Tag

Stefania Bertola

Browsing

Non avevo mai letto Sophie Kinsella e cominciare da Cosa si prova – tradotto per Mondadori dall’illustre penna di Stefania Bertola – è forse un po’ bizzarro. Vorrei potermi augurare un futuro di romanzi “nuovi” da scoprire, utilizzando questo come un felice momento di conoscenza reciproca, ma so fin troppo bene quanto sia improbabile. Alla fine del 2022, Kinsella ha reso noto di essere stata colpita da un glioblastoma – un tumore al cervello di natura particolarmente aggressiva. Il glioblastoma non si cura e, per quanto sia possibile asportare chirurgicamente la massa e sottoporsi successivamente a radioterapie mirate e cicli di chemio, resta una condanna a cui non abbiamo ancora trovato il modo di sfuggire. Si può aspirare a un’aspettativa di vita un po’ più lunga delle inclementi medie statistiche ed esistono casi più che sporadici di resistenza fuori scala, certo, ma in poco altro si può confidare.
Ho provato un dispiacere sincero per Kinsella, perché il medesimo tumore ha ucciso mia madre, nel maggio del 2023, perfettamente in media rispetto alle grame statistiche di (non) sopravvivenza. Quando mia madre ha scoperto di essere malata io ero al terzo mese di una gravidanza delicata ed è apparso subito chiaro che non avrebbe visto crescere o anche solo esordire al nido il suo secondo nipotino. Il medico di base l’aveva spedita per direttissima dal neurologo, perché faticava a leggere e a scrivere. Prima ancora di approdare agli esami più approfonditi che le erano stati prescritti – con una celerità stupefacente che solo un “paghiamo” può produrre – mio padre si era deciso a portarla di corsa al pronto soccorso perché all’improvviso non riusciva a coordinarsi, non muoveva più un lato del corpo e vedeva roba che non c’era. Non era passata neanche una settimana dalle avvisaglie iniziali.

Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.

Non ho la minima idea di come Kinsella sia riuscita a mettere insieme questo libro. Da un lato, ho provato una vasta stima per la sua tenacia e ho partecipato con immensa gioia al suo decorso relativamente buono, in strettissimo senso clinico. Dall’altro, però, mi sono arrabbiata da capo. E per motivi nuovi, forse. È un libro animato da un ottimismo che ho dimenticato, o forse non sono mai riuscita a coltivare. Kinsella spera e fa sperare la sua protagonista-specchio, ma cosa me ne faccio io – ormai – di un orizzonte di speranza? Sospetto, però, che sia anche l’unico libro che si poteva scrivere in queste circostanze. E lo comprendo profondamente, ne percepisco sia l’istinto di reazione che il preciso intento di plasmare come vorremmo che ci ricordassero. Un’autrice che ha inventato finali felici per una vita intera che cosa mai potrebbe augurarsi per questa sua emanazione definitiva? L’idea stessa del lieto fine è una specie di morte dell’azione narrativa, se ci pensiamo: è andato tutto bene, non c’è più disordine, l’armonia e tornata e la giustizia ha trionfato… che altro vi serve sapere? Via, circolare. Quello che ci resta è un idillio cristallizzato, la soddisfazione di un cerchio che si chiude e la promessa di un futuro così radioso da non generare più nulla che valga la pena raccontare. Facciamoci bastare questa gioia, non ci serve altro. Immaginiamoci un futuro infinito in cui questo stato di benessere e compiutezza si srotola per sempre. Muore la storia ma non muore la speranza, insomma. Può morire chi scrive ma un personaggio che continua a sperare non morirà mai.

Mia madre non ha sofferto di lunghe amnesie e non ha dovuto sostenere fisioterapie troppo onerose. Era un’atleta, dopotutto. È stata operata, ha fatto la radioterapia, ha fatto la chemioterapia. Si è gonfiata, ha perso i capelli. La prima risonanza magnetica dopo le cure era pulita. Un piede non ha mai riacquistato piena sensibilità, l’equilibrio è peggiorato perché, tra le altre cose, faticava a valutare visivamente la profondità e non è stata più capace di usare le mani con quel grado di precisione che ci consente di lavarci i denti, di gestire le posate, di allacciarci le scarpe – che non le andavano più bene -, di rompere un uovo per farci la frittata. Non ha mai più potuto disegnare o lavorare a maglia. Ha avuto periodi buoni, di relativa “normalità”, e periodi pessimi. Non ha ricominciato a leggere o a scrivere, cercava di fare quello che ha sempre fatto in casa ma le risultava difficilissimo arrivare in fondo a una sequenza di azioni anche molto semplici. Le allucinazioni l’hanno abbandonata praticamente subito, ma parlava a fatica, mescolando le sillabe e perdendo per strada i termini esatti che cercava. Potrei elencare un migliaio di mutamenti fisici che l’hanno investita, modificandola radicalmente. Ma quel che cambia, insieme al corpo che gradualmente si deteriora e si scorda come si fa a funzionare, è anche il tempo che si abita insieme e come si sceglie di impiegarlo. L’unica forma di coraggio può esistere in quella parentesi lì, ma bisogna trovare il modo di fare spazio. Perché non ci si confronta più con una persona che è in grado di pensare come ha sempre pensato, con una persona “intatta”, che si riconosce e resta padrona di sé stessa.
Non sono ancora capace di descrivere l’orrore e lo smarrimento di chi assiste al disfacimento irrimediabile di qualcuno e quello che mi ha meravigliata di questo libro, credo, è il comando di sé che ho intravisto in Kinsella. La volontà precisa di esistere insieme agli altri, di lasciare una traccia sentimentale. Di predisporsi al futuro sapendo che quel futuro passerà di mano. Che un’altra persona sia riuscita a costruire un romanzo riordinando fatti e sentimenti, raccontando una malattia che distrugge la mente e la presa che abbiamo sulla realtà mi pare un miracolo, anche se a costruire quella storia è stata una persona abituata a vendere milioni di copie dei suoi romanzi felici nel mondo intero. E no, non è strano o sciocco immaginare un’insegnante di educazione fisica accanto a un’autrice di fama internazionale, perché una sciagura simile livella i talenti e se ne infischia delle predisposizioni e delle identità di partenza. Per me l’ottimismo è finito e nemmeno il senso dell’umorismo ha aiutato granché. Ma forse ha ragione Kinsella… e ha fatto bene a scriversi speranzosa. A immaginarsi ancora, anche quando non ci sarà più niente da raccontare. 

 

Mentre l’umidità ci assedia, la pioggia battente ci flagella e cerchiamo di venire a patti con l’oscurità incombente – giuro, mai capirò che cosa diamine dovremmo farcene di un’ora in più di luce fioca al mattino quando potremmo beneficiare di pomeriggi più lunghi E INVECE NO TRASFORMEREMO LE VOSTRE GIORNATE IN UNA TOMBA UMIDA DI BUIO ALLE 15.23 SCUSATE PATISCO MOLTISSIMO IL MESE DI NOVEMBRE -, dicevamo, mentre il panorama attorno a noi si fa desolante e la speranza ci abbandona a poco a poco, Stefania Bertola appare per restituirci un po’ di gaiezza.
Sono persuasa da tempo immemore del valore quasi balsamico dei romanzi di Stefania Bertola. Non parlerò di “intrattenimento intelligente” – anche se è vero -, perché poi pare sempre che si debba creare una gerarchia antropologico-meritoria dell’umano impulso al divertimento e all’alleggerimento del cuore, ma è innegabile che la sana leggerezza di cui la nostra autrice è ormai portabandiera autorevolissima sia anche foderata della migliore arguzia e di un occhio acuto per il dettaglio minuto e quotidiano che molto contribuisce a fotografarci come un agglomerato collettivo di fissazioni, nevrosi e tran tran relazionali, dalle mura di casa allo scaffale dei preparati in scatola per far finta di aver prodotto una pizza regolamentare.

Con Le cure della casa (Einaudi), Bertola ci presenta una nuova schiera di protagoniste variamente alla ricerca di una casellina dignitosa da occupare nel mondo.
Lilli veleggia verso i cinquanta, la sua lunga carriera in azienda si è conclusa – AKA l’hanno congedata senza troppe remore – ed è naufragato anche l’improbabile progetto imprenditoriale che aveva deciso di avviare con un’amica – il business delle borsette fatte di cerniere non si è rivelato eccessivamente redditizio… chi l’avrebbe mai detto. Con una figlia migrata a Venezia per l’università, una colf dimissionaria che finalmente è riuscita a farsi assegnare l’ambito incarico di portinaia e una rendita immobiliare cortesemente piovutale tra le mani grazie alla dipartita di una zia ricca, Lilli si appresta ad affrontare un capitolo del tutto inedito della sua vita: farà la casalinga. Nonostante il biasimo della madre – femminista militante della prima ora -, le perplessità del marito e attitudini non proprio spiccatissime, Lilli si arma di Cif, panno in microfibra e tessera punti di Acqua & Sapone per far sfolgorare le superfici che la circondano e provare a riprendere il controllo dell’unico universo che può dire di padroneggiare davvero: il suo appartamento.
Dagli effetti devastanti di Pinterest alle virtù del purè Pfanni, Lilli farà del suo meglio per aderire al mito dell’impeccabile donna di casa, scoprendosi all’improvviso padrona del suo tempo e anche assai più avventurosa del previsto. Perché nella sua vita c’è stata almeno una casalinga perfetta che le piacerebbe prendere a modello, un’amica d’infanzia che già in tenerissima età pareva fregiarsi di virtù muliebri che Lilli ammirava come si ammirano le qualità altrui che mai saremo in grado di replicare. Ripensando a Noemi, che da decenni si è volatilizzata dalla sua vita – così come dalle vite di chiunque altro l’abbia conosciuta -, Lilli si mette in testa di ritrovarla, innescando una reazione a catena di incontri improbabili, misteri, menzogne e colpi di testa.

Le cure della casa è un delizioso plurilocale che contiene almeno tre ambienti: la storia di una donna che si confronta volontariamente con una scelta identitaria diventata impopolare tra le sue simili, un’indagine che mira a stanare una persona scomparsa, un manuale di economia domestica.
Che c’è di male nel voler fare le casalinghe?
Dove diamine è finita Noemi e perché nessuno l’ha mai più sentita?
Di quanti ammorbidenti ha davvero bisogno l’umanità?
Quello che Lilli cerca di fare, nello sgangherato percorso tracciato da questo libro spassoso e pungente, è abitare la zona disordinata della scelta individuale, concedendosi la libertà del tentativo e dell’esperimento. Lilli trasloca in quel margine di dubbio che spesso non ci concediamo di sviscerare e, facendoci divertire mentre spedisce mail ampollose al servizio clienti della Barilla o compila un quaderno pieno di indicazioni pratiche – per quanto approssimative – per sua figlia Iris, credo cerchi di dirci una cosa importante: nessuno è autorizzato a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non so neanche come si accende un ferro da stiro, non possiedo argenteria da lucidare e mi auguro vivamente che le fughe delle mie piastrelle trovino il modo di detergersi da sole, ma Lilli ci offre  un paradosso eloquente: anche decidere di trasformarsi nel prototipo di una donna “obsoleta” è una forma di libertà che presuppone una possibilità di scelta. Ed è proprio per ampliare quella possibilità di decidere – senza mai darla per scontata, perché scontata non è ancora – che vale la pena continuare a intestardirsi.
Lilli mi ha convinta a imbracciare secchio e mocio a tempo pieno? Zero. Ma sarò pronta a sostenerla strenuamente nella sua lotta impari contro gli aspirabriciole che NON ASPIRANO.

Appena l’aveva vista, Robbie si era sentito martellare il cuore in petto come la prima volta in cui aveva azzoppato una volpe.

Stefania Bertola
Romanzo rosa
Super ET – Einaudi

***

Dunque, in questa difficile estate, Christian Grey ha sculacciato così forte la sua derelitta partner da farci diventare tutti quanti sordi.
Personalmente, non ho avuto il piacere di ammirare nessuna delle cinquanta sfumature che sembrano comporre la complessissima e sfaccettata psiche del sadico – ma irresistibile, misterioso, affascinante, instancabile, superdotato, indomito e bello bello in modo assurdo – milionario di E.L. James, che il cielo la perdoni, nè ho tentato di documentarmi più del necessario. Quel che ho capito è che c’è una semprevergine ventenne che va a intervistare il Grey per il giornaletto dell’università e, senza manco accorgersene, dopo tredici pagine si ritrova incatenata alla zampa di un leopardo imbalsamato, nelle segrete di una qualche lussuosa dimora. Mentre è lì attaccata al leopardo – nuda, bendata e con le articolazioni sbriciolate – il Grey le gira intorno tirandole addosso secchiate di cera bollente, puntine e ghiaietta. Tra un’ustione e l’altra, Anastasia viene trombicchiata, malmenata, presa a parolacce e buttata in una cassapanca piena zeppa di furetti deformi. Perchè quel che non ti ammazza t’ispira durante l’accoppiamento.
Comunque, pare che i due si amino di un sentimento cristallino e sfavillante e che ora vivano felici in una mirabile villa nelle immediate adiacenze del pronto soccorso… e a me non potrebbe che far piacere. Insomma, alla fin fine gli sganassoni se li prende lei, chi siamo noi per polemizzare.
Nel rispettare con cortesia e benevolenza l’edificante storia d’amore e pedate nelle costole di Christian e Anastasia, però, non riesco bene a comprendere come si possa affrontare con serietà e autentica partecipazione emotiva una faccenda del genere.
Perchè io la vedo esattamente come Stefania Bertola, e non saprei fare altrimenti.

Giovanna ha problemi con il suo Hot Fire. Vorrebbe iniziare subito con una scena hard, ma Leonora Forneris le ha bocciato un semplice atto di sesso orale praticato dalla protagonista, Olean, nei confronti del protagonista, Kosak. Leonora obietta che al sesso orale ci arriveranno non prima del terzo o quarto capitolo, e che nel frattempo al massimo possono avere un rapporto solo apparentemente casuale nel deposito bagagli della nave da crociera su cui entrambi viaggiano. Solo apparentemente casuale perchè in seguito nessuno dei due potrà dimenticare quel momento, e questo impedirà a lui di sedurre, come programmato, la presidentessa della Indusrials Union del Canada.
– Che faccio? Lui la rovescia su una Samsonite?
– Troppo dura. Fai uno zaino.

Romanzo rosa è un piccolo libro immensamente spassoso. C’è questa bibliotecaria di quasi sessant’anni che decide di frequentare un corso del Circolo dei Lettori per imparare a scrivere un Melody. Ed è una poco abituata ad essere travolta dall’impeto della passione… quando proprio si emoziona è perchè va a mangiare al Flunch con la sua vicina di casa, che la sconfigge sempre a canasta. Insomma, va a questo corso. L’insegnante è la celeberrima Leonora Forneris, maestra del Melody e gran signora, una che si veste con colori mai sentiti, tipo l’ardesia. Nel libro ci sono la storia del corso, le dispense della Forneris (con dettagliate istruzioni su come strutturare un glorioso Melody capitolo per capitolo) e il romanzo della signora Olimpia.
Bene. In due diversi punti ho distintamente pianto dalle risate. E la sera che l’ho letto ho scordato che dovevo lavarmi i capelli ed è finita che ho dovuto rimediare alle tre di notte, in uno sconvolgimento totale di bioritmi. Insomma, sarebbe importantissimo prendere la signora Bertola, vestirla tutta di rosa confetto e mandarla a soccorrere le vittime di Christian Grey, che farsi una sonora e intelligente sghignazzata sui luoghi comuni è decisamente più salutare che farsi sfigurare a sberloni – anche se pieni di romanticismo – da giovani uomini con insondabili disordini della personalità.
E poi l’ardesia è la più nobile delle sfumatura di grigio.
Leggetevelo, valà, vi allungherete l’estate… e capirete che forse avete sbagliato il libro da spiaggia.