’edizione – la prima per l’Italia – ospita anche la preziosa introduzione di Margaret Atwood.

 

Susanne Foitzik & Olaf Fritsche
Minimi giganti – La vita segreta delle formiche

Dovendo rispondere ai quesiti incalzantissimi dell’entomologo di casa – che ha cinque anni ma è comunque molto intransigente – non è il primo libro sulle formiche che leggo… ma si è senza dubbio rivelato il più curioso e piacevole. Oltre a renderci partecipi del come si studiano le formiche – tema per niente scontato -, Foitzik e Fritsche ce le presentano innanzitutto come abilissime costruttrici di reti “sociali”: non esiste formica senza una colonia e non esiste colonia che non assegni a ogni insetto un ruolo preciso, vitale al funzionamento complessivo della comunità. Come fanno a comunicare? Coma fanno a sapere, individualmente, cosa ci si aspetta da loro? Perché alcune specie hanno addirittura sviluppato la capacità di coltivare funghi? Ecco qua un buon posto per scoprirlo.


Ragazze sapienti

Due titoli per riavvicinarci al regno dell’umano, entrambi curati da Erika Maderna – che per Aboca si è occupata diffusamente di mitologia botanica e di storia “curativa”, mettendo in primo piano gli antichi saperi custoditi dalle donne in contesti più o meno accoglienti (o propensi a carbonizzarle al rogo).
Per virtù d’erbe e d’incanti e Medichesse riflettono sul ruolo delle donne in medicina, esplorando quel territorio ibrido tra conoscenza erboristica e ritualità, tra consapevolezza profonda delle proprietà “utili” della natura e dominio del magico.
Passando in rassegna piante emblematiche, strutture sociali, pregiudizi pervasivi e figure di spicco – immancabilmente bollate come indemoniate, soggetti devianti o temibili streghe da neutralizzare o ridurre al silenzio -, Maderna restituisce dignità e visibilità a uno spazio di autonomia femminile che per secoli ci ha viste protagoniste, spesso a carissimo prezzo.


Esplorazioni

Telmo Pievani & Mauro Varotto
Viaggio nell’Italia dell’antropocene – La geografia visionaria del nostro futuro

Corredato da mappe meticolosissime che tentano di descrivere un territorio che ancora non c’è – ma che promette di manifestarsi in maniera fin troppo solida -, Viaggio nell’Italia dell’antropocene è un dettagliato what if geografico: che aspetto avrà l’Italia del 2786 (mille anni dopo l’emblematico viaggio di Goethe nel nostro paese), se non faremo nulla per contenere gli effetti dell’attività umana sul clima del pianeta? Tra nuovi deserti, innalzamento delle acque e “zone climatiche” del tutto inedite, Pievani e Varotto immaginano una grande cartolina del nostro avvenire, sperando da un lato che esista ancora una casa dove poterla recapitare e, dall’altro, che ci sia ancora margine per mitigare il panorama ben poco incoraggiante che ci restituisce.

 

Jemma Wadham
Il mondo dove è bianco – Viaggio nelle terre dei ghiacciai tra allarme e stupore

Venticinque anni di ricerca sul campo – in condizioni a dir poco estreme – condensati in un volume che fotografa l’involuzione di una delle risorse più fragili e preziose del pianeta: il ghiaccio. Dalle calotte polari alle vette andine, Wadham sfata la percezione comune del ghiacciaio come massa inerte e “morta” per svelarci le meraviglie di questi ecosistemi impervi ma delicatissimi, vitali per la nostra sopravvivenza e più che mai da capire e, in ultima ma urgente istanza, da preservare.

 

Donald R. Prothero
La storia della vita in 25 fossili – Le meraviglie dell’evoluzione e i suoi intrepidi ricercatori

Siamo propensi a considerare l’evoluzione come un processo efficiente ed esatto, fatto di miglioramenti incrementali che appaiono ordinatamente per garantire a piante e bestie l’efficacia operativa necessaria a sopravvivere. Anche la storia della scienza ci viene di solito dipinta come un susseguirsi di eroiche rivelazioni e intuizioni vincenti… ma come funziona davvero? Prothero – geologo e paleontologo, nonché splendido divulgatore – prova qui a far collidere i punti di svolta evolutivi più rilevanti nel lungo percorso della vita sulla terra con la parabola niente affatto lineare della scoperta. Come? Raccontandoci 25 fossili “esemplari” che hanno rappresentato un bivio fondamentale sia per il mondo naturale che per la nostra capacità di comprenderlo.

 


Verde

Stefano Mancuso
Botanica – Viaggio nell’universo vegetale

A Stefano Mancuso e al suo approccio accessibile e curioso devo molto del mio interesse recente per le piante. Questo volume è lo scheletro di uno spettacolo multimediale nato con lo scopo di raccontarci il mondo vegetale come un’insieme di organismi sorprendentemente consapevoli e “attivi” – uno dei cavalli di battaglia tematici di Mancuso. Le piante comunicano, collaborano, decifrano le condizioni ambientali che le ospitano e si adattano di conseguenza, facendo leva su risorse estrose e sofisticate: un altro tassello accessibilissimo per imparare a considerare il “verde” come creatura viva e come potenziale motore di innovazione.

 

Patrick Roberts
Giungle – Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi

Troppo intricate per viverci o autentiche protagoniste di ogni era del nostro pianeta? Dalla comparsa dei primi fiori all’influenza che esercitano sull’atmosfera terrestre, le giungle e le foreste della fascia tropicale non sono semplicemente un posto interessante e scenografico dove scovare pennuti variopinti da ammirare nei documentari. Fra storia, botanica e zoologia, Robert si addentra nel fitto della vegetazione per offrirci una visione più completa del ruolo che la fascia tropicale ha esercitato nella traiettoria evolutiva della Terra e del nostro rapporto – non sempre equilibrato e ponderato – con le risorse naturali.

 

Zora del Buono
Vite di alberi straordinari – Viaggio tra le piante più antiche del mondo

Io, degli alberi illustri catalogati qui da Zora del Buono, ho visto solo il Generale Sherman, una sequoia di 2200 anni che supera gli 80 metri d’altezza. Di alberi ragguardevoli, però, al mondo ce ne sono parecchi… e non primeggiano solo per dimensioni. Ci sono vegetali scampati alla bomba atomica, piante-colonia che ridefiniscono il concetto stesso di albero o fronde che persistono dopo aver offerto riparo a regnanti, poeti e pensatori. Questo libro è il risultato di un viaggio lungo un anno – che replicherei assai volentieri – alla scoperta di piante che hanno a loro modo fatto la storia, trasformandosi in simboli di resistenza al tempo e in monumenti al potere rigenerativo della natura.


Aboca Kids

Felice novità? Felice novità: il catalogo Aboca si è recentissimamente arricchito di una collana nuova dedicata ai piccoli lettori e alle piccole lettrici.
Dagli illustrati di grande formato che fungono efficacemente da portabandiera per la categoria degli “atlanti” – come La fantastica avventura dell’evoluzione – ai volumi con una componente di divulgazione più marcatamente narrativa, la natura resta al centro, nelle sue molteplici declinazioni. Che si tratti di capire da dove viene quello che mangiamo – come nella versione per ragazzi del Dilemma dell’onnivoro di Pollan – o come distinguere a colpo sicuro una megattera da un capodoglio, Aboca Kids promette di diventare un ottimo punto di riferimento per assecondare le curiosità zoologico-botaniche delle piccole persone di vostra conoscenza… ma anche un po’ dei grandi – perché i libri ben pensati non conoscono confini anagrafici e l’ecosistema di Aboca è di certo accogliente.

 


Come concludere?
Tenderei a non farlo, invitandovi a esplorare ulteriormente – e seguendo le vostre più spiccate inclinazioni – il catalogo Aboca. Spero che questa lista possa rappresentare un punto di partenza utile e il primo passo per la coltivazione di una biblioteca naturalistica molto vispa e rigogliosa.
🙂

 

Quante delle usanze che diamo per assodatissime sono in realtà costrutti sociali o “riti” relativamente recenti? Non so stilare un elenco completo, ma fra queste lente sedimentazioni storiche c’è senz’altro la misurazione del tempo che trascorre secondo scansioni convenzionali/condivise e l’abitudine di festeggiare il compleanno, considerandolo sia come una ricorrenza o un giorno “speciale” che come rigoroso traguardo periodico che ci consente di dichiarare con precisione la nostra età anagrafica.
Perché per secoli non si è sentito tutto questo gran bisogno di sapere con esattezza quanti anni avevano le persone?
In un più vasto ordine delle cose, era ritenuto più importante a livello simbolico il momento della nascita, quello della morte o il battesimo?
Qual era il rapporto tra tempo “collettivo” e tempo individuale?

L’invenzione del compleanno di Jean-Claude Schmitt – un saggio snello e curioso, supportato da un ricco apparato iconografico che un po’ ci assiste nel controbilanciare un’esposizione non proprio spumeggiantissima – ripercorre le tappe che ci hanno gradualmente condotti a spegnere le candeline su torte di varia foggia mentre intoniamo (ragliando allegramente) canzoncine assortite.

Dalle feste pagane alla “censura” introdotta nel Medioevo dal cristianesimo – che considerava il giorno in cui moriamo il vero inizio della vita, perché è della dimensione ultraterrena dell’anima che è più opportuno occuparsi -, Schmitt scartabella illustri diari, minuziose cronache di corte e calendari pieni zeppi di santi per tracciare la rotta evolutiva del compleanno “moderno”, svelandoci – fra le altre cose – l’insospettabile legame tra Goethe e la torta con le candeline.

Perché non documentarsi sull’avvincente esistenza della formica tagliafoglie, mi domando. Chi siamo noi per tirarci indietro di fronte a questo prodigio organizzativo della natura. Cosa ci impedisce di affrontare la saggistica zoologica con la meticolosità che merita. LE FORMICHE TAGLIAFOGLIE SONO CAPACI DI COLTIVARE, PERBACCO.

Se devo esternare un solido parere sul grado di complessità di questo libro, va sinceramente detto che non si tratta di uno di quegli ameni testi di divulgazione “pop” – o puramente aneddotici – tipo “le lontre marine si tengono per mano per non andare alla deriva AWWW CHE TENEREZZA INSOSTENIBILE”. Gli autori, illustri mirmecologi di lungo corso, non ci risparmiano dissertazioni particolareggiate su enzimi, esperimenti intricati, struttura del sistema nervoso e polisaccaridi fogliari. Per qualche prodigio, però, Le formiche tagliafoglie di Bert Hölldobler e Edward O. Wilson – tradotto da Isabella C. Blum per la sempre fascinosa collana Animalia di Adelphi – fila via relativamente bene. Credo molto sia dovuto al fascino del tema.

Che mai faranno, queste benedette formiche? Parecchio.
Le tagliafoglie sono classificabili come superorganismi simbiotici: non ha senso prendere in considerazione una singola formica, perché la titanica espressione della sua “intelligenza” e destrezza strategica si esprime nella colonia. E la colonia esiste con lo scopo di espandersi e di sostenere la propria crescita. Come? Mantenendo salda una relazione di simbiosi: le tagliafoglie non raccolgono con precisione militare la materia vegetale per mangiarla, lo fanno per “nutrire” la loro vera fonte alimentare, un fungo che viene collettivamente coltivato nei nidi.
Insomma, le foglie dan da mangiare al fungo (che prolifera e garantisce prosperità alla colonia solo in determinate condizioni) e la formica mangia quello. Et voilà, ecco l’agricoltura ed ecco due specie – una formica e un fungo – che collaborano e comunicano. Se la fungaia muore anche la colonia muore e sia il fungo che la formica hanno tutto l’interesse a continuare a sostenersi a vicenda.

Perché mi intrippo con queste cose? Perché siamo abituati a classificare l’intelligenza basandoci su quanto somiglia alla nostra. La natura non ha affinato le società delle formiche tagliafoglie per stupirci o offrirci uno spettacolo – anche se incidentalmente succede – ma per cogliere un’opportunità, esplorare una possibilità di specializzazione estrema e di “pensiero”. È pensiero che si basa su assunti differenti dai nostri – e di certo usa altri parametri ancora per stabilire in cosa consista il “successo” di un processo evolutivo – ma riesce ad amministrare alla perfezione milioni di individui che perseguono tenacemente uno scopo condiviso.
Quel che pare innato negli animali, quella misteriosa direzione precisa che sintetizziamo con il concetto di “istinto” non ha niente di miracoloso: è lo spazio in cui si esercita la capacità minuscola di risolvere un problema – sopravvivere – partendo da presupposti quasi inconcepibili per noi. La meraviglia della scienza forse sta proprio in quello spazio di possibilità lì: imparare a vedere quello che governa in silenzio noi, i funghi e le formiche che li coltivano… da molto prima dell’uomo.
Lunga vita alle tagliafoglie – e ai loro funghi!

***

[Bonus track]
Insetti più “fruibili”? Magari anche alla portata dei bimbi? Ecco qua una lista a tema.

Jean-François Champollion diventerà il vostro nuovo spauracchio durante quei tremendi momenti di smarrimento del tipo “maledizione, non ho ancora combinato niente nella vita… e ormai è tardi!”. Ebbene, Champollion decifrò la Stele di Rosetta a 20 anni, devastando la nostra autostima ma consegnando al contempo al mondo, nel 1822, la chiave per restituire voce ai monumenti di una civiltà intera, rimasti muti per millenni insieme al resto dell’abbondantissimo lascito documentario disseminato tra Alto e Basso Nilo. Io, a 20 anni, non riuscivo neanche a gestire un paio di collant, figuriamoci interpolare il greco, il demotico e i geroglifici, primeggiando tra gli studiosi della mia epoca in rapidità ed efficacia.

Invidia per l’erudizione altrui a parte, in questo saggio storico-linguistico – in libreria per Ponte alle Grazie -, l’egittologa Barbara Faenza punta a farci comprendere meglio il funzionamento della società dell’antico Egitto attraverso la scrittura. 
Il segno immortale non è un corso di grammatica egizia, ma qualcosa che somiglia di più a un esperimento di immedesimazione e razionalizzazione di una realtà passata, un tentativo di avvicinarci al modo in cui un antico popolo ha assimilato il suo ambiente e ne ha codificato i meccanismi (per immagini simboliche rimaste punto fermo nonostante il lunghissimo e longevo susseguirsi di dinastie faraoniche), sia dal punto di vista “pratico” che filosofico. Scrivere costruisce il mondo, insomma, ma è dei mattoni di quel mondo che la scrittura sembra servirsi per descrivere l’esistente.

Al di là delle infinite e sfiziosissime curiosità che potrete ricavare da questo libro, il messaggio che forse più affascina ha a che fare con la sacralità attribuita alla scrittura, come veicolo della voce divina e mezzo ordinatore. La cosmogonie di maggior “successo” cominciano sovente con una voce che ordina al mondo di esistere, ma è solo scolpendo un nome nella pietra che si garantisce all’anima di sconfiggere il tempo.
Ogni segno geroglifico somiglia a qualcosa che c’è e si vede, ma la scrittura nell’antico Egitto è elevata ad arte “magica” che, con la sua sintesi sapiente, trasforma in concetto universale anche il più semplice dei segni. C’è del magico davvero nel sapere scegliere gli elementi più adatti a produrre questo ponte immediato tra forma stilizzata ed espressione culturale condivisa, guidata da logiche che nemmeno troppo in filigrana comunicano ancora anche a noi.
La scrittura descrive quel che c’è, ma plasma anche i valori che guidano il nostro sguardo: è un processo circolare di creazione e uno scambio che si serve della codificazione di una grammatica e di uno specifico bacino di convenzioni per dare senso e memoria a quel che consideriamo concepibile, pensabile, “nostro”… sulle sponde del Nilo come oggi, forse. Al sapiente Ptah l’arduo responso… e a voi una felice lettura geroglifica.

 

Perché in tutti i film di esorcismi le vittime del demonio di turno sono sempre bambine o ragazze adolescenti? E perché l’assassino comincia sempre dalla cheerleader bionda che si accoppia col fidanzato? Abbiamo la certezza che Godzilla sia un maschio? Perché, in una maniera o nell’altra, l’opinione pubblica ci tiene sempre tantissimo a dipingere “male” le mamme dei serial killer più efferati? Perché lo zoccolo duro del pubblico dei programmi di true crime è formato in prevalenza da donne?

In questo saggio eclettico e assai battagliero – uscito per Tlon nella traduzione di Laura Fantoni -, Jude Ellison Sady Doyle attinge esempi da fatti di cronaca (anche lontani nel tempo) e dal nostro multiforme immaginario di riferimento – dal cinema alla letteratura – sistematizzandoli in una vasta disamina della mostruosità femminile. È una mostruosità più attribuita e artificiosa che oggettiva, un costrutto culturale di vocazione strumentale che ha radici profonde e remotissime – che spesso ritroviamo nella cosmogonia stessa dei popoli più disparati – e che deforma ogni ruolo identitario che col tempo ci è stato attribuito, dallo status di figlie a quello di madri.

Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne : Doyle, Jude Ellison Sady, Fantoni, Laura: Amazon.it: LibriIl corpo che si trasforma (per dare la vita, ad esempio) o per affacciarsi alla sessualità è il grande campo di battaglia. La posta in gioco, argomenta Doyle, è quella del controllo da esercitare e preservare per fare in modo che lo status quo – l’impalcatura patriarcale pervasiva che ha strutturato da ambo le parti il nostro modo di concepire l’ordine umano del mondo – continui a reggere. E perché regga è necessario che i ruoli non cambino e che nessuna desideri più di quanto le è stato concesso. Chi devia dal seminato è mostro, strega, forza maligna, matta o belva.

Dalla mitologica Tiamat alla Lucy di Dracula, Doyle cerca qui di rendere onore al profondo slancio di libertà che ogni donna-mostro ha espresso (malgrado i vincoli della sua condizione) e cerca anche di rendere giustizia a chi in mostro è stata trasformata per preservare una narrativa che tenta di renderci più controllabili, meno riottose, più gestibili e utili a una causa strutturata per non giovarci.

Una lettura che un po’ si discosta dal discorso introduttivo al femminismo più “appetibile” per cominciare a sporcarci le mani, affacciandoci su un paesaggio quasi inevitabilmente feroce. Perché anche nello scenario all’apparenza più estremo e splatter esiste un fondo di delegittimazione sistematica che riguardo anche il nostro quotidiano e l’immaginario in cui siamo state abituate, più o meno velatamente, a riconoscerci. Per Doyle, le gabbie servono a rinchiudere quel che temiamo, ma anche a tenere al riparo il resto del mondo da quello che non possiamo sperare di controllare. E tramandare questa paura, adattandola di volta in volta ad epoche e sistemi valoriali, è uno dei tanti modi per continuare a tenere in piedi le gabbie che da sempre ambirebbero a contenerci.