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Nella Città Chimica Numero 4 dello Stato Mondiale, Leo Kall conduce un’esistenza irreprensibile. Si affaccenda nel suo laboratorio, portando avanti ricerche a beneficio del progresso collettivo e torna a casa dalla sua famiglia nell’alloggio che è stato loro assegnato. Casa sua non ha nulla di speciale e, come si conviene, è identica a quella degli altri compagni dello Stato. Copre i suoi turni serali di servizio militare, partecipa con il fervore richiesto alle attività di aggregazione sociale, scandaglia i comportamenti degli altri in cerca di segnali di sedizione – come ogni buon cittadino è tenuto a fare. Collaborativo, solerte e ligio, Kall non ha nessun tratto degno di nota: spiccare non è richiesto e non è di certo incoraggiato. Sono, come sempre, tempi grami. Altre potenze sembrano sempre pronte a minacciare l’armonioso e tentacolare ordine costituito e tutti devono fare la loro parte affinché lo Stato perduri, immutato nella sua perfetta omogeneità ideologica, puro e incorrotto. Quel che c’è “fuori” è talmente empio e pericoloso che l’orrore al di là dei confini sembra aver reso temibile anche l’aria stessa dello Stato Mondiale: all’aperto non si può stare e le città si snodano sotterranee, come un formicaio efficiente ed ermeticamente chiuso. Kall non ha lì per lì niente di eccezionale, è vero, ma gli toccherà a un certo punto l’estrema scalogna (o l’inaspettata fortuna) di inventare qualcosa di difficile da maneggiare: il siero della verità.

Come funziona? Basta una puntura di Kallocaina per spingere chiunque a spiattellare ogni segreto con il massimo candore: quel che si pensa ma non si dice può diventare all’improvviso informazione di pubblico dominio, come già capita per ogni altro aspetto della vita collettiva e privata – per quanto possa definirsi tale – dei cittadini-lavoratori. Chi finge fedeltà ma nasconde un cuore sovversivo? Chi si abbandona – nei pochi coni d’ombra disponibili – a comportamenti antisociali? Chi trama? Chi non denuncerebbe alla polizia un tradimento? Chi osa pensare con la propria testa? Chi dubita dello Stato? Con il siero di Kall è ora possibile scoprirlo… e una sostanza così potente non può di certo passare inosservata. Cosa ne farà il regime? Quale futuro può prospettarsi, se nemmeno le intenzioni e le ipotesi possono più dirsi al riparo dal controllo totale?

Kall comincia il suo racconto da prigioniero e, per capire come sia finito lì, dobbiamo immergerci in un resoconto che ci restituirà le tappe della funesta invenzione del siero e del suo potere destabilizzante. Che un preparato simile – reso disponibile a un regime totalitario – possa tramutarsi in un ulteriore giogo è piuttosto intuibile, ma cosa può scatenare sul “singolo”? Kall si professa fedele pedina, volenterosa componente del grande ingranaggio. Vive sapendo di non dover essere rilevante perché solo l’obbedienza è un valore. E vive, soprattutto, reprimendo ogni manifestazione di scontento e rifiutando in maniera strutturale la possibilità di una realtà alternativa: qua va tutto a meraviglia, non ci manca proprio niente, lo Stato bada a noi e ci mette a disposizione tutto il necessario, di che mai dovremmo lagnarci? Là fuori è peggio, là fuori non sopravviveremmo. Questo assunto, che solleva i cittadini-lavoratori dall’onere di obiettare, di pensare, di mettere in discussione un ordine repressivo ma benintenzionatissimo nel suo provvidenziale paternalismo – ci siamo dentro tutti, siamo tutti uguali e collaboriamo per ripararci dal caos esterno, vale la pena aderire alle regole, se ognuno fa il suo ci salveremo – è la maschera definitiva del potere. Dona un’illusione di protezione e di partecipazione, dovrebbe compensare l’assenza di ambizione – valore nefastissimo – e soffocare moti di emersione individuale, dovrebbe rafforzare la sacra uguaglianza ed eliminare l’idea stessa di personalità. Non pensare, lo Stato Universale pensa per te. Obbedisci, che ti conviene. Kall scopre gradualmente di non riuscirci più. Quanto si sente “automaticamente” in dovere di consegnare allo Stato la sua scoperta è già contaminato dal germe pericoloso dell’agire autonomo e cerca di nascondersi dietro a un’intransigenza ancora più ferrea, sapendo di essere l’ultima persona su cui si augurerebbe di collaudare la sua stessa invenzione. Azione e intenzione si avvicinano pericolosamente e la Kallocaina spazza via anche l’ultimo rifugio d’indipendenza: la sfera dell’identità, dell’anima, del sentimento. Perché una coscienza collettiva compatta può funzionare solo se nessuno ha segreti e aderisce completamente ai medesimi dogmi. Il nemico può essere ovunque, ma il primo posto dove cercarlo è dentro di noi. Kall lo scoprirà a sue spese e si ritroverà sguarnito, non più protetto dal conformismo così necessario al buon funzionamento della macchina.

Kallocaina è stato originariamente pubblicato nel 1940 da Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese a suo modo disallineatissima. Uscito qualche anno prima rispetto alle più “diffuse” distopie di Huxley e Orwell, Kallocaina – qui riproposto da Iperborea nella traduzione di Barbara Alinei dopo una lunga assenza dal catalogo – continua a spiccare per minuzia di dettagli e architettura del sistema, oltre che per abilissima gestione del confine tra “dentro” e “fuori”. Lo ritroviamo nella contrapposizione tra mondo chiuso del regime – anche negli spazi stessi di vita e di lavoro, oltre che nell’assenza di cultura, svaghi e di una storia studiabile non manipolata – e mondo “naturale”, selvaggio e pericoloso che preme ai confini, ma anche nella pretesa di riuscire a controllare anche i recessi più invisibili e profondi di quello che ci rende umani. Il cittadino-lavoratore dello Stato Mondiale non dovrebbe avere pelle o corazze, dovrebbe offrirsi al sistema come un calzino a rovescio, totalmente leggibile e privo di superfici in grado di schermarlo. Quel che la propaganda, le illusioni di protezione e la paura dell’umiliazione e della repressione violenta non hanno saputo ottenere si dovrebbe poter finalmente conquistare con un grimaldello nuovo. Ma fin dove si può tollerare? Chi può ragionevolmente dirsi privo di ombre? Perché pretendiamo dagli altri quello che mai ci augureremmo di dover offrire? Potrà mai esserci perdono o pace per Leo Kall?

[Il libro si può trovare chez Iperborea o ascoltare su Storytel, come ho fatto io anche in questo frangente. La consueta prova gratuita di 30 giorni abita qui.]

Una nave si accosta a un mondo nuovo. Non ne conosciamo nei dettagli la missione e apprendiamo solo a grandi linee le mansioni dell’equipaggio, formato da umani che ricordano la Terra e da umanoidi che sulla Terra non sono nati, anche se sono programmati per somigliare alle persone “vere” e per collaborare con loro. Misteriosi oggetti dalla bizzarra vitalità minerale soggiornano muti in stanze apposite, luoghi sospesi che un po’ somigliano a sacrari privati e un po’ a un limbo onirico-sensoriale dove sia gli umani che gli umanoidi si recano con assiduità per trovare conforto o per lasciarsi attraversare da una forma di trascendenza.

I dipendenti di Olga Ravn – in libreria per Il Saggiatore con la traduzione di Eva Kampmann – è costruito per accumulazione di testimonianze rese dall’equipaggio a una “commissione” inviata dall’organizzazione-madre che, nominalmente, ha l’incarico di studiare gli effetti di questi oggetti enigmatici sugli occupanti della nave. Le testimonianze sono un diario di bordo collettivo, una cronaca a più voci del graduale collasso di un sistema che illude i suoi partecipanti di avere un compito da svolgere, mentre l’unica “cosa” che si produce davvero è il loro perdurare in quel microcosmo chiuso. Ed è proprio l’illusione di contribuire a una causa superiore – in un contesto dove gli unici compiti che davvero ci vengono resi noti sono quelli destinati a far “funzionare” la forza lavoro, umana o umanoide – che diventa il nucleo inesorabile di un esperimento in cui le cavie soccombono, si arrendono o si ribellano per eccesso di consapevolezza, deviando dal programma o sprofondando nei ricordi di una casa ormai irraggiungibile.

È un libro opaco e snervante da leggere, ma di certo animato da una sottigliezza affascinante. Dona poche soddisfazioni perché è rarefatto e fumoso, ma pone domande intriganti, specialmente quando si indaga la relazione tra vita “biologica” e vita simulata da una programmazione che sfugge ai parametri originari per produrre qualcosa che, in un contesto completamente sgombro dall’umano, diventa un territorio inedito d’azione. Cosa ci rende umani? È l’accumulo dell’esperienza, delle relazioni e dell’emotività o la presa di coscienza di esistere e di “sentire”, scrivendo un codice nuovo, facendo qualcosa che non dovrebbe essere possibile?
Quel che accomuna tutti – umani e umanoidi – sembra essere la ricerca di un appiglio, di qualcosa che vada oltre il mero esserci per assolvere a una funzione e il rifiuto di essere costretti a un’unica dimensione che fa coincidere il ruolo “produttivo” con l’identità. Accorgersene, su una nave che si nutre dei suoi figli per continuare a esistere immutata, è forse la scintilla d’anima che tanto cerchiamo – e che ci porterà a camminare sulla superficie di un mondo sconosciuto.

Provo a sbilanciarmi. Se dobbiamo proprio individuare un grande cambiamento “significativo” per la mia generazione, quel cambiamento gigante riguarda l’introduzione della tecnologia nel modo in cui ci rapportiamo agli altri esseri umani. Ho visto il “prima” – senza smartphone, blog, social, app e compagnia danzante – e sto vivendo il “dopo”, questo presente in cui gradualmente stiamo cercando di capire come abitare insieme agli altri innumerevoli spazi di auto-rappresentazione, contatto, conflitto, informazione e intrattenimento. L’aver “visto” questo cambiamento di paradigma credo sia uno dei fattori che contribuiscono ad accendere il mio interesse per la narrativa che cerca di immaginare un’ulteriore evoluzione – proprio in chiave tecnologico-relazionale – di questo ecosistema che ci avvolge e ci appartiene.

Non è una gran novità per la fantascienza, che ha sempre parlato di mondi “altri”, di creature sconosciute e di congegni alieni rispetto al nostro presente più visibile per interrogarsi realmente su quello che accade alla vita che conosciamo, a noi come esseri umani, all’anima che ci separa dal meccanico.
Sono storie che sperimentano con la nostra identità, con la razionalità e la matrice di quello che ci rende delle “persone” per trovare limiti o abbattere confini. Ci si serve del conosciuto, dislocandolo, per darci (anche) una lente per vedere meglio cosa siamo.
Per me, almeno, l’aspetto più avvincente della fantascienza non combacia tanto con la poliedrica descrizione di un pianeta alieno, ma il racconto di quello che succede ai miei simili che su quel pianeta approdano per la prima volta. Vale per i pianeti come per le intelligenze artificiali, per quello che creiamo, per l’innovazione e per quella fetta grande di imprevedibilità che vive in ogni grande rivoluzione.

Ecco, la raccolta curata da Sheila Williams (e approdata qui in Italia sotto l’ala della neonata 451, costola di Edizioni BD specializzata in fantascienza) è un po’ una grande panoramica di quello che tende ad affascinarmi di più nel fantascientifico. È un’antologia di racconti che immaginano un ventaglio di domani differenti in cui molti semi tecnologici già ben piantati nell’oggi sono arrivati a un pieno sviluppo, innestandosi nel nostro modo di stare con gli altri, di ripensare l’idea di famiglia, di coppia, di relazione tra esseri umani. Il libro fa parte, in origine, della collana Twelve Tomorrows edita dal MIT che, ogni anno, sforna un volume tematico a cui vengono chiamate a contribuire le voci più vivide e brillanti della sci-fi globale.

Concepiamo spesso la tecnologia come un mezzo facilitatore. Per tantissime realtà continua ad essere vero – ci sono macchine che non devono dirci niente, devono limitarsi a svolgere per noi una mansione meccanica, per esempio. Ma cosa succede quando alla tecnologia domandiamo di farci da ponte per raggiungere gli altri? Cosa succede quando la interpoliamo all’amore, al ricordo e alla socialità? Il mondo cambia. E in questa raccolta troviamo tante finestrelle da spalancare su questi orizzonti nuovi – non sempre incoraggianti e risolutivi, ma irrimediabilmente umanissimi… nonostante tutto.

Benvenute e benvenuti nell’angolo della speculative fiction, un anfratto in cui la narrativa piglia una cosa del presente che fa già schifo (o comincia a puzzarci) e la sposta in una dimensione alternativa per farla degenerare fino in fondo.

Radicalized di Cory Doctorow raccoglie quattro racconti in bilico tra sociologia, economia e tecnologia che amplificano con dovizia di particolari e doveroso realismo (perché se non ci sono abbastanza dettagli minuti non funziona mai bene) alcune ansie emblematiche del nostro tempo.
Una ricognizione veloce per inquadrare meglio i temi.

I.
Rifugiati che cercano di adeguarsi alla realtà vessatoria del paese che li “accoglie”, aziende che controllano i tuoi consumi tramite l’hardware (qui: fornetti ed elettrodomestici di casa), palazzi in cui gli ascensori funzionano solo per i ricchi, l’illusione di poter ingannare un sistema sbagliato, la lotta per la dignità basilare.

II.
Due versioni parallele di Superman e Batman alle prese con un dilemma etico: schierarsi attivamente dalla parte di cui, nel silenzio e nella “comodità” generale, è da sempre la minoranza vessata? Intromettersi migliora le cose? Una riflessioni coi supereroi nel seminato di #BlackLivesMatter per riflettere, tra le altre cose, sull’idea di privilegio e sull’amministrazione della giustizia – che no, non è uguale per tutti.

III.
Un forum popolato da uomini che hanno perso o stanno per perdere gli affetti più cari perché le assicurazioni private si rifiutano di pagare cure che potrebbero invece rivelarsi decisive e salvifiche. Saluto, profitto, gestione pubblica della sanità, vendetta.

IV.
Un megalomane maniaco del controllo sfondato di soldi costruisce una cittadella fortificata in cui rifugiarsi con pochi eletti (altrettanto ricchi e/o dotati di particolari skill “utili”, tra cui figura anche la scopabilità) all’indomani della disgregazione del vivere civile. Andrà tutto BENONE.

Insomma, se Black Mirror Love, Death + Robots non vi hanno terrorizzato a sufficienza, o se non vi è bastato Mark O’Connell in versione apocalittica – molto di quello che troviamo nel quarto racconto è già in via di edificazione – Doctorow vi assesterà la mazzata finale. Non riesco bene a capire se il mio apprezzamento per il genere dipenda dall’intrinseca spettacolarità che possiamo ricavare dall’implosione di un immenso costrutto (o di una civiltà) o da una volontà che ricorda molto quella del prepper che dorme con sotto al letto lo zaino col suo kit di sopravvivenza in caso di fine del mondo. In ogni caso, il collasso sembra vicino… e anche questa settimana abbiamo finito il tonno.