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Le tradizioni che riesco ad alimentare con assiduità non sono tante ma resiste l’abitudine di radunare quello che ho letto più volentieri nell’anno appena trascorso. Avrò letto tanto? Avrò letto poco? Chi se ne importa. Chi mai dovrebbe stabilirlo, poi? Ho letto con curiosità e con la speranza costante di scoprirmi meravigliata, quello sì. Ricordiamo volentieri quello che ci fa stare bene, quello che ci accompagna al momento giusto e che sa parlarci, assecondando magari di sguincio bisogni invisibili, domande strane e necessità ondivaghe. Vale per quel che combiniamo stando al mondo – coltivando relazioni e cercando di modificare condizioni che ci sembrano avverse – e vale perfettamente anche per un bilancio di lettura. I miei preferiti del 2024, insomma, sono libri che hanno saputo accompagnarmi con sollecitudine, sorprendendomi e – spesso – dimostrandomi che si trova qualcosa anche quando non capiamo bene che cosa diamine stiamo cercando. 

In che ordine li piazziamo? In ordine di apparizione, da gennaio a dicembre, rispettando il mio ordine cronologico di lettura.
Sono libri di cui ho già parlato? Certo che sì. Troverete quindi degli agevoli rimandi ai pensierini originari. 


Nino Haratischwili
L’ottava vita (per Brilka)
Marsilio
Traduzione di Giovanna Agabio

Il mio ingresso nel 2025 non può competere per ricchezza e foliazione con questo mattone monumentale, ma ricordo con affetto il mio coraggio di un anno fa. Non ne è servito poi molto: L’ottava vita fila via molto più liscio della tumultuosa storia familiare – e Storia collettiva – che racconta.
Per approfondire: ecco qua.


Alba De Céspedes
Quaderno proibito
Mondadori

Nel 2024 mi pare si sia deciso che era il momento di riscoprire Alba De Céspedes – con tanto di incoronazioni chic. Fortunate quelle che l’hanno letta “in diretta”, fortunate noi che ci siamo arrivate dopo.
Ecco qua il pezzo – purtroppo non sponsorizzato da MiuMiu, ma pace.

 


Barbara Kingsolver
Demon Copperhead
Neri Pozza

Traduzione di Laura Prandino

In quota “piace tantissimo a tutti quindi sicuramente a te verrà il nervoso e arriverà ad assalirti la forte tentazione di detestarlo per ripicca”. E invece no. Demon Copperhead è un prodigio di tono e di equilibrio – perché solo se c’è un’accorta gestione della “voce” si può trovare accettabile una simile quantità di sfighe strutturali e di pessime decisioni intenzionali.
Per conoscere meglio Demon, ecco qua.


Christine Coulson
One Woman Show
Particular Books

Si può raccontare la vita di una donna immaginandola come un’opera esposta in un museo, servendosi soltanto delle didascalie che solitamente accompagnano reperti, quadri, sculture e artefatti? In determinate circostanze sì… e diventa potentissimo se la forma accompagna una precisa funzione metaforica. Un gioiello.
Per capirci qualcosa – interni compresi – vi rimanderei qui.

 


Nicoletta Verna
I giorni di Vetro
Einaudi

Il Ventennio, la guerra, la Resistenza. Una storia di “paese”, di potere, di sopraffazione, di compromessi impossibili e di strenua e fierissima opposizione. Sarebbe ora che il disgusto per quel passato diventasse davvero patrimonio comune… e sarebbe bello non doverlo manco più ripetere, perché dovrebbe essere il minimo sindacale della civiltà.
Qua trovate anche una video-ricognizione con telecronaca.

 


Ann Patchett
Tom Lake
Ponte alle Grazie

Traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla

Tre figlie ormai grandi tornano a casa nel Michigan per raccogliere ciliegie e sbrogliare quelli che considerano grandi segreti di famiglia. Perché la mamma ha abbandonato una promettente carriera di attrice? Come è possibile che sia finita qua a zappare? Ma, soprattutto, sarà vero che il passato è obbligatoriamente la dimensione del rimpianto?
Per indagare ulteriormente, ecco qua. 


Antonio Franchini
Il fuoco che ti porti dentro
Marsilio

Quante madri, in questo 2024. Quella di Antonio Franchini è una sorta di idra multiforme, un paradosso ambulante, una forza d’invasione che deforma lo spazio e i sentimenti. Inevitabilmente, però, è anche una protagonista memorabile.
Per fare amicizia con Angela Izzo – che con voi non vuole avere niente a che fare – ecco qua.

 


Melissa Panarello
Storia dei miei soldi
Bompiani

Solo chi di soldi ne ha tantissimi trova volgare occuparsene. Per il resto del mondo, i soldi sono un argomento necessario. Per chi scrive, possono diventare la chiave per raccontare tutto quello che cerchiamo di nascondere. Una bella sorpresa e un gioco di specchi fascinosissimo.
Ecco qua Clara T. e la scrittrice a cui aveva prestato la faccia.

 


Sally Rooney
Intermezzo
Einaudi

Traduzione di Norman Gobetti

Dopo Dove sei, mondo bello ho tirato un sospiro di sollievo, lo ammetto.
Qua mi diffondo un po’ di più (senza spoiler) – trovate anche un contenutone video.

 

 


Aurélien Ducoudray, Guillaume Singelin
The Grocery
BAO Publishing

Traduzione di Francesco Savino

Zerocalcare è bravo anche a curare le collane? A giudicare dalla prima uscita dei suoi Cherry Bomb mi viene da dire di sì. Un’epopea malavitosa di rara truculenza e stratificazione, con una ricchezza visiva e tematica che produrrà vertigini e visceralissime reazioni.
Ecco qua un po’ di materiale in più.


E il 2025? Chissà. Vediamo che succede. Felici e propizie letture anche a voi.

 

Ho la pessima abitudine di considerare i libri che mi capita di presentare o di cui mi capita di discutere in pubblico come già affrontati, raccontati e sviscerati. Il risultato è che qua sopra non ne rimane traccia, anche se sarebbe meglio poterli ritrovare come diligentemente accade per tutti gli altri, che non hanno beneficiato di eventi o incontri specifici. Sto migliorando, però – e Rachel Cusk mi è testimone, insieme a questo propizio approfondimento.

Di Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, si discute da mesi con l’ormai consueta esuberanza. Uscito in settembre in inglese e il 12 novembre per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Norman Gobetti, Intermezzo è stato per me un graditissimo ritorno della Rooney “migliore” e, per certi versi, anche il debutto di una versione stilisticamente aggiornata dell’autrice. Se ripenso agli esperimenti di Dove sei, mondo bello mi viene il nervoso – chi non manda e-mail di dieci cartelle alle proprie amiche per discutere del declino della civiltà occidentale? Magari voi sì, ma a me era sembrata una soluzione estremamente posticcia e pretenziosa – e la grande speranza era di non ritrovarmi per le mani un nuovo romanzo che proseguiva tenace per quella china. Mi piace e mi è sempre piaciuto leggere Rooney per la capacità che ha di collocare le relazioni nel mondo, di esplorare gli spigoli della comunicazione fra gli esseri umani, di riprodurre i garbugli dell’identità e delle idee lungo il confine tra percezione “interna” e confronto con la realtà – e lì dentro ci finisce anche la politica, area d’azione da cui Rooney non si è mai sottratta, anzi. L’uscita di Intermezzo è stata massicciamente accompagnata da librerie che restano aperte di notte – spesso con veri e propri takeover degli spazi commerciali -, gadget, distribuzione anticipata di ambiti scatolotti a una ferrea lista di personalità rilevanti, gruppi di lettura e aggregazioni di varia e multiforme entità. La si aspettava con trepidazione, Sally Rooney… un po’ al varco, anche. E non credo proprio abbia deluso.

In Intermezzo il punto di vista è sdoppiato e parallelo e Rooney lo affida a due fratelli – Peter e Ivan. Il romanzo si apre con la morte del loro papà dopo una lunga malattia e tallona i due durante il periodo di “assestamento” che fa seguito a questo evento campale, doloroso e profondamente destabilizzante. Peter ha superato i trenta e fa l’avvocato a Dublino. Ivan ha una decina d’anni meno ed è stato un prodigio degli scacchi, disciplina in cui spera di poter tornare a primeggiare. Peter è un animale sociale di successo, Ivan legge meglio la scacchiera delle persone. Peter è bello e balla, Ivan è bello ma non balla per niente, per metterla giù in maniera un po’ triviale ma diretta. Peter ha avuto una lunga storia con una donna soave e intelligentissima, che è rimasta nella sua vita e nella sua testa come inscalfibile precedente di perfezione, mentre Ivan non ha ancora collezionato un numero ragguardevole di esperienze, anzi. Entrambi, nel loro periodo di “intermezzo” tra la vita che hanno conosciuto e quella che devono ricostruire dopo il lutto, attraversano disastri, nuovi incontri, nuovi specchi in cui provare a riconoscersi o a sputarsi in faccia. Così, tanto per infarinarvi e fornire un piccolo quadro della situazione.

Rooney ha raccontato di aver cominciato il romanzo in una fase di profonda vicinanza con l’Ulisse di Joyce. E si sente. Se siamo stati più abituati a considerarla un’autrice che con le parole non produce prodezze particolarmente funamboliche ma un’autrice che si legge perché può intrigarci come fa pensare e come fa interagire i personaggi, in Intermezzo succede qualcosa in più. La pagina somiglia alla testa dei personaggi e, qui, ci sono due teste che funzionano in maniera peculiare e distinta – e, a tratti, smettono proprio di funzionare e si avvitano in spirali di disordine e reazioni viscerali. Insomma, trovarsi per le mani (soprattutto) Peter è un’esperienza nuova e molto ricca. Lì per lì può spiazzare, ma seguitelo anche quando barcolla.

Di amore, intimità, sesso, disperazioni, passi in avanti stilistici, dinamiche relazionali, differenze d’età, SANTI NUMI COSA NE PENSERÀ LA GENTE, Irlanda centrale e periferica, morale cattolica, senso di colpa, famiglia, pochi scacchi e molto altro abbiamo discusso anche in Mondadori Duomo qua a Milano il giorno dell’uscita di Intermezzo. Nella chiacchierata trovate Stefano Jugo di Einaudi a moderare – perché non contento di avermi avuta come vicina di scrivania per qualche anno capita che mi rievochi come un Pokémon leggendario -, Ilenia Zodiaco e Carlotta Sanzogni. Eccoci qua per un’oretta:

Assegnato ogni anno a Capri a una personalità notevolissima del mondo letterario internazionale, il Premio Malaparte è stato conquistato nel 2024 da Rachel Cusk, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero e particolarmente amata e nota per la trilogia di Resoconto – titolo a cui sono poi seguiti TransitiOnori

A Cusk piacerebbe molto trasformarsi in purissima immagine astratta ma, per il momento, possiamo ancora chiacchierare con lei. Da Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura – raccolta di saggi e riflessioni autobiografiche di fresca uscita – al suo discusso memoir sulla maternità – Il lavoro di una vita, di cui ho già riflettuto qui – fino alle tante superfici parlanti a disposizione della narratrice quasi invisibile della trilogia, ecco un angolino di tempo che abbiamo trascorso insieme, durante le due giornate fittissime del Malaparte. Conversare con Cusk è come vederla scrivere… e spero che un po’ di quell’esattezza limpidissima mi rimanga appiccicata addosso.

[Al fondo o qui trovate una versione video dell’intervista. Vi va di leggerla? Proseguite in serenità qua di seguito.]


Leggendo e ripensando complessivamente al suo lavoro, ho trovato molto calzante la presenza di Natalia Ginzburg in uno dei saggi raccolti in Coventry. Credo che ci sia qualcosa che vi accomuna, quello sforzo di estrarre dai dettagli più minuti della realtà e dei fatti della quotidianità un collegamento più vasto a quel che può significare vivere ed esistere nel mondo. Ma anche negli aspetti legati alla posizione che vogliamo assumere, a cosa significa creare e scrivere per spiegarci meglio quello che non è immediatamente comprensibile o semplice da afferrare. Si sente vicina all’approccio di Ginzburg? E quanto spesso si convince di non essere abbastanza “brava”, come spesso capitava a lei? 

Vero, lo diceva sempre! [sorride]

A me è sempre sembrato molto bizzarro, perché per quanto lo ripeta – e se lo ripeta di continuo – l’ho sempre trovata saggissima e mai presuntuosa o pretenziosa…

Credo che la mancanza di presunzione sia probabilmente la chiave dell’unicità della sua voce. Perché penso che, spesso, il sé intralci le sue stesse percezioni. E questa è davvero – e posso dirlo in base alla quantità notevole di libri che ho scritto – una presa di coscienza crescente: si vorrebbe assolutamente ridurre al minimo la presenza del sé, in un libro. Ad alcune persone – e lei era sicuramente una di queste – riusciva in maniera piuttosto naturale. L’umiltà è davvero una qualità artistica fondamentale, ed è un altro degli aspetti che si percepisce di lei. Perché ti consente di osservare ogni cosa e ogni luogo con un’obiettività straordinaria. Non cerchi di inserire te stessa e nemmeno di ritrovare necessariamente dei riflessi di te stessa, o di affermare la tua rilevanza. C’è qualcosa di davvero naturale nella sua presenza in un testo che nasce da questa posizione di umiltà.

Penso dipenda anche dal tono. Non “suona” mai minacciosa e sembra sempre fare uno sforzo sincero per mettere a proprio agio chi legge, ma senza scadere nella condiscendenza. Da dove può arrivare una scelta di modulazione così equilibrata dell’ego nella scrittura? 

Mi chiedo se si sia trattato di una questione di semplice sopravvivenza. Sopravvivere a determinate esperienze può smorzare gli eccessi, immagino, eliminando ogni traccia di esagerazione dalla tua voce e da quello che stai creando. Suppongo che il fatto che sia sopravvissuta abbia generato una sorta di senso del dovere, immagino, per continuare a farsi testimone delle cose.

A proposito di ego… la leggenda vuole che la scrittura sia una mastodontica questione d’ego. L’autore arriva per mostrarti quello che non vedi! Ecco una pagina che illuminerà la tua anima! Ringraziami, lettrice, per la verità assoluta che ti sto rivelando! Scrittori e scrittrici ne sono ben consapevoli e penso che di tanto in tanto si approfittino con disinvoltura di questa leggenda. Specialmente nella trilogia di Resoconto, però, la sua scrittrice si trasforma in una sorta di contenitore per una molteplicità di opinioni, eventi e punti di vista che ci vengono presentati senza giudizi o senza la necessità di proporre risposte “guidate” o di far necessariamente “vincere” le sue convinzioni. La protagonista della trilogia è e rimane un’osservatrice, che ascolta senza il minimo desiderio di prevalere. Che fine fa, allora, tutto quel famigerato ego? È diventato finalmente superfluo?

[Ride.]
Ciascuno di noi può individuare delle esperienze nella propria vita che hanno radicalmente minacciato o messo in discussione o ridotto il proprio ego. Quindi, forse, è qualcosa con cui si nasce e che ci viene dato, o riguarda il processo di formazione del carattere, qualcosa che la vita a un certo punto ti comunica.
Per certi versi, fa anche un po’ paura pensare che gli scrittori – e anche gli artisti, ovviamente – siano in realtà protetti da quel processo, in qualche modo. E che il loro ego resti intatto ben oltre il momento in cui dovrebbe essere stato eroso almeno in parte dalla vita. [ride]
Ora credo di essermi del tutto staccata da quello scenario. E lo descriverei, immagino, come un processo di perdita di fede nella realtà – intendendo la realtà come qualcosa che il sé struttura deliberatamente e in cui crede. E quando si spegne davvero questo motore di fede che cosa ti rimane? Ti rimangono delle superfici che puoi interpretare, che non sono affatto al servizio della trama della tua vita e che magari restituiscono il tuo riflesso e il riflesso della storia della tua vita in maniera indipendente.

Dove scrive, ora? In Coventry si discute della famosa “stanza tutta per sé” e degli spazi in cui si esercita la creatività o ci si cala in diversi ruoli – dal lavoro alla maternità. Tradizionalmente siamo abituate ad attribuire un luogo specifico a ogni diverso ruolo che siamo chiamate ad assumere. Per lei esiste uno spazio creativo dedicato? Ce l’ha, questa “stanza”?

Ce l’ho, ho finalmente una stanza tutta per me. E lì dentro lavoro davvero. [sorride]
Uno dei temi che affronto in Coventry è quest’immagine che mi ha tormentata parecchio. La si trovava in quarta di copertina nei romanzi pubblicati nella seconda metà del XX Secolo e ci sono sempre degli uomini in poltrona, con le loro scrivanie rivestite in pelle e lo sguardo puntato verso l’alto…
Il problema delle stanze tutte per sé è che devi essere tu a metterti al servizio di quelle stanze, devi fare in modo che abbiano quell’aspetto e devi sederti in poltrona e presentarti anche come la persona che scrive.
C’è un racconto meraviglioso di Doris Lessing… parla essenzialmente di una donna che sta provando a creare qualcosa e si sposta per casa da una stanza all’altra cercando un posto che non sia pieno di faccende che deve sbrigare, di gente che la insegue per chiederle di fare delle cose e, appena trova un cantuccio adatto, tutti quanti decidono che anche a loro piacerebbe molto stare lì e usare quello spazio.
Nel mio nuovo libro si parla parecchio non solo di scrittrici donne ma anche di artiste donne e di come ci siano esigenze di spazio estremamente diverse – perché lo spazio in cui si crea un oggetto è ben diverso. Nel libro parlo di un’artista americana che aveva cinque figli e li teneva sempre nel suo studio. C’erano sempre dei bambini piccoli in giro e ogni tanto creavano qualcosa per conto loro, altre volte aiutavano lei e, in un certo senso, la soluzione al problema era diventata quella: incorporare i bambini nell’atto creativo. Capirai bene che con la scrittura non funziona e, nel libro, la persona che racconta questo aneddoto afferma che, per quanto adori quella storia, resta solo un’immagine… e che non si possa realmente fare così.

Volevo concludere con un ringraziamento per Il lavoro di una vita. Mi ha aiutata a venire a patti con quel tipo molto specifico di solitudine che può toccare le neo-madri. La riassumerei come una forma di scollamento dai ritmi e dalle esperienze del resto del “mondo” accompagnata da una metamorfosi identitaria molto onerosa da elaborare. Nel libro ho trovato una voce che parlava a me – … e non solo del bambino o di cosa dovevo fare per il bambino – e restituiva dignità alle mie domande meno “pratiche”, meno legate agli aspetti funzionali del mio nuovo ruolo. Con quel libro mi è stata amica, insomma, anche se nemmeno io sapevo troppo bene di averne bisogno. 

Il lavoro di una vita è un libro interessante, per me. Mi ha insegnato che, nonostante tutti i discorsi che facciamo su come possiamo far leggere le persone, all’improvviso un libro riscuote grande successo e lo troviamo meraviglioso e tutti quanti si mettono a leggere questo libro… ma in fin dei conti continuo a credere che esista un libro in particolare per una persona specifica che si trova nella situazione in cui il libro che ha bisogno di leggere è proprio quello – e non l’ultima novità che stanno leggendo tutti gli altri. Il lavoro di una vita troverà sempre una donna che se la sta cavando da sola perché, in quell’esperienza, si è davvero da sole… e mi ricorda sempre di continuare ad avere fede, in un certo senso, in quell’idea. Non si tratta di inseguire la popolarità, ma di centrare il bersaglio a livello individuale.

 


Vi va di ascoltare tutto quanto dalla viva voce di Cusk? Ecco una versione video della nostra conversazione:

 

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini)

Vi va di scoprire qualcosa in più sull’atmosfera del Premio Malaparte e su quello che è accaduto quest’anno in compagnia di Cusk? Ecco qua un “diario” basato su un ottimo esercizio d’osservazione che arriva per direttissima da Resoconto. 🙂

 

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Vi va di ascoltare ancora un po’ di Cusk? Ecco la puntata speciale di Comodinoil podcast del Post curato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti – dedicata all’autrice e registrata sempre a Capri per il Malaparte. Ho avuto il privilegio di godermi la chiacchierata in diretta, come potrei non linkarla? 🙂

La lettura è sicuramente una delle mie oasi di decompressione, uno degli spazi mentali che utilizzo come scudo, bilancia e metaforica copertina calda. Quando leggo tanto mi sento meglio, più centrata, lucida, presente. Non ne faccio una questione performativa – ma guarda che brava che sono, guarda quanti libri ho letto questo mese! – ma una faccenda di equilibrio personale. Mi rendo anche conto, però, di quanto il meccanismo che finisce per innescarsi sia circolare: leggo di più quando sto “meglio” o mi sento meno sopraffatta dalle circostanze e questo leggere di più è anche un rinforzo alla condizione propizia di partenza. Può capitare, quindi, che quando le circostanze di partenza non sono poi così propizie, io finisca anche per piantarmi sul fronte libresco, innescando una spirale opposta di stallo, perplessità e multiformi sensazioni di sconfitta incombente.
Disastro!
Abisso!
Inclementi disamine esistenziali!
Data una certa predisposizione al melodramma, dunque, leggere meno non si trasforma in un legittimo momento di discontinuità ma tende a causarmi del sincero disorientamento. È come se mi venisse sottratto un ingranaggio fondamentale. A livello razionale, sono assolutamente in grado di ridimensionare la gravità del fenomeno e so anche che non esiste nessun ente superiore preposto all’assegnazione della Coppa Glitterata della Lettrice Infaticabile, so che non c’è una classifica e che non è una gara, così come so bene che leggere non sia sinonimo di superiorità antropologica o di particolari vette di saggezza. Nonostante i libri siano un elemento cardine anche della mia identità di produttrice di contenuti – oltre che della mia identità professionale e “umana” -, sono quasi sempre riuscita a proteggerli da ansie produttive e smanie d’efficienza. Se c’è un’oasi felice dove posso beneficiare di una sana lungaggine, senza ingerenze esterne o obblighi e scadenze, è proprio quella dei libri. Sono la mia Valle Incantata, dove i dinosauri prosperano e gozzovigliano.

Ciò detto, se coi libri mi pianto la vivo comunque come una specie di sconfitta personale. Ma non tanto perché mi servono per posizionarmi in chissà quale Gerarchia delle Menti Illuminate, ma proprio perché mi sento zoppa e disancorata, sfrattata all’improvviso da quel cuscinetto di tempo e spazio che mi aiuta a raccogliere le idee e a digerire nuove prospettive. Insomma, quando leggo sto meglio e se sto bene è più probabile che legga, se vogliamo riassumerla in qualche modo.

Quand’è che mi è capitato di leggere meno?
È successo quando sono diventata “stanziale” e ho perso le mie due ore e passa quotidiane di treno. Succede quando traduco qualcosa di molto corposo e pervasivo – è un po’ la sindrome della studentessa che sta preparando gli esami e perde d’improvviso la capacità di leggere per diletto. È successo durante i periodi intermittenti di lockdown – perché l’assurdità della situazione surclassava ogni tentativo d’invenzione narrativa, forse – ed è successo, in generale, ogni volta che il mio tempo complessivo ha subito delle particolari metamorfosi – penso alla maternità o anche solo ad antichi (per fortuna) orari d’ufficio molto onerosi. Succede quando le mie possibilità di coltivare la solitudine si restringono. Si tende spesso a considerare il tempo solitario come un non-luogo abitato soltanto da malinconia e tetraggine, ma nell’economia generale di una quotidianità popolata da tanti stimoli e interazioni umane diverse, ho imparato a percepirlo come una parentesi che mi restituisce energia, perché la rimetto in circolo in un sistema chiuso – il mio – e non la devo impacchettare e rovesciare qua e là.

Che faccio quando mi areno?
Dipende.
Come per tutti i problemi che mi paiono complessi, cerco di buttarla sul pratico.
Qua ci sono un paio di strategie che per me, storicamente, hanno funzionato. Non è detto che funzionino anche per voi – perché l’approccio alla lettura è personalissimo – ma magari vi offriranno uno spunto per costruirci sopra un’impalcatura comoda per arrampicarvi a modo vostro. Insomma, come provo a risolverla?

  • Brevità: visto che funziono come un topo da laboratorio – sei uscito dal labirinto, piccolo ratto? Eccoti un pezzo di formaggio! -, provo un’infantile soddisfazione nell’arrivare in fondo a un libro. Se il libro è corto, arrivo in fondo prima e, in situazioni di paralisi, dove non ti va di leggere manco quello che ti piace e la sola vista di un tomone imponente tende a sconfortare, testi brevi e snelli sono d’aiuto. Ah, che gioia, sono ancora capace di finire un libro! Tiè.
  • Fumetti – o graphic novel, che dir si voglia: il disegno mi ringalluzzisce perché credo risvegli dei meccanismi di assimilazione diversi rispetto a una pagina di testo fitto. È anche possibile che il testo contenuto in un fumetto sia volumetricamente inferiore rispetto a quello che troverei in un romanzo.  Tra quello e l’euforia grafico-visiva che puntualmente m’assale, si crea una propizia combo brevità-imprevedibilità che mi fa macinare pagine con ottima lena.
  • Saggistica: non sono particolarmente convinta che i libri debbano offrire per forza uno spunto didattico o pedagogico. Quando leggo narrativa sono ben felice di cimentarmi con storie piene di gente orrenda e non vado per forza in cerca di morali edificanti. Quando affronto la saggistica mi piace pensare, però, di avere l’opportunità di assimilare qualcosa di “utile”. Sto imparando, sto riflettendo sul presente, sto approfondendo qualcosa che non so, sto nutrendo una curiosità specifica, sto mettendo del materiale da costruzione nel mio carrettino. Specialmente quando mi blocco, insomma, mi sono resa conto che un saggio che promette di accrescere la mia consapevolezza sulla realtà può fornirmi una spinta ulteriore.
  • Sghiribizzi: mi capita di perdere l’abbrivio anche quando in mezzo ai tremila libri che mi son comprata nel passato più o meno recente e che mi osservano dallo scaffale dei “da leggere” mi pare che non ci sia niente che davvero mi vada di cominciare. Da quei medesimi libri, in un periodo più propizio, pescherò poi con rinnovato ardore, ma quando mi pianto non c’è niente da fare, restano lì. Ecco, quando mi tramuto nel cavallo Artax che si dibatte nelle sabbie mobili, trovo corroboranti gli acquisti d’impulso. Mi capita spesso di comprare online, ma funziona ancora meglio far fagotto e vagare in libreria, scegliendo senza tante sovrastrutture e recensioni da consultare. Spirito d’avventura, sei l’arma segreta in grado di mollarci un necessario sganassone? Forse sì.

Nella speranza di avervi fornito almeno uno straccetto di potenziale ispirazione, concluderei con l’unico consiglio davvero sensato: portiamo pazienza. Mi ci metto anch’io, che son la prima che tende a strillare NON SO PIÙ FARE L’UNICA COSA CHE AL MONDO FACCIO VOLENTIERI E MI RIESCE FACILE. Ecco, quello che per noi è strutturale prima o poi torna. Anche nei grandi amori capitano quelle serate in cui ci si dice poco ma si sta comodi a sonnecchiare insieme e si sta benone lo stesso. Si possono oliare gli ingranaggi, certo, ma quel che serve talvolta è semplicemente ricaricare le benedette batterie.

Una piccola introduzione molto semplicistica.
La letteratura è (anche) una vasta collezione di disperazioni. È assai raro che la gioia possa fungere da solido motore narrativo, così come non è una coincidenza che il lieto fine stia dove stia: all’ultima pagina, senza la necessità di aggiunte o di particolari approfondimenti. E vissero tutti felici e contenti. Che altro vuoi? Metti in saccoccia e arrivederci. Lo spettacolo è finito, si prega cortesemente di dirigersi alle uscite.

Ma che cosa accade, però, quando l’intento fondamentale di un libro è quello di sviscerare e amplificare la sofferenza, il trauma, la vergogna, il malessere fisico e spirituale, la morte perpetua della speranza, la disfatta e il disfacimento? Accade Una vita come tante di Hanya Yanagihara, romanzo che ha conquistato a mani basse la sommità del mio personalissimo podio della tristezza in letteratura e che, in questi anni, si è trasformato in una sorta di oggetto di culto, in una vetta da scalare, in una sfida aperta ai rivenditori all’ingrosso di fazzoletti da naso.

Mesi fa, colta dal comunissimo raptus del “che diamine, solo io non l’ho ancora letto”, mi sono procacciata A Little Life e me lo sono girato un po’ tra le mani. La mole mi era già nota – l’edizione originale veleggia sulle 800 pagine -, ma prima di iniziare qualcosa attraverso sempre uno di quei momenti da pesatura egizia del cuore sulla soglia del regno dei morti. Metto il libro su un piatto della bilancia e, dall’altra parte, sistemo energie, forza di volontà e stati d’animo. E inizio davvero a leggere solo quando mi sembra che i due piatti raggiungano l’equilibrio. Ecco, con la Yahagihara ci è voluto un po’, ma il coraggio è arrivato.
Piangerai un casino!
Sarà orribile!
Ho provato a leggerlo ma l’ho mollato, si sta troppo male!
Stupendo… però che sofferenza.
No, zero, già sto da cani di mio, una roba del genere non la leggo neanche se mi pagano.
Quando l’hai finito dimmi che ne pensi, devo parlarne con qualcuno.

Ed eccoci qua.

Che cosa succede in questo libro, in estrema sintesi?
Una vita come tante racconta i rivolgimenti esistenziali di quattro amici.
Willem, Jude, JB e Malcolm si incontrano poco meno che ventenni al college e, fra alti e bassi, allontanamenti e riavvicinamenti, carriere che svoltano e battute di arresto, le loro esistenze continuano a intrecciarsi per i tre decenni successivi.
Il centro di gravità è New York, che tutti finiscono per abitare in modo diverso ed emblematico.
Il protagonista – anzi, il mistero da risolvere – è Jude. Ed è a Jude che ne capitano di tutti i colori.

Nella prima parte del romanzo, Jude resta nelle retrovie. Conosciamo meglio i suoi compagni di stanza, le loro lotte interiori per trovare una direzione e un posto nel mondo – Malcolm vuole fare l’architetto, JB vuole fare l’artista e Willem fa il cameriere mentre sgomita per diventare un attore. Il terzetto si destreggia tra zavorre dell’infanzia, ambizioni, dubbi e fatiche “pratiche” correlate al diventare grandi… e Jude pulisce casa. Cucina. Li osserva. Aggiusta quello che si rompe. Studia legge e matematica – rivelando la sua prodigiosa intelligenza. Zoppica. Digrigna i denti per il dolore e si scusa continuamente, perché si sente d’impaccio. Quel che sappiamo di Jude è che, in un momento imprecisato del suo passato, un tremendo incidente gli ha danneggiato in maniera invalidante la schiena e le gambe. Cammina male e amministra quotidianamente un dolore cronico, che a volte lo investe con una forza tale da paralizzarlo, cancellando anche i pensieri. Jude, però, non ne parla. Glissa sulla sua provenienza, glissa sulle sue strane abitudini, si scansa bruscamente quando qualcuno cerca di toccarlo – anche solo per dargli una pacca sulla spalla – e non si fa mai sorprendere a braccia scoperte – o nudo, figuriamoci.


Il disvelamento di Jude, se così possiamo chiamarlo, è la spina dorsale del libro. Il suo ostinato ermetismo è una strategia per arginare i ricordi di un passato indicibile, ma anche per limitare il disgusto che Jude è convinto di suscitare negli altri. È una corazza difensiva, piena di falle e spiragli, è il tentativo di cambiare pelle e di diventare una creatura nuova, un uomo che si rimette insieme un pezzo alla volta, piegando la realtà ai suoi molti segreti, elaborando strategie per rimanere al sicuro. Jude assorbe il male che gli è stato fatto e finisce per assumersene la responsabilità, tramutandolo in qualcosa di irreparabile, da custodire per non allontanare chi, nella sua “nuova” vita, gli sta facendo conoscere un universo nuovo, dove sono possibili l’amicizia, l’amore e la fiducia.

Scopriamo poco a poco che cosa è successo a Jude. Perché Jude “è così”. E, con il procedere del romanzo, le nostre conoscenze sono comparabili a quelle degli altri personaggi. Finiamo anche noi per domandarci come “gestire” Jude, lo ammiriamo per la sua tenacia e per i suoi successi – perché intuiamo che arriva da una moltitudine di posti che, tipicamente, non sfornano giuristi di spicco, matematici brillanti o esseri umani di una tale sensibilità. Restiamo con lui perché la sua fatica e il controllo costante che cerca di esercitare sul suo corpo e sulla sua mente sono esercizi titanici e vorremmo alleggerirgli il fardello, pur sapendo che non ce lo permetterà. Lo seguiamo perché ci fa arrabbiare, perché scopriremo che cosa è stato e vorremmo dirgli che non è colpa sua, che può smettere di farsi del male.

Spulciando un po’ in rete alla ricerca di notizie sull’autrice, mi sono imbattuta in diverse interviste – e anche in un diario di bordo “visivo” che ha accompagnato Yanagihara durante la stesura del libro. Una domanda ricorrente è “ma perché così TANTO dolore?”.
È una domanda legittima. Una vita come tante è un romanzo sul dolore. Ed è un romanzo che esplora gli estremi dello spettro emotivo e gli strascichi eterni del trauma… ma si sofferma anche sull’enigma delle fortune umane. Tutto sembra governato da una forma sghemba di giustizia ultraterrena: si può ottenere un risarcimento per le sofferenze patite, ma non sarà mai un risarcimento sufficiente a guarirti dove più ne hai bisogno. Sarà una compensazione parziale, imperfetta, quasi malvagia nella sua inadeguatezza. Jude ci sottrae l’illusione di una felicità riparatrice o, se proprio, ci mostra la natura effimera dei periodi di tregua, pace, appagamento.
L’autrice ha più volte raccontato che questo calcare la mano è voluto e che il suo intento, scrivendo, era di amplificare fin quasi al paradosso tutto quello che di terribile può capitare a una persona, di spingersi fino ai confini più estremi dell’oscurità. Non c’è sfiga che a Jude venga risparmiata. E queste sventure – che si tratti di patimenti della carne o dello spirito – vengono anche descritte con puntiglio, chirurgicamente. A che scopo si continua a vivere, se il prezzo da pagare è questo?

La copertina dell’edizione originale, così come quella di Sellerio, che ha pubblicato Una vita come tante in Italia con la traduzione di Luca Briasco, è una fotografia di Peter Hujar – e sempre di Hujar sono le immagini che accompagnano questo post. Sembra un tizio che sta male, così di primo acchito. Il titolo dell’opera, in realtà, è Orgasmic Man. Leggendo, la scelta iconografica appare perfetta. Tanto, in questo romanzo, ruota attorno al corpo (spesso traditore), al sesso, all’intimità e all’abbandono. Ai segni che rimangono e alle cicatrici invisibili. Al fatto che un’esperienza possa risultare normale e meravigliosa per qualcuno e, contemporaneamente, traumatica e irreparabile per la controparte, innescando un meccanismo che somiglia alla dipendenza, a una catena infinita di compromessi che facciamo per tenere insieme i cocci e restare aggrappati a quello che abbiamo di più caro. Di indispensabile.

Anche il titolo è una specie di camaleonte. In originale, questo libro si chiama A Little Life. Man mano che si macinano pagine, ci si rende conto delle sue molte facce. Una di quelle più significative, secondo me, è anche un’esortazione impossibile da assecondare. “Forza, dai. Un po’ di vita!”. Jude se lo sente ripetere spesso… sia testualmente – durante specifiche situazioni traumatiche della sua infanzia e prima adolescenza – che velatamente, da una moltitudine di personaggi che costituiscono la sua famiglia allargata, la sua zattera di salvataggio. E forse è proprio questo il punto. Possiamo pensare di salvare davvero chi non si ritiene degno di essere salvato? Chi vuole arrendersi perché non ha più le energie per combattere?

Sono felice di aver letto questo libro. Non sono certa di poterlo consigliare. Non è un libro che si può consigliare. È come augurare a qualcuno di star male. Ma è un libro che spero possa essere letto e capito come merita, perché è una specie di monumento. Contiene l’ombra più fosca e uno spirito combattivo difficile da intravedere, ma potentissimo. Raramente – o forse mai – mi è capitato di “conoscere” personaggi così complessi, spregevoli, disarmanti e “buoni”. Non ho parlato di paternità, degli ambienti, di carriera e lavoro, di autolesionismo, di menzogne. Non ho parlato davvero di fluidità nell’approccio ai rapporti amorosi… e chissà quante altre cose ci sarebbero da dire. Ho la sensazione di poter parlare di questo libro per anni, perché porterò sempre con me un brandello di Jude e una rabbia senza soluzioni. È un romanzo terribile. È un romanzo bellissimo. E non ho la minima intenzione di sfoderare la bilancia per illudermi che esista un equilibrio. Prendo atto dell’impossibile. E spero di averne colto, almeno in parte, la complessità.