Tag

Storytel

Browsing

Con Nicoletta Verna non ho badato granché alla cronologia delle pubblicazioni, temo. L’ho incontrata per la prima volta con I giorni di Vetro – che trovate anche qui insieme a un meraviglioso giro per i luoghi del romanzo, nella “sua” Castrocaroe ho recuperato solo in queste settimane Il valore affettivo – uscito sempre per Einaudi Stile Libero. Un esordio di rara densità e fluidità di comunicazione fra il dentro e il fuori dei personaggi… anche se, per la sua Bianca, quel che succede è quasi tutto dentro, perché è nascosti alla vista e all’intuizione di chi ci sta accanto che i segreti macerano e si trasformano. Anzi, Bianca è sostenuta da un piano assurdo costruito sulle fondamenta di un grande mistero: la verità sulla morte di sua sorella, l’evento che ha deformato per sempre – e irrimediabilmente – la sua famiglia. 

Bianca ha sette anni, quando Stella muore. Pare essersi trattato di un incidente in una tremenda giornata tempestosa, una fatalità sinistra ma priva di macchinazioni – se escludiamo quelle del destino. Stella, la maggiore, è sempre stata il suo punto di riferimento, un rifugio sicuro e una fonte di inesauribile ammirazione. Anche Bianca è bella, ma non sarà mai magnetica come Stella. Mai così perfetta, universalmente adorata, magnanima nel gestire tutti i doni che le sono stati dispensati. Nulla, senza di lei, sarà più come prima. La madre sprofonderà in una pesantissima depressione che pare comporsi di mesi passati davanti alla televisione e repentini tentativi di suicidio, mentre il padre si farà sempre più evanescente, fino a levarsi di torno. L’evento inspiegabile e improvviso che ha eliminato Stella dall’equazione contamina il presente e rende il futuro impossibile da immaginare – a patto che ci si voglia arrivare, poi. Bianca, che non ha più una guida, cresce portando con sé un fantasma, una domanda destinata a non ricevere risposta e una muraglia invalicabile di ossessioni e stratagemmi che dovrebbero donarle l’illusione di poter controllare la sua presa sul mondo.

La Bianca che ci parla in “presa diretta”, però, è una persona all’apparenza lontanissima da quella bambina disgraziata. Sposata con un cardiochirurgo di fama mondiale – pure bono -, ricca e finalmente padrona della sua bellezza – che le ha donato pure un angolino di celebrità -, Bianca vive in un appartamentone degno di un editoriale da rivista patinata e conduce un’esistenza di agio e successo. Cos’è capitato in mezzo? Quel che c’è lì ci aiuterà a capire il “prima”? Verna colma gradualmente le lacune, descrivendo la caparbia metamorfosi di un personaggio che avanza senza mai spostare il proprio cuore dal punto nel tempo in cui si è spezzato. Bianca non vive per sé o per collezionare traguardi o vendicare un’umile origine: Bianca vive per restituirsi Stella. 

Il valore affettivo è un libro ipnotico e, temo, anche un libro che difficilmente vi donerà spensieratezza. Verna è abilissima nell’avvilupparci, trascinandoci nella testa di Bianca: siamo i suoi unici confessori, le uniche persone che davvero possono intuire quello che nasconde, quello che spera e quanto è fonda la spaccatura nell’ordine “corretto” delle cose da cui ci parla. Questo punto di vista privilegiato è gestito con grande equilibrio e sì, il mistero di Stella non rimarrà in sospeso. Mi sembrava utile dichiararlo, perché i cerchi che si chiudono offrono sempre una certa soddisfazione. O forse no? Sapere – sapere davvero – potrà mai bastare a Bianca? La verità ha il potere di ridare la vita? Ve lo lascio volentieri scoprire. E occhio a come differenziate i rifiuti.

Nella Città Chimica Numero 4 dello Stato Mondiale, Leo Kall conduce un’esistenza irreprensibile. Si affaccenda nel suo laboratorio, portando avanti ricerche a beneficio del progresso collettivo e torna a casa dalla sua famiglia nell’alloggio che è stato loro assegnato. Casa sua non ha nulla di speciale e, come si conviene, è identica a quella degli altri compagni dello Stato. Copre i suoi turni serali di servizio militare, partecipa con il fervore richiesto alle attività di aggregazione sociale, scandaglia i comportamenti degli altri in cerca di segnali di sedizione – come ogni buon cittadino è tenuto a fare. Collaborativo, solerte e ligio, Kall non ha nessun tratto degno di nota: spiccare non è richiesto e non è di certo incoraggiato. Sono, come sempre, tempi grami. Altre potenze sembrano sempre pronte a minacciare l’armonioso e tentacolare ordine costituito e tutti devono fare la loro parte affinché lo Stato perduri, immutato nella sua perfetta omogeneità ideologica, puro e incorrotto. Quel che c’è “fuori” è talmente empio e pericoloso che l’orrore al di là dei confini sembra aver reso temibile anche l’aria stessa dello Stato Mondiale: all’aperto non si può stare e le città si snodano sotterranee, come un formicaio efficiente ed ermeticamente chiuso. Kall non ha lì per lì niente di eccezionale, è vero, ma gli toccherà a un certo punto l’estrema scalogna (o l’inaspettata fortuna) di inventare qualcosa di difficile da maneggiare: il siero della verità.

Come funziona? Basta una puntura di Kallocaina per spingere chiunque a spiattellare ogni segreto con il massimo candore: quel che si pensa ma non si dice può diventare all’improvviso informazione di pubblico dominio, come già capita per ogni altro aspetto della vita collettiva e privata – per quanto possa definirsi tale – dei cittadini-lavoratori. Chi finge fedeltà ma nasconde un cuore sovversivo? Chi si abbandona – nei pochi coni d’ombra disponibili – a comportamenti antisociali? Chi trama? Chi non denuncerebbe alla polizia un tradimento? Chi osa pensare con la propria testa? Chi dubita dello Stato? Con il siero di Kall è ora possibile scoprirlo… e una sostanza così potente non può di certo passare inosservata. Cosa ne farà il regime? Quale futuro può prospettarsi, se nemmeno le intenzioni e le ipotesi possono più dirsi al riparo dal controllo totale?

Kall comincia il suo racconto da prigioniero e, per capire come sia finito lì, dobbiamo immergerci in un resoconto che ci restituirà le tappe della funesta invenzione del siero e del suo potere destabilizzante. Che un preparato simile – reso disponibile a un regime totalitario – possa tramutarsi in un ulteriore giogo è piuttosto intuibile, ma cosa può scatenare sul “singolo”? Kall si professa fedele pedina, volenterosa componente del grande ingranaggio. Vive sapendo di non dover essere rilevante perché solo l’obbedienza è un valore. E vive, soprattutto, reprimendo ogni manifestazione di scontento e rifiutando in maniera strutturale la possibilità di una realtà alternativa: qua va tutto a meraviglia, non ci manca proprio niente, lo Stato bada a noi e ci mette a disposizione tutto il necessario, di che mai dovremmo lagnarci? Là fuori è peggio, là fuori non sopravviveremmo. Questo assunto, che solleva i cittadini-lavoratori dall’onere di obiettare, di pensare, di mettere in discussione un ordine repressivo ma benintenzionatissimo nel suo provvidenziale paternalismo – ci siamo dentro tutti, siamo tutti uguali e collaboriamo per ripararci dal caos esterno, vale la pena aderire alle regole, se ognuno fa il suo ci salveremo – è la maschera definitiva del potere. Dona un’illusione di protezione e di partecipazione, dovrebbe compensare l’assenza di ambizione – valore nefastissimo – e soffocare moti di emersione individuale, dovrebbe rafforzare la sacra uguaglianza ed eliminare l’idea stessa di personalità. Non pensare, lo Stato Universale pensa per te. Obbedisci, che ti conviene. Kall scopre gradualmente di non riuscirci più. Quanto si sente “automaticamente” in dovere di consegnare allo Stato la sua scoperta è già contaminato dal germe pericoloso dell’agire autonomo e cerca di nascondersi dietro a un’intransigenza ancora più ferrea, sapendo di essere l’ultima persona su cui si augurerebbe di collaudare la sua stessa invenzione. Azione e intenzione si avvicinano pericolosamente e la Kallocaina spazza via anche l’ultimo rifugio d’indipendenza: la sfera dell’identità, dell’anima, del sentimento. Perché una coscienza collettiva compatta può funzionare solo se nessuno ha segreti e aderisce completamente ai medesimi dogmi. Il nemico può essere ovunque, ma il primo posto dove cercarlo è dentro di noi. Kall lo scoprirà a sue spese e si ritroverà sguarnito, non più protetto dal conformismo così necessario al buon funzionamento della macchina.

Kallocaina è stato originariamente pubblicato nel 1940 da Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese a suo modo disallineatissima. Uscito qualche anno prima rispetto alle più “diffuse” distopie di Huxley e Orwell, Kallocaina – qui riproposto da Iperborea nella traduzione di Barbara Alinei dopo una lunga assenza dal catalogo – continua a spiccare per minuzia di dettagli e architettura del sistema, oltre che per abilissima gestione del confine tra “dentro” e “fuori”. Lo ritroviamo nella contrapposizione tra mondo chiuso del regime – anche negli spazi stessi di vita e di lavoro, oltre che nell’assenza di cultura, svaghi e di una storia studiabile non manipolata – e mondo “naturale”, selvaggio e pericoloso che preme ai confini, ma anche nella pretesa di riuscire a controllare anche i recessi più invisibili e profondi di quello che ci rende umani. Il cittadino-lavoratore dello Stato Mondiale non dovrebbe avere pelle o corazze, dovrebbe offrirsi al sistema come un calzino a rovescio, totalmente leggibile e privo di superfici in grado di schermarlo. Quel che la propaganda, le illusioni di protezione e la paura dell’umiliazione e della repressione violenta non hanno saputo ottenere si dovrebbe poter finalmente conquistare con un grimaldello nuovo. Ma fin dove si può tollerare? Chi può ragionevolmente dirsi privo di ombre? Perché pretendiamo dagli altri quello che mai ci augureremmo di dover offrire? Potrà mai esserci perdono o pace per Leo Kall?

[Il libro si può trovare chez Iperborea o ascoltare su Storytel, come ho fatto io anche in questo frangente. La consueta prova gratuita di 30 giorni abita qui.]

Non avevo mai letto Sophie Kinsella e cominciare da Cosa si prova – tradotto per Mondadori dall’illustre penna di Stefania Bertola – è forse un po’ bizzarro. Vorrei potermi augurare un futuro di romanzi “nuovi” da scoprire, utilizzando questo come un felice momento di conoscenza reciproca, ma so fin troppo bene quanto sia improbabile. Alla fine del 2022, Kinsella ha reso noto di essere stata colpita da un glioblastoma – un tumore al cervello di natura particolarmente aggressiva. Il glioblastoma non si cura e, per quanto sia possibile asportare chirurgicamente la massa e sottoporsi successivamente a radioterapie mirate e cicli di chemio, resta una condanna a cui non abbiamo ancora trovato il modo di sfuggire. Si può aspirare a un’aspettativa di vita un po’ più lunga delle inclementi medie statistiche ed esistono casi più che sporadici di resistenza fuori scala, certo, ma in poco altro si può confidare.
Ho provato un dispiacere sincero per Kinsella, perché il medesimo tumore ha ucciso mia madre, nel maggio del 2023, perfettamente in media rispetto alle grame statistiche di (non) sopravvivenza. Quando mia madre ha scoperto di essere malata io ero al terzo mese di una gravidanza delicata ed è apparso subito chiaro che non avrebbe visto crescere o anche solo esordire al nido il suo secondo nipotino. Il medico di base l’aveva spedita per direttissima dal neurologo, perché faticava a leggere e a scrivere. Prima ancora di approdare agli esami più approfonditi che le erano stati prescritti – con una celerità stupefacente che solo un “paghiamo” può produrre – mio padre si era deciso a portarla di corsa al pronto soccorso perché all’improvviso non riusciva a coordinarsi, non muoveva più un lato del corpo e vedeva roba che non c’era. Non era passata neanche una settimana dalle avvisaglie iniziali.

Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.

Non ho la minima idea di come Kinsella sia riuscita a mettere insieme questo libro. Da un lato, ho provato una vasta stima per la sua tenacia e ho partecipato con immensa gioia al suo decorso relativamente buono, in strettissimo senso clinico. Dall’altro, però, mi sono arrabbiata da capo. E per motivi nuovi, forse. È un libro animato da un ottimismo che ho dimenticato, o forse non sono mai riuscita a coltivare. Kinsella spera e fa sperare la sua protagonista-specchio, ma cosa me ne faccio io – ormai – di un orizzonte di speranza? Sospetto, però, che sia anche l’unico libro che si poteva scrivere in queste circostanze. E lo comprendo profondamente, ne percepisco sia l’istinto di reazione che il preciso intento di plasmare come vorremmo che ci ricordassero. Un’autrice che ha inventato finali felici per una vita intera che cosa mai potrebbe augurarsi per questa sua emanazione definitiva? L’idea stessa del lieto fine è una specie di morte dell’azione narrativa, se ci pensiamo: è andato tutto bene, non c’è più disordine, l’armonia e tornata e la giustizia ha trionfato… che altro vi serve sapere? Via, circolare. Quello che ci resta è un idillio cristallizzato, la soddisfazione di un cerchio che si chiude e la promessa di un futuro così radioso da non generare più nulla che valga la pena raccontare. Facciamoci bastare questa gioia, non ci serve altro. Immaginiamoci un futuro infinito in cui questo stato di benessere e compiutezza si srotola per sempre. Muore la storia ma non muore la speranza, insomma. Può morire chi scrive ma un personaggio che continua a sperare non morirà mai.

Mia madre non ha sofferto di lunghe amnesie e non ha dovuto sostenere fisioterapie troppo onerose. Era un’atleta, dopotutto. È stata operata, ha fatto la radioterapia, ha fatto la chemioterapia. Si è gonfiata, ha perso i capelli. La prima risonanza magnetica dopo le cure era pulita. Un piede non ha mai riacquistato piena sensibilità, l’equilibrio è peggiorato perché, tra le altre cose, faticava a valutare visivamente la profondità e non è stata più capace di usare le mani con quel grado di precisione che ci consente di lavarci i denti, di gestire le posate, di allacciarci le scarpe – che non le andavano più bene -, di rompere un uovo per farci la frittata. Non ha mai più potuto disegnare o lavorare a maglia. Ha avuto periodi buoni, di relativa “normalità”, e periodi pessimi. Non ha ricominciato a leggere o a scrivere, cercava di fare quello che ha sempre fatto in casa ma le risultava difficilissimo arrivare in fondo a una sequenza di azioni anche molto semplici. Le allucinazioni l’hanno abbandonata praticamente subito, ma parlava a fatica, mescolando le sillabe e perdendo per strada i termini esatti che cercava. Potrei elencare un migliaio di mutamenti fisici che l’hanno investita, modificandola radicalmente. Ma quel che cambia, insieme al corpo che gradualmente si deteriora e si scorda come si fa a funzionare, è anche il tempo che si abita insieme e come si sceglie di impiegarlo. L’unica forma di coraggio può esistere in quella parentesi lì, ma bisogna trovare il modo di fare spazio. Perché non ci si confronta più con una persona che è in grado di pensare come ha sempre pensato, con una persona “intatta”, che si riconosce e resta padrona di sé stessa.
Non sono ancora capace di descrivere l’orrore e lo smarrimento di chi assiste al disfacimento irrimediabile di qualcuno e quello che mi ha meravigliata di questo libro, credo, è il comando di sé che ho intravisto in Kinsella. La volontà precisa di esistere insieme agli altri, di lasciare una traccia sentimentale. Di predisporsi al futuro sapendo che quel futuro passerà di mano. Che un’altra persona sia riuscita a costruire un romanzo riordinando fatti e sentimenti, raccontando una malattia che distrugge la mente e la presa che abbiamo sulla realtà mi pare un miracolo, anche se a costruire quella storia è stata una persona abituata a vendere milioni di copie dei suoi romanzi felici nel mondo intero. E no, non è strano o sciocco immaginare un’insegnante di educazione fisica accanto a un’autrice di fama internazionale, perché una sciagura simile livella i talenti e se ne infischia delle predisposizioni e delle identità di partenza. Per me l’ottimismo è finito e nemmeno il senso dell’umorismo ha aiutato granché. Ma forse ha ragione Kinsella… e ha fatto bene a scriversi speranzosa. A immaginarsi ancora, anche quando non ci sarà più niente da raccontare. 

 

Allora, qua devono proprio piacervi molto le piante… ma se vi garbano e vi interessano vi troverete a meraviglia. Non vi prometto che vi ricoprirete di possenti boccioli, ma qualche germoglio di curiosità di certo spunterà.

Con La confraternita dei giardinieri – tradotto da Federica Oddera per Ponte alle Grazie – Andrea Wulf esplora, sviscerando le gesta di una manciata di personaggi indubbiamente attratti dal verdeggiare delle frasche, un momento rivoluzionario per la botanica globale, localizzando nell’Inghilterra del Settecento  il crocevia decisivo del cambiamento.
Nonostante la collettiva mitizazzione del “giardino all’inglese”, infatti, prima del  Settecento non è che la piovosa Albione potesse vantare delle gran punte d’eccellenza. Prati stupendi e curati con scrupolo estremo, certo, ma la varietà botanica era relativamente scarsa, le fioriture “poche” e concentrate in periodi specifici e a guidare davvero i trend paesaggistici per le grandi dimore erano Francia e Italia.
Un bel giorno, però, un vivaista intraprendente sfidò la collera di Dio e osò modificare la creazione dell’Onnipotente, producendo il primo ibrido floreale “intenzionale”… e da lì tutto cambiò, inaugurando anche la mania per il giardinaggio che non smette di contraddistinguere la Gran Bretagna moderna. Wulf parte da Thomas Fairchild e arriva fino a Linneo – che tra molte resistenze riuscì con gradualità a introdurre un sistema di classificazione delle piante universalmente utilizzabile e finalmente “razionale” -, intrecciando la storia della botanica come nascente e rigorosa disciplina scientifica alla storia commerciale e culturale dell’Impero (e del mondo).
Tra gentiluomini dilettanti, viaggi d’esplorazione, collezionisti, allievi ingrati (ma favolosi), semi e talee trasportati da una sponda all’altra dell’Atlantico, specie scoperte e specie importate, Wulf costruisce un’avventura del pensiero – nella nascente epoca dei Lumi – splendidamente documentata e rigogliosissima, mi viene da dire.

Indicazioni di potenziale fruizione? Eccoci. Ho ascoltato Wulf su Storytel con la splendida lettura di Ginestra Paladino – se serve è sempre attivabile il nostro tradizionale periodo di prova gratuito del servizio di 30 giorni -, ma nulla vi vieta di optare per il libro-libro.

Chi era Gustavo Rol? Forse non lo sapremo mai, un po’ per deliberata “opacità” del personaggio in questione e un po’ per l’intrinseco mistero dello spazio liminale in cui si è sempre mosso. Francesca Diotallevi – ormai collaudatissima autrice di romanzi ispirati a figure che della poca appariscenza hanno fatto la loro cifra esistenziale – maneggia l’enigma di Rol con cautela, basandosi su documenti, cronache e testimonianze e riempiendo le inevitabili lacune con il punto di vista di un narratore smarrito ma tenace, scettico e romantico insieme.

Piccola digressione per inquadrare meglio la faccenda. Carismatico, altissimo, sempre ben vestito e assai garbato, Gustavo Rol faceva l’antiquario a Torino, se vogliamo proprio dargli una definizione triviale che ben funziona nel “nostro” mondo. Nel dopoguerra aveva cominciato a ospitare a casa sua in via Silvio Pellicoun appartamento UMILISSIMOpiccoli gruppi di spettatori ben selezionati e, di fronte a loro, si esibiva in esperimenti al confine tra telecinesi, chiaroveggenza, spiritismo e… magia? Senza chiedere un soldo a nessuno e domandando solamente ai presenti di mantenere il massimo riserbo sugli eventi di queste serate, Rol ha per anni compiuto apparenti prodigi, molti dei quali restano ancora avvolti dal più denso MA CHE DIAV. Interpellato da ricchi e potenti – dal Duce all’avvocato Agnelli, passando per Fellini -, Rol ha vaticinato disgrazie e fortune, letto nel pensiero e letto libri chiusi, parlato coi morti e attraversato i muri, senza mai muoversi attivamente per alimentare la propria leggenda o trasformare questi perturbanti talenti in una montagna di soldi. Understatement sabaudo? Indole autenticamente generosa e disinteressata? Vero spirito compassionevole? Chissà. Quel che sappiamo è che, in mezzo a tanti ciarlatani – che vogliono deliberatamente infinocchiarti – e più che sinceri illusionisti – che il trucco non te lo spiegano ma non fingono che non ci sia –, Rol ha trovato il modo di spiccare per prodezze fuori dal comune e per una sorta di impianto “etico” altrettanto peculiare. Non si è mai prestato all’esecuzione dei suoi esperimenti in un ambiente controllato e scientificamente monitorabile, ma la sua fama è lievitata per una sorta di accumulo di cronache spontanee, per la stupefatta loquacità dei testimoni suoi contemporanei e per l’umanissimo bisogno di credere in qualcosa, probabilmente.

Il romanzo di Diotallevi si avvicina a Rol senza fretta, intrecciando la figura del “mago” a quella di un reduce di guerra che dopo una lunga prigionia torna in patria e non è più in grado di “funzionare” nel mondo. Per sfuggire ai debiti di gioco e a compagnie poco raccomandabili, fa i bagagli e parte per Torino – la sua antica città – dove Miriam, l’amore di gioventù, ha sposato un altro. Sarà proprio Miriam, che già frequenta la casa di Rol con una devozione totale, a introdurre Nino a una delle famigerate serate. Nino, che gradirebbe riuscire a scrivere per il cinema, fiuta all’istante il potenziale di quella storia e si mette in testa di smascherare Rol… perché sì, vuoi che non ci sia un trucco?

L’espediente del personaggio/narratore profondamente disilluso e ben radicato nella razionalità è molto salutare, mi viene da dire. Nino guarda Rol come un rompicapo da risolvere e non come una sacra manifestazione del sovrannaturale in cui riporre una fede cieca. Non sempre Nino ha saputo suscitare il mio profondo interesse, leggendo, ma mi rendo conto della necessità “pratica” di consegnargli il timone e il punto di osservazione. Rol è ovviamente il pezzo forte e le pagine in cui ci onora della sua presenza hanno un passo diverso, credo. Quello che sostiene di voler fare – mostrarci che può esistere “altro”, donarci uno spiraglio di meraviglia e testimoniare l’esistenza di una realtà infinitamente complessa – è struggente e quasi fanciullesco. La tragedia di Rol si radica nella ricezione mondana del suo “lavoro”: io sono qua per farvi pensare, per lasciarvi intuire l’immensità della mente e del mondo, ma voi siete qua per divertirvi, per mitigare il tedio delle vostre giornate, per esigere trastulli o, al massimo, per capire quali e quante balle racconto. Non voglio e non devo dimostrarvi niente, perché nemmeno i miei prodigi saranno sufficienti a scalfirvi davvero – io, per voi, sono e sarò sempre un pupazzo, un diversivo, uno spettacolo.
Ecco, Diotallevi abbraccia lo scoramento di Rol e, vivendo in un’epoca che ha fatto dell’intrattenimento cinico uno dei suoi pilastri portanti, ce lo racconta senza agiografie e senza istruire processi, lasciandoci invece lo spazio di dubitare – almeno un pochino – delle nostre certezze.

Effetti speciali aggiuntivi: qui c’è Piero Angela che va a trovare Rol. Una citazioncina tratta dal pezzo integrale:

Da decenni Rol si produce nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a “scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale” ecc.: cioè tutte persone… incompetenti in trucchi! Perché invece non vuole mai fare i suoi “esperimenti” sotto l’occhio di un esperto? Neanche una volta? Non serve rispondere che Rol non fa queste cose per lucro: il problema è di sapere se ciò che produce è autentico oppure no. Ma perché dovrebbe fare trucchi, affermano i suoi sostenitori, se non guadagna una lira? Si potrebbe facilmente rispondere che il prestigio (e il potere) che si ottiene convincendo gli altri di avere certe facoltà è forse ancora maggiore di quello che si può avere col denaro.

Qui c’è il libro – è uscito per Neri Pozza – e qui c’è il consueto link per il periodo di prova gratuito di Storytel. Ve lo rammento perché io l’ho ascoltato lì.

 

Con i soldi – quando ci sono – si possono comprare le cose più disparate e di certo anche i libri. Ecco, un po’ dei miei soldi li avevo usati per comprarmi la versione di carta di Storia dei miei soldi – uscito per Bompiani e arrivato a più che buon punto nel percorso accidentato del Premio Strega 2024 –, ma poi mi sono accorta che il medesimo libro lo leggeva l’autrice su Storytel e ho deciso di ascoltarlo, perché ho un debole per chi scrive e poi ci legge la roba sua.
I miei trascorsi con Melissa Panarello risalgono a quando il cognome era ridotto a una P puntata, ma poi l’ho persa. Gli enormi casi letterari – categoria in cui il suo esordio rientrava con veemenza – producono eredità quasi sempre ingestibili e su quelli è raro che ci si possa basare per capire come andranno gli eventuali libri successivi.
Mi è piaciuto molto ritrovare Melissa Panarello qui e, di fatto, conoscerla da capo, con questa pelle nuova pronta a contenere un esperimento che riesce a essere “meta” e profondamente disarmante insieme. Che c’è al centro? I soldi. E quello che ci fanno.

Cosa succede? Una scrittrice incontra per caso per strada l’attrice che una quindicina d’anni prima aveva interpretato il personaggio “scandaloso” del suo libro d’esordio, bestseller lettissimo e chiacchieratissimo. Sia la carriera di Clara T. che della nostra autrice sembrano aver seguito parabole di “contrazione” della fama ipertrofica degli inizi ma, se la scrittrice ha continuato a lavorare e si è costruita una famiglia felice e “regolare”, di Clara T. si sono completamente perse le tracce.
Dopo essere state a lungo la stessa persona – almeno nella percezione del pubblico, all’interno dei meccanismi della finzione letterario/cinematografica -, Clara T. e l’autrice navigano in acque completamente diverse: lo specchio, da qualche parte nel passato, è andato in pezzi e a pagarne il prezzo più salato pare essere stata Clara T. Non avendola mai davvero conosciuta, la scrittrice decide di avvicinarsi e di raccogliere le sue confidenze, compilando una cronaca di prima mano della disgregazione di quella donna a cui sente di essere legata ma dal cui evidente caos si sente anche un po’ respinta.

Quello che risulta immediatamente spiazzante è che Clara T. chieda 10€ alla scrittrice, subito e senza convenevoli o senza vergogne. Una che ha fatto qualche film importante e ha preso fior di milioni per diventare il volto di cosmetici, vestiti, agende e prodotti di largo consumo assortiti non può venirmi a chiedere 10€ o, ancor peggio, farmi capire con questo candore spudorato e naturalissimo, di aver finito i soldi.
I tempi in cui la povertá poteva beneficiare di un qualche tipo di romantica indulgenza sono più che terminati e poche altre circostanze umane ci disarmano, ci fanno paura, ci tirano fuori orrori e demoliscono i teatrini della buona creanza. Cosa è successo a Clara T.? Che fine hanno fatto i suoi soldi? Che persona era prima e chi è adesso? Perché ha così voglia di mettere in mano a una scrittrice – che le ha tecnicamente spalancato le porte del benessere ma che non può certo dire di conoscere – i suoi pietosi estratti conto? Cosa c’è da vergognarsi nell’”aver bisogno”? Parlare di soldi è più sconveniente che scrivere un libro sulle avventure erotiche di una ragazzina? E come è possibile che quella ragazzina si sia trasformata in Clara T. che ti chiede 10€?

Intrecciando il presente di quest’incontro fatidico al passato di Clara – che si srotola come uno di quegli “scontrinoni” eterni che uscivano dalle calcolatrici -, Panarello gioca con i fondamentali dell’identità e gestisce abilmente tutte le sue maschere. Racconta, soprattutto, una storia che sorpassa con intelligenza le circostanze particolari di fama/ricchezza per parlare di come quello che abbiamo in tasca (poco o tanto che sia) tende a modificarci e a deformare il nostro rapporto con gli altri, anche quando sembrano esserci in ballo sentimenti profondi, vasta fiducia, futuri promettenti. Se ne esce a passi incerti, perché il mondo che Clara T. ci mostra non ha niente di solido o rassicurante… e forse non vogliamo nemmeno vederlo, come non vogliamo vedere la povertà “vera” e preferiamo tendenzialmente trasformarla in colpa: da qua sei venuta, Clara T., e da qua (forse) non ti abbiamo mai permesso di allontanarti. Ben ti sta, non ci dovevi sperare. Ben ti sta, per non aver mai davvero considerato i soldi l’unico fine, l’unico motore del mondo. Ben ti sta, perché ti sei rifiutata di diventare come noi.

[Come da tradizione quando tiro in ballo Storytel, ecco il link per la prova gratuita “prolungata” di un mese.]

Dunque, ci sono delle signore di un sobborgo-bene di Charleston che bidonano un bookclub pretenzioso per fondarne uno “specializzato” lì per lì in true-crime, delitti efferati, cronaca nera e grandi misteri americani. Sono amiche, hanno tutte una manciata di figli a testa, dei mariti che lavorano mentre loro badano al tran tran domestico e delle casone col pratino da curare. Sono immerse in un contesto di “vicinato” a metà tra l’invadenza e l’estrema premura: qui ci vive solo gente come si deve, siamo una grande famiglia, la nostra comunità è genuina e virtuosa. Siamo negli anni ‘90 e Patricia Campbell è afflitta – come le sue amiche – da tutte le migliori intenzioni della Brava Moglie del Sud. Ma cosa succede quando in una comunità così affiatata e unita appare un elemento di rottura – e di potenziale stravolgimento?

Il “corpo estraneo”, per le nostre affiatate lettrici, è un nuovo vicino che arriva nel quartiere per prendersi cura – a suo dire – dell’anziana zia. Sembra un tizio a posto, ma non lo si vede mai in giro di giorno, guida un furgonaccio, pare sprovvisto di documenti, risponde con cordiale evasività (e palesi contraddizioni) a ogni domanda personale e resta sullo zerbino finché non lo si invita esplicitamente a entrare in casa. La suocera invalida di Patricia perde la brocca appena lo vede e sostiene a gran voce di averlo già incontrato da bambina: questo qui è il tizio che ha distrutto le nostre famiglie! Patricia non sa bene cosa pensare: Miss Mary è senza dubbio più di là che di qua, ma tanti altri piccoli incidenti cominciano a verificarsi attorno a James Harris… e forse vale la pena indagare.

Mentre Patricia si esercita a demolire le barriere del suo razionalissimo mondo per confrontarsi con qualcosa che sfida il senso condiviso della realtà, James Harris si guadagna la fiducia di mariti, figli e figlie, semplici passanti, ratti. Nel quartiere afroamericano cominciano a sparire dei bambini, ma nessuno – a parte Patricia e la badante di Miss Mary, che viene da lì – pare scomporsi. I nostri figli stanno bene, no? I ragazzini neri si mettono sempre nei guai, che sarà mai.
In un’alternanza di ipocrisie terrificanti – ma molto rivelatorie -, gaslighting sistematico, problemi strutturali di attendibilità – dovremmo forse dar retta a una casalinga suggestionata dal true-crime? Dove andremo a finire! -, uomini coglioni e foschi presagi, Grady Hendrix apparecchia una storia corale che batte un po’ sempre sugli stessi tasti ma che riesce a intrattenerci bene, insinuando il tarlo del sovrannaturale nella vita placida (e urbanamente meschina) del quartiere.

Peccato per James Harris – che dice poco e credo sia anche l’ipotetico mostro più noioso che mi sia capitato d’incontrare – ma un pollice su per l’abile stratificazione delle inquietudini e del senso di minaccia latente. L’indagine di Patricia non è degna della CIA, ma la dinamica dei personaggi fa il suo dovere e il fatto che le opinioni delle donne vengano sempre trattate con estrema condiscendenza e paternalismo fa arrabbiare, ma è anche il succo della questione.
Sì, qua e là c’è roba schifosa, macabra e splatter. Ma anche pulire la cameretta di un adolescente credo lo sia.

Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe è uscito per Mondadori nella traduzione di Rosa Prencipe, ma si può ascoltare anche su Storytel – come ho fatto io. Per collaudare Storytel con un bel mese gratuito, qua c’è il solito link.
Se volete approfondire le imprese di Hendrix, di suo ho letto anche Horrorstör, una roba mattissima e dal taglio OH CHE PAURA ancor più calcato. Che succede? Tutta la vicenda è ambientata in un megastore di arredamento che molto ricorda un arcinoto colosso svedese. È una via di mezzo tra un’escape-room e una discesa agli inferi ma, in maniera ancor più spiccata, è una riflessione sul consumo, sul capitalismo e sul lavoro come forma di dannazione eterna. Fa ridere, mette angoscia, è una chicca di astuta stranezza.

Dunque, di Ilaria Bernardini avevo letto con trasporto Faremo foresta e torno a frequentarla con Il dolore non esiste – uscito per Mondadori -, una storia incasellabile nel filone degli scrittori e delle scrittrici che terrorizzano la propria famiglia parlandone nei loro libri. Nel caso di Bernardini, però, scrivere del padre è un esperimento di “contatto”, di recupero del ruolo di figlia all’interno di una relazione che si è rotta, forse senza rimedio.
“Mio padre non mi parla”, dichiara all’istante Bernardini – e non lo fa da tanti anni. Però un padre che le parlava, che manifestava la sua presenza (per quanto scostante, diluita o regolata da confini precisi) nella vita della famiglia è esistito, fino a un certo punto.
Che è successo? Perché parla a tutti e a lei no? Perché si è tenuto alla larga anche dagli eventi più enormi dell’esistenza “adulta” di sua figlia? Perché non c’è più un posto per lei?
Per spiegarsi quello che mai le è stato spiegato, Bernardini cerca di ricostruire la vita di un padre che resta ingombrante, magnetico e fondamentale pur non partecipando mai allo scorrere di un presente che si fa sempre più lungo, dilatato e incomprensibile. Tu non mi vuoi parlare? Perfetto, parlerò io anche per te. È un modo come un altro per tenerti con me.

L’ombra del padre si intreccia a un presente di sceneggiature da consegnare, di bambini che smettono di avere un bisogno completo di noi, di isole, di isolamenti forzati e di pugni tirati. La boxe è un collante imprevedibile – per quanto in differita – tra padre e figlia. Bernardini si allena in vista di un match che dovrebbe finalmente ricomporre la frattura, ma anche per combattere bisogna essere in due… e non è detto che ci si voglia far male per davvero, quando già basta la lontananza ad allenarci al dolore. Negarlo rende più forti? Quanto possiamo incassare? Come si tira avanti quando abbiamo l’impressione di essere diventate superflue – per chi ci ha cresciute come per chi stiamo provando a crescere?

È una storia difficile da classificare. Avvolge pur parlando di distacco e penso sia anche un buon esempio di cosa significhi scrivere per colmare vuoti, neutralizzare assenze o confrontarci con quello che non capiamo. Non sempre si arriva a una risposta lineare. Per sentirci “presenti” bisogna registrare le scosse del quotidiano, osservarci mentre capita dell’altro, costruire una specie di sistema orbitale che tiene insieme piani diversi che funzionano tutti insieme – e seguono spesso moti irregolari. 

[Volete farvelo leggere da una portentosa Sabrina Impacciatore? Trovate l’audiolibro su Storytel. Non avete ancora collaudato Storytel? Ecco qua il “nostro” periodo di prova gratuito esteso.]

Con gli audiolibri sono più propensa a fare esperimenti? Forse sì. Ho visto OVUNQUE Divini rivali di Rebecca Ross – tradotto da Stefano Andrea Cresti per Fazi – ma mi son poi decisa ad affrontare la faccenda quando è spuntato in catalogo su Storytel – e il fatto che leggano Martina Levato e Dario Sansalone ha aiutato, credo.
Vi infarino un attimo: Iris Winnow e Roman Kitt stanno facendo l’equivalente di uno stage malpagato nella redazione di un importante giornale. Il direttore ha un solo posto “fisso” da editorialista e se lo aggiudicherà chi tra i due ambiziosi virgulti produrrà i pezzi più strabilianti. Rivalità! Furiosi ticchettii di macchine da scrivere! Schermaglie! Che tra Iris e Roman debba divampare del sentimento è il tacito accordo di base di cui siamo inevitabilmente fin troppo consapevoli – e il trope procede con ineluttabile efficienza.

Come da canone, però, è previsto che subentrino difficoltà ulteriori rispetto a quella che potrebbe ridursi a un’antipatia professionale mista a VOGLIO FARTI LE SCARPE. Iris e Roman provengono da classi sociali agli antipodi – lei pezze al culo e lui rampollo facoltoso – e c’è pure la guerra. È ancora lontana dalla capitale ed è anche avvolta da una nebulosità piuttosto irritante. Sappiamo solo che due grandi divinità di un passato quasi mitologico – ma inspiegabilmente poco storicizzato o tramandato – hanno deciso di riesumare gli antichi rancori e di mettere insieme due eserciti. L’amatissimo fratello di Iris sceglie di arruolarsi per la dea Enva, fa fagotto e innesca una reazione a catena che di fatto demolirà la famiglia. E l’informazione? Il giornale di Iris e Roman tratta la guerra come una sorta di leggenda metropolitana. Che interessi giustificano questa linea editoriale? Non si sa.

Leggeremo mai un articolo di Iris o Roman? Macché. Leggeremo, in compenso, la loro corrispondenza privata. L’aspetto del romanzo epistolare è rilevantissimo nell’economia della storia e visto che è anche l’unico vero “colpo di scena” – telefonato come poche altre cose al mondo – non mi ci soffermo, ma ci arrivate. C’è un colpo di scena anche nell’ultima pagina, ma per il resto – e per quanto mi riguarda – si naviga in un mare di tedio. Loro due DEVONO detestarsi all’inizio per tenere in piedi la baracca, ma è una di quelle contrapposizioni basate su LO ODIO PERCHÉ È TROPPO PERFETTO e te sei lì che pensi MA SE VUOI TI PRESENTO I PAGLIACCI CHE HO CONOSCIUTO IO GUARDA. Dura poco, per fortuna, ma c’è comunque una gran flemma. I contesti sono sbozzati – sia del funzionamento di un giornale che di un fronte di guerra apprendiamo il minimo indispensabile e quel minimo è stereotipato – e ogni speranza di vedere le divinità fare qualcosa di spettacolare (almeno loro, perbacco) si inabissa all’istante. È scritto male? Ma no, ma nell’insieme è un po’ come guardare una lavatrice che gira.

Da giovane l’avrei amato? Forse sì, perché c’è questo cortese romanticismo di fondo – CORTESISSIMO – che un minimo fa il suo. Anche da piccola, però, mi sarei probabilmente aspettata più vivacità, più ricchezza di “mondo” e più ritmo. Pace, ci abbiamo provato.


[Se vi va di collaudare Storytel, vi rammento che qua si può attivare la prova gratuita “estesa” – 30 giorni invece delle canoniche due settimane.]

Dunque, Walter Fontana per me – e sospetto per la mia generazione nel suo complesso – è stato il genio che ci ha donato Frattale e Carcarlo Pravettoni, tanto per citare i miei personaggi preferiti di quell’epoca SONTUOSA di Mai Dire Gol. Già lì si perculavano con immensa creatività i tic aziendali e le gloriose megastrutture, i rapporti surreali tra umili impiegati e onnipotenti dirigenti, i dispetti da scrivania e le iniquità macroscopiche che avvelenano l’aria di ogni ufficio. Di libri suoi, però, non ne avevo ancora letti… ma il mio cammino di redenzione è iniziato ed eccoci qua con L’uomo di marketing e la variante limone, che sono particolarmente felice di aver approcciato in versione audio su Storytelil libro è riapparso da Bompiani in una nuova edizione con un piccolo expansion-pack. Nell’audiolibro troviamo Fontana che ci legge prefazione e postfazione, mentre la narrazione complessiva è affidata a Luca Ravenna – voce adattissima.

La freschezza “contenutistica” è sorprendente e, per un libro uscito originariamente nel 1995 che ambisce a fare dell’umorismo su un’epoca e su un contesto molto specifici, il fenomeno sconfina nel prodigioso. Fontana ha a lungo militato in blasonate agenzie pubblicitarie e questa storia – che un po’ è un racconto corale e un po’ è uno studio antropologico – ci colloca tra i due fuochi “classici” dell’orrida dinamica. Da una parte troviamo il cliente – colossale conglomerato che ha un nuovo detersivo al limone da lanciare – e dall’altra creativi, account, copy e tutto il cucuzzaro che costituisce un’agenzia. Riusciranno i nostri eroi a mettere insieme una campagna per Bello Bellissimo Lemon Lemon o soccomberanno senza rimedio alla fumosità del brief e ai continui ripensamenti del cliente? Il resoconto che Fontana ci offre era e resta di un’accuratezza dolorosa – verso il terzo “siete dei geni e vi facciamo tantissimi complimenti ma non ci siamo ancora” ho manifestato una gamma completa di gastriti e tic psicosomatici -, anche se si comunica via fax e non ci sono slide spettacolari da proiettare.

Al caso di studio di Bello Bellissimo, Fontana alterna dialoghi al baretto in pausa pranzo e struggenti riflessioni impiegatizie. Si parla di soldi, di processi decisionali demenziali, di intoppi, di gerarchia, di carriera, di colleghi e del quotidiano sforzo per darsi un contegno, pur sapendo perfettamente di essere dei cialtroni – se non proprio delle canaglie conclamate. Si ride assai e, anche nei frangenti più surreali e grotteschi, ho il grande onore di comunicarvi – nonostante i tanti anni che ci separano dal ‘95 – CHE È TUTTO VERO. È COSÌ CHE VA. SUCCEDE SUL SERIO. E mai più guarderete un flacone di detersivo con gli stessi occhi.

[Come ogni volta che vi segnalo un audiolibro, vi segnalo anche la possibilità di collaudare Storytel. Qua trovate un periodo di prova gratuito di 30 giorni.]